Epatite cronica C: standard di terapia e prospettive

Alessio Aghemo1, Stella De Nicola1

1UO Gastroenterologia ed Epatologia, Fondazione IRCCS Ca’ Granda Ospedale Maggiore Policlinico di Milano, Università di Milano.

Pervenuto su invito il 31 marzo 2016.

Riassunto. L’epatite cronica C è un problema sanitario di rilevanza mondiale con più di 150 milioni di persone infette nel mondo. Oggi l’infezione cronica è curabile, infatti l’arrivo di antivirali ad azione diretta (DAA) sul virus dell’epatite C (HCV) permette il raggiungimento dell’eradicazione virale nel 90-95% dei pazienti che ricevono il trattamento. Questa innovazione è stata resa possibile dallo studio del ciclo vitale di HCV e dallo sviluppo di modelli di replicazione di HCV in vitro che hanno portato alla scoperta di 3 momenti chiave nel ciclo vitale del virus che possono essere punti aggredibili per arrestare la replicazione virale. Attualmente sono disponibili in commercio in Europa farmaci che agiscono contro la proteasi NS3, la proteina NS5A e la polimerasi NS5B. Combinando questi farmaci per 12 o 24 settimane, molti pazienti HCV-positivi possono guarire dall’infezione. Il trattamento antivirale richiede ancora la gestione clinica da parti di esperti, sia per la relativa complessità e la necessità di individualizzazione dei regimi terapeutici attualmente disponibili sia per la necessità di monitoraggio degli effetti collaterali durante la terapia antivirale. Questo, unitamente al basso tasso di diagnosi nella popolazione generale e all’elevato prezzo degli DAA, è un ostacolo maggiore al trattamento universale dell’epatite C ed enfatizza la necessità dello sviluppo di regimi terapeutici pangenotipici e senza ribavirina che sono adesso in fase avanzata di sviluppo e dovrebbero arrivare sul campo nei prossimi 12-18 mesi.

Parole chiave. Antivirali ad azione diretta, virus dell’epatite C.

Chronic hepatitis C: standard of care and perspective.

Summary. Chronic hepatitis C (HCV) is a major health problem with more than 150 million people infected worldwide. It is the leading cause of cirrhosis, hepatocellular carcinoma and liver transplantation in western countries. Nowadays the disease is curable in most patients as the development of directly acting antivirals against HCV allows between 90 and 95% of patients who receive treatment to achieve viral eradication. This innovation has been made possible by the understanding of the HCV life cycle as well as the development of in vitro models of HCV replication, that have led to the discovery of 3 key steps in the HCV life cycle that can be targeted to halt viral replication. Drugs targeting the NS3 Protease, the NS5A protein as well as the NS5B polymerase are now commercially available in Europe. By combining these drugs for 12 or 24 weeks, most HCV-positive patients can be cured of their infection. Still the treatment cascade requires at the moment expert management, due to the relative complexity and need for individualization of the current regimens, as well as the need for monitoring for side effects during treatment. This, together with low diagnostic rates in the general population and high pricing of directly acting antivirals is a major hurdle to universal treatment of HCV and emphasizes the need for simplier pangenotypic, ribavirin free anti-HCV regimens that are now in advanced phase of development and should enter the field in the next 12-18 months.

Key words. Chronic hepatitis C, directly acting antivirals.

Introduzione

L’infezione cronica da virus dell’epatite C (HCV) è un problema sanitario di rilevanza mondiale che complessivamente interessa circa ١٥٠ milioni di persone1. Anche se il virus è ubiquitario, la sua prevalenza è diversa da regione a regione: esistono infatti regioni a elevata prevalenza, come l’Egitto, dove si stima che più del 10% della popolazione sia portatore cronico dell’infezione, e regioni a bassa prevalenza, come il Nord Europa2. In Europa esiste un gradiente nord-sud con tassi di prevalenza inferiori allo 0,5-1% nei Paesi scandinavi, e prevalenza intorno al 2% nei Paesi dell’area mediterranea. In Italia, la prevalenza stimata è tra l’1% e il 2%, con un significativo gradiente nord-sud, con prevalenze del 5-6% in alcune regioni del Sud Italia3.

