Medicina e letteratura

Da: Mi chiamo Lucy Barton

di Elizabeth Strout

Torino: Einaudi, 2016; pp. 3-9

Mi avevano ricoverata per un’appendicite

Ci fu un tempo, ormai molti anni fa, in cui dovetti trascorrere quasi nove settimane in ospedale. Succedeva a New York e la notte, dal mio letto, vedevo davanti a me il grattacielo Chrysler con la sua scintillante geometria di luci. Il giorno spegneva la bellezza dell’edificio che, a poco a poco, ridiventava solo l’ennesima immane architettura stagliata contro il cielo azzurro e, come le altre, remota, silenziosa, altera. Era il mese di maggio e poi di giugno e ricordo che me ne andavo alla finestra a guardare il marciapiede sotto di me e a osservare le donne giovani – cioè della mia età – in abiti leggeri, a spasso nella pausa pranzo; le vedevo chiacchierare muovendo la testa, mentre le loro camicette tremavano riempiendosi di brezza. E pensavo che mai e poi mai, una volta dimessa dall’ospedale, avrei potuto andare a passeggio senza ringraziare il cielo di essere di nuovo una di quelle donne, e per molti anni lo feci: mi rivedevo mentalmente alla finestra dell’ospedale e mi sentivo felice di calcare un marciapiede.

All’inizio, la storia era semplice: mi avevano ricoverata per un’appendicite. Due giorni dopo l’intervento mi diedero da mangiare, ma non riuscivo a trattenere nulla. Poi sopraggiunse la febbre. Nessuno fu in grado di isolare il batterio responsabile, né di spiegarsi che cosa fosse andato storto. Non s’è mai saputo. Avevo due flebo: una per i liquidi e una per gli antibiotici. Stavano appese a un trabiccolo metallico che mi portavo in giro, ma mi stancavo con facilità. Verso l’inizio di luglio, il misterioso problema che mi affliggeva si risolse. Ma fino ad allora vissi una condizione insolita – un’attesa letteralmente febbrile – che mi angosciava. A casa avevo un marito e due figlie piccole; le bambine mi mancavano tremendamente e la mia ansia per loro era tale che temevo potesse influire sul mio stato di salute. Il mio medico, per il quale provavo un senso di profondo affetto, era un ebreo facciuto e oppresso dal peso di una tristezza gentile – i suoi genitori e tre zie, gli avevo sentito raccontare a un’infermiera, erano stati uccisi nei campi, e ora, a New York, aveva moglie e quattro figli adulti; ebbene, credo che questo brav’uomo si fosse impietosito e avesse fatto in modo che le mie piccole, di cinque e sei anni, potessero venire a trovarmi, a condizione che non avessero malattie in corso. Mi furono portate in camera accompagnate da un’amica di famiglia, e io notai subito che avevano il faccino e i capelli sporchi e quindi le cacciai sotto la doccia e mi c’infilai anch’io, con tutta l’asta delle flebo, mentre loro esclamavano: «Come sei magra, mamma!» Erano spaventatissime. Vennero a sedersi sul mio letto per farsi strigliare con l’asciugamano e poi si misero a disegnare, ma non erano tranquille, lo so perché non si interrompevano in continuazione per dirmi: «Mamma, guarda, ti piace? Mamma, hai visto il vestito della mia fata principessa?» Parlavano pochissimo, la più piccola poi sembrava non riuscire ad aprire bocca, e quando l’abbracciai, la vidi tirar fuori il labbro sul piccolo mento tremulo; era un cosino minuscolo e ce la metteva tutta per mostrarsi coraggiosa. Quando se ne andarono evitai di guardare dalla finestra mentre si allontanavano con l’amica che me le aveva portate e che non aveva figli suoi.

Mio marito, naturalmente, aveva il suo daffare a mandare avanti la casa e il lavoro e di rado aveva il tempo di venirmi a trovare. Appena conosciuti mi aveva confessato che odiava gli ospedali – suo padre era morto in ospedale quando lui aveva quattordici anni – e adesso mi rendevo conto che non diceva per dire. Nella prima stanza in cui mi sistemarono avevo accanto una vecchia agonizzante; non faceva che chiedere aiuto – mi colpiva quanto le infermiere non le badassero mentre lei gridava che stava morendo. Mio marito non riusciva a sopportarlo, nel senso che non sopportava di venire a trovarmi lì, e mi fece spostare in una singola. La nostra assicurazione non copriva simili lussi e ogni giorno di ricovero era un salasso per i nostri risparmi. Fui sollevata di non sentire più le grida di quella povera donna, ma se qualcuno avesse intuito quanto mi sentivo sola, mi sarei vergognata. Ogni volta che arrivava un’infermiera a prendermi la temperatura, cercavo di trattenerla qualche minuto, ma avevano tutte da fare e non potevano permettersi di perdere tempo in chiacchiere.




Un pomeriggio, più o meno tre settimane dopo il ricovero, girai lo sguardo dalla finestra e vidi mia madre seduta ai piedi del letto. – Mamma? – dissi.

– Ciao, Lucy, – disse lei. La sua voce mi parve timida, ma inderogabile. Si chinò e mi strinse un