La storia naturale dell’infezione è caratterizzata da una fase acuta, spesso asintomatica, che cronicizza in circa il 60-70% dei casi. L’epatite cronica è caratterizzata dalla deposizione di fibrosi a livello epatico che determina, in un arco di tempo di decenni, la progressione da epatite a cirrosi. La cirrosi è caratterizzata dalla presenza di noduli fibrotici che alterano la struttura funzionale e vascolare epatica esponendo il paziente al rischio di complicanze e di morte fegato-correlata. L’HCV è in grado di danneggiare anche altri organi oltre al fegato e la sua presenza si associa a numerose malattie sistemiche come il linfoma non-Hodgkin e il diabete mellito4. L’obiettivo della terapia antivirale è pertanto quello di aumentare la sopravvivenza del paziente attraverso la prevenzione della cirrosi, la riduzione o prevenzione delle complicanze epatiche ed extra-epatiche legate alla presenza del virus. Questo obiettivo è realistico in quanto l’HCV può essere eliminato in maniera definitiva dal paziente infetto tramite terapie antivirali. Questo articolo analizzerà le varie terapie antivirali disponibili, il loro impatto a livello clinico e l’impatto a livello di sanità pubblica che potranno avere nei prossimi 5 anni.

Obiettivo della terapia antivirale

L’obiettivo della terapia antivirale è l’eliminazione persistente del virus dall’organismo del paziente infetto con conseguente beneficio clinico. Per misurare questo obiettivo è stato creato un endpoint surrogato definito come risposta virologica sostenuta (SVR), ossia la negatività di HCV RNA nel sangue 12 settimane dopo il termine della terapia5. Questo endpoint, che è stato creato principalmente per determinare in un tempo ragionevole l’efficacia dei farmaci contro l’HCV, è stato a lungo considerato solo un endpoint surrogato e non un vero marcatore di guarigione. Negli ultimi 5 anni sono però emerse numerose evidenze che ottenere la SVR può essere considerata la guarigione definitiva dall’epatite cronica C6. La SVR si è mostrata infatti duratura, ossia il 99% di coloro che la ottengono rimangono HCV RNA-negativi dopo 7 anni7. Inoltre, la SVR, quando ottenuta in pazienti senza cirrosi, riduce l’incidenza di diabete, di linfoma non-Hodgkin, di complicanze cardiovascolari e allunga la sopravvivenza dei pazienti8. In pazienti con cirrosi compensata l’ottenimento della SVR determina la regressione della cirrosi in circa il 60% dei casi dopo 5 anni9, previene lo scompenso epatico e l’emorragia digestiva e riduce di circa 10 volte il rischio di sviluppare tumore primitivo del fegato9. Questi benefici si traducono in un’aumentata sopravvivenza dei pazienti cirrotici che hanno ottenuto una SVR rispetto a pazienti non trattati o non guariti. Un recente studio italiano che ha analizzato 3 ampie coorti di pazienti cirrotici SVR ha dimostrato in questo gruppo di pazienti una sopravvivenza stimata sovrapponibile alla popolazione generale italiana11.

Schemi terapeutici contro l’epatite cronica C

Interferone e ribavirina

I potenziali benefici dell’ottenimento della SVR si sono scontrati per decenni con la mancanza di regimi terapeutici efficaci e sicuri. A causa della mancanza di metodi di replicazione in vitro di HCV, sviluppati solo nel 1999, per decenni la terapia antivirale è stata basata su farmaci introdotti empiricamente, con meccanismo d’azione spesso non noto o aspecifico. Sono queste le caratteristiche dell’interferone (IFN) alfa e della ribavirina. L’IFN-alfa è stato utilizzato per la prima volta nel 1986 in uno studio pilota su pazienti con infezione non-A non-B dimostrando la capacità di normalizzare le transaminasi in una percentuale dei casi. L’IFN agisce stimolando l’attivazione di geni specifici (ISGs) implicati nel controllo dell’immunità innata che, quando attivati da IFN circolante, determinano un’aspecifica risposta antivirale12. Questo meccanismo di azione è anche responsabile degli effetti collaterali significativi del farmaco che includevano sintomi come febbre, astenia, ma anche condizioni più gravi come depressione, ideazione suicidaria, neutropenia, piastrinopenia e alterazioni della funzione tiroidea. Oltre al profilo di sicurezza non ottimale, l’IFN, se utilizzato in mono-terapia, otteneva tassi di risposta virologica insoddisfacenti, largamente dipendenti da genotipo virale, caratteristiche dell’ospite e stadio di malattia. Nel caso di un ipotetico paziente maschio con cirrosi, genotipo 1b (il più frequente in Italia) e diabete il tasso di SVR con IFN in monoterapia non superava il 15%. Un significativo passo in avanti è stato fatto con l’introduzione della ribavirina13, un analogo guanosinico con debole attività antivirale, ma spiccata capacità di aumentare l’efficacia dell’IFN, portandola a circa il 40% nei pazienti con genotipo 1 e 4, e al 70-80% nei pazienti HCV-2 o 3. Gli esatti meccanismi di azione sono ancora largamente sconosciuti e si basano su più teorie:

effetto immunomodulante;

modificazioni epigenetiche della trascrizione degli ISGs;

inibizione di IMPDH;

effetto antivirale diretto (figura 1).

È probabile che questi svariati meccanismi di azione, di cui nessuno è sufficiente a spiegare l’effetto di ribavirina concorrano nel determinarne la sua efficacia che è ristretta alla sola associazione con altri antivirali e non è descritta quando ribavirina viene data in monoterapia. L’aumento dell’efficacia ottenibile con l’aggiunta di ribavirina è però gravata dall’aumento degli effetti collaterali, in quanto l’uso di ribavirina può determinare effetti collaterali come anemia emolitica, patologie dermatologiche e linfopenia.

Gli antivirali ad azione diretta

Per i motivi sopra elencati, la ricerca farmacologica nel campo dell’epatite C ha cercato di sviluppare farmaci orali ad azione diretta contro HCV che non richiedessero l’uso di IFN. Questo sogno è diventato realtà grazie a 2 fattori: lo sviluppo di un metodo di replicazione in vitro per HCV che permettesse di testare molecole in grado di bloccare la replicazione virale e la conoscenza dei meccanismi di replicazione virale all’interno degli epatociti.

Nonostante tutti i momenti del ciclo di replicazione del virus HCV siano potenzialmente aggredibili farmacologicamente, è emerso piuttosto rapidamente che 3 proteine non strutturali (NS) potessero rappresentare obiettivi ideali da bloccare per ottenere l’eliminazione del virus (figura 2). Queste proteine sono la NS3 proteasi che è fondamentale per clivare le singole proteine virali necessarie per la replicazione di HCV, la proteina NS5A che stabilizza il macchinario di replicazione ed è implicata nella sintesi e rilascio del virus oltre che la polimerasi NS5B, l’enzima chiave per la replicazione virale in quanto è la proteina del virus che sintetizza il nuovo filamento di RNA virale.

I primi antivirali ad azione diretta (DAA) contro HCV a entrare in commercio furono gli inibitori delle proteasi di prima generazione, telaprevir e boceprevir14,15. Per quanto questi farmaci fossero rivoluzionari come meccanismo di azione, soffrivano di molti limiti. Innanzitutto, erano attivi solo contro il genotipo 1, limitandone di fatto l’impatto clinico. Inoltre, questi farmaci avevano una bassa barriera genetica e pertanto non riuscivano a bloccare in maniera significativa e mantenuta la replicazione virale senza selezionare varianti virali resistenti che di fatto emergevano portando alla perdita della risposta virologica. Per questo motivo sia telaprevir sia boceprevir dovevano essere utilizzati in combinazione con IFN e ribavirina, limitandone ancora di più l’impatto clinico. Telaprevir e boceprevir avevano inoltre un profilo di sicurezza subottimale in quanto causavano anemia, rash cutaneo e disgeusia, generando un impatto negativo sulla qualità della vita nei pazienti trattati. Nonostante questi fattori negativi che hanno diminuito l’importanza di questi farmaci nello scenario dell’epatite C, telaprevir e boceprevir hanno determinato un significativo incremento nell’efficacia di IFN e ribavirina, aumentando la SVR a circa il 70% complessivamente, con tassi maggiori nei pazienti sensibili all’IFN e con grado di fibrosi lieve moderato.

In parallelo allo sviluppo di inibitori delle proteasi sono stati sviluppati gli inibitori delle polimerasi, divisi in 2 classi: gli inibitori nucleosidici (che bloccano la replicazione virale tramite legame con il sito catalitico della polimerasi, dove vengono incorporati nel RNA nascente in sostituzione di nucleotidi necessari per la polimerizzazione del virus) e gli inibitori non nucleosidici (che modificano la struttura allosterica della polimerasi NS5B riducendone quindi l’attività di replicazione). Questa categoria di farmaci, che era subito apparsa promettente come efficacia antivirale, ha subìto numerosi rallentamenti a causa di casi di tossicità sistemica di alcuni farmaci in fase di studio e per questo motivo ha richiesto più tempo per la commercializzazione.

L’inibitore della NS5B nucleosidico sofosbuvir è entrato in commercio nel dicembre 2013 in combinazione con ribavirina per i pazienti genotipo 2,3 e 4 e in combinazione con IFN e ribavirina nei pazienti HCV-116. Sofosbuvir è caratterizzato dall’essere pangenotipico e dall’avere alta barriera genetica, caratteristiche che di fatto lo hanno reso il partner ideale per creare terapia antivirali contro HCV prive di IFN.




I regimi privi di interferone

Lo sviluppo di regimi privi di IFN può essere considerato uno dei maggiori progressi in campo medico/farmacologico degli ultimi 10 anni. L’IFN è stato infatti una barriera al trattamento antivirale per l’epatite C in quanto limitava l’accesso al trattamento a causa di controindicazioni specifiche e pessima tollerabilità. Condizione necessaria per poter sviluppare un trattamento antivirale privo di IFN era quello di avere farmaci con elevata potenza antivirale ed elevata barriera genetica, ossia farmaci che permettessero di bloccare la replicazione di HCV e che mantenessero questo blocco per una durata sufficiente a permettere l’eliminazione/degradazione del virus dagli epatociti infetti o l’eliminazione/turnover degli epatociti infetti. Il ruolo principale dell’IFN era infatti quello di portare all’eliminazione di HCV dagli epatociti infetti tramite un’attivazione della risposta immunitaria innata. Le caratteristiche ideali di potenza ed elevata barriera genetica sono state ottenute con due strategie differenti: combinando un farmaco ad alta barriera genetica come sofosbuvir con un altro farmaco a bassa/media barriera genetica (inibitore NS3 proteasi o inibitore NS5A) oppure combinando tre farmaci a bassa barriera genetica, come un inibitore delle proteasi, un inibitore della NS5A e un inibitore non nucleosidico della NS5B polimerasi17. Queste due strategie, più che altro frutto di necessità di sviluppo commerciale piuttosto che di scelte razionali, sono a oggi le uniche a offrire efficacia elevata ai pazienti con epatite cronica C. L’unica esenzione a questo dogma è il caso del genotipo virale 2, in cui 12-24 settimane di solo sofosbuvir e ribavirina offrono al paziente circa il 95% di efficacia virologica18.

Siccome solo sofosbuvir e l’inibitore della NS5A daclatasvir sono farmaci pangenotipici, ossia possiedono azione antivirale su tutti i genotipi di HCV, attualmente è richiesta un’ottimizzazione di schemi e durate a seconda del genotipo infettante. Gli schemi disponibili approvati da EMA e AIFA per i singoli genotipi sono rappresentati in tabella 1. La ribavirina, in alcuni casi, è ancora parte integrante dello schema ottimale di terapia, per esempio nei pazienti con genotipo 1a-4 che ricevono paritaprevir/ombitasvir/dasabuvir o nei pazienti HCV genotipo 3 con cirrosi che ricevono sofosbuvir in combinazione con daclatasvir. In altri casi, la ribavirina permette l’accorciamento della durata di terapia a 12 settimane (contro 24) in pazienti con cirrosi epatica. Non va però sottovalutato il fatto che la ribavirina ha effetti collaterali che possono essere anche significativi; trattamenti comprendenti ribavirina mostrano una peggiore qualità di vita per i pazienti rispetto a trattamenti privi di ribavirina. Inoltre, la ribavirina è stata recentemente associata ad acidosi lattica in pazienti con malattia scompensata. Per questo motivo sono in fase di sviluppo numerosi regimi privi di ribavirina per i pazienti con epatite cronica C che avrebbero lo scopo di migliorare la tollerabilità, semplificando, inoltre, il monitoraggio della terapia.




I regimi privi di IFN in fase di sviluppo

Per quanto le combinazioni antivirali illustrate in tabella riescano a offrire efficacia e sicurezza elevata in praticamente tutti i gruppi di pazienti con epatite C, esistono ancora necessità irrisolte che richiedono lo sviluppo di nuovi antivirali diretti. Tra questi gruppi è sicuramente incluso quello dei pazienti HCV con grave insufficienza renale, in dialisi o che ha subìto trapianto renale. La prevalenza di infezione cronica HCV è piuttosto elevata in questo gruppo di persone per svariati motivi: innanzitutto esiste una diretta correlazione tra infezione HCV e danno renale, con meccanismo di danno diretto da parte di HCV, oppure attraverso la deposizione di immunocomplessi legati alla produzione di crioglobuline oppure attraverso una glomerulosclerosi conseguente al diabete, patologia che trova incidenza maggiore nei pazienti HCV rispetto alla popolazione generale. Inoltre, nei pazienti dializzati o trapiantati di rene a causa dell’elevato rischio di trasmissione di HCV che in passato si associava alle procedure dialitiche, è segnalata una prevalenza di infezione cronica da HCV circa 10 volte maggiore rispetto alla popolazione generale. Nel paziente trapiantato di rene la presenza di HCV ha un effetto negativo in quanto si associa a elevato rischio di perdita del graft e aumentata mortalità da ogni causa, identificando quindi questi pazienti come pazienti a elevata priorità per il trattamento.

La difficoltà clinica nel gestire questi pazienti nasce dal fatto che i regimi basati sul sofosbuvir sono difficilmente gestibili in pazienti con danno renale di stadio >4, ossia con filtrato glomerulare stimato (eGFR) <30 ml/min/m2. Il motivo è che il sofosbuvir è un farmaco a eliminazione renale e, nella fase preclinica, quando studiato in volontari sani con eGFR<30 ml/min, raggiungeva concentrazioni fino al 170% superiori a quanto osservato in persone con eGFR normale. Per quanto a oggi non sia stato segnalato alcun particolare effetto collaterale quando il sofosbuvir è stato utilizzato in persone con danno renale di stadio ٤-٥, le più recenti raccomandazioni di trattamento non supportano il suo utilizzo in questa categoria di pazienti. Altri regimi, come la combinazione di paritaprevir/ombitasvir/dasabuvir, possono essere utilizzati in pazienti con danno renale, ma purtroppo sono efficaci solo sui genotipi virali 1 e 419, possiedono interazioni farmacologiche significative che ne complicano l’uso nei pazienti trapiantati e, infine, non possono essere utilizzati in pazienti con cirrosi scompensata in quanto associati a rischio di tossicità epatica significativa.

La commercializzazione nei prossimi mesi del regime a base di grazoprevir (inibitore delle proteasi) ed elbasvir (inibitore della proteina NS5A) in parte dovrebbe portare a un miglioramento della gestione clinica dei pazienti con funzione renale alterata, anche se purtroppo il suddetto regime non possiede attività pangenotipica e pertanto è limitato al genotipo 1 e 4. Dodici settimane di grazoprevir ed elbasvir sono state osservate in pazienti con danno renale di stadio 4-5 all’interno dello studio C-SURFER20. Tale studio ha arruolato 224 pazienti con genotipo 1, ottenendo un tasso di SVR del 94%. Nello studio non sono emersi particolari segnali per effetti collaterali imprevisti, e complessivamente solo il 4% ha dovuto sospendere il trattamento antivirale. Il vantaggio principale di questo trattamento sta nelle ridotte interazioni con altri farmaci, specialmente gli immunosoppressori che ne dovrebbero permettere l’uso in sicurezza in persone trapiantate di rene.

Un secondo problema clinico che assumerà maggiore rilevanza nei prossimi anni è il ritrattamento di pazienti che hanno fallito uno degli attuali regimi privi di IFN. Vista l’alta prevalenza di HCV nel mondo, questo numero di persone sarà numericamente rilevante anche di fronte all’elevata efficacia delle attuali terapie. Nei pazienti con fallimento a regimi privi di IFN tendono a selezionarsi varianti virali resistenti ai farmaci contro HCV che il paziente ha ricevuto. Infatti, sotto la pressione farmacologica, in caso di non completo blocco della replicazione di HCV a livello intracellulare, vengono selezionate varianti virali che presentano modifiche della struttura delle proteine obiettivo dei farmaci anti-HCV (RAV). Queste RAV sono già presenti prima di iniziare il trattamento, ma rappresentano solo una minoranza delle unità di virus presenti nel singolo paziente. In caso di fallimento queste RAV diventano maggioritarie e, se in grado di replicarsi attivamente, persistono come variante maggioritaria per anni. Questo è vero specialmente per le varianti virali nella proteina NS5A che rimangono come varianti dominanti a 1-2 anni dalla fine del trattamento antivirale. Poiché gli inibitori della proteina NS5A (ledipasvir, daclatasvir e ombitasvir) sono presenti nella maggior parte delle attuali prime linee terapeutiche, è facile capire come il ritrattamento di pazienti con RAV contro NS5A sarà un problema clinico rilevante nei prossimi anni. Secondo le più recenti raccomandazioni europee per il trattamento di HCV, questi pazienti andrebbero ritrattati con un farmaco a elevata barriera genetica e un farmaco che non abbia resistenza crociata con i farmaci che il paziente ha già ricevuto combinando la ribavirina17. Per fare un esempio, un ipotetico fallimento a sofosbuvir/ledipasvir dovrebbe ricevere sofosbuvir insieme a un inibitore delle proteasi come simeprevir, con l’aggiunta di ribavirina. Per quanto questa terapia si sia dimostrata valida in un piccolo studio in Francia, l’efficacia di questo regime è limitata ai soli genotipi 1 e 4 e ai pazienti con funzione epatica conservata20.

Questo vuoto clinico sarà riempito nei prossimi anni dall’arrivo di farmaci di seconda-terza generazione con elevata barriera genetica ed efficaci anche contro varianti resistenti ai DAA di prima generazione. Anche se questi regimi sono in fase preliminare, i risultati iniziali sono promettenti.

Lo scenario futuro di HCV

È ragionevole pensare che con l’arrivo di DAA di terza generazione la maggior parte dei problemi clinici sarà stata risolta. Nei prossimi due anni disporremo di farmaci in grado di offrire tra il 90% e il 95% di SVR a tutti i pazienti con infezione cronica C, indipendentemente da genotipo virale, stadio di malattia, precedente trattamento antivirale e concomitanti comorbilità. Questo miglioramento del nostro armamentario clinico rischia, però, di essere spuntato se non viene associato a un aumentato accesso al trattamento antivirale dei pazienti con epatite cronica C. In passato, l’accesso al trattamento è stato limitato anche nei Paesi più virtuosi, con meno del 2-3% dei pazienti HCV trattati per anno. Sicuramente, il profilo di sicurezza ed efficacia delle terapie basate su IFN ha avuto un peso preponderante in questo basso tasso di trattamenti, ma altri fattori, a oggi non ancora risolti, continuano a costituire un ostacolo all’accesso ai farmaci antivirali per i pazienti con epatite cronica C.

Il tasso di diagnosi è sicuramente ancora basso in molti Paesi europei, Italia inclusa, con ampie zone dell’Est Europa dove meno del 30% delle persone infettate da HCV ne è a conoscenza. Ugualmente limitato è il numero di persone del comparto sanitario che si occupa di trattamento dell’epatite C. A oggi, il trattamento antivirale è infatti riservato a gastroenterologi, infettivologi e internisti, che rappresentano una forza troppo limitata per gestire milioni di persone infettate. Per questo motivo, se si vuole tradurre il progresso farmacologico in progresso reale per i pazienti a livello di sanità pubblica, è necessario disegnare strategie di eliminazione di HCV basandosi sull’epidemiologia nazionale per identificare i gruppi di persone asintomatiche da sottoporre a screening mirato per la diagnosi. Per collegare poi la diagnosi al trattamento, è necessario allargare il numero di medici o infermieri deputati a trattare l’epatite C. Passando, quindi, da strutture di riferimento centralizzate a strutture sul territorio. Questo processo richiede, però, una semplificazione del trattamento e del monitoraggio del trattamento antivirale tramite l’uso di farmaci pangenotipici senza ribavirina, oltre che una drastica riduzione dei prezzi dei farmaci per il sistema sanitario. È chiaro, quindi, che solo attraverso uno sforzo congiunto di medici, politici, pazienti, società civile e case farmaceutiche sarà possibile immaginare un’Europa libera da HCV nei prossimi 20 anni.

Confitto di interessi: Alessio Aghemo ha partecipato ad Advisory Board per conto di Gilead Sciences, MSD, AbbVie, Janssen, BMS; ha fatto parte di Speaker Bureau per Gilead Sciences, MSD, AbbVie, Janssen, BMS. Stella De Nicola: nessuno.

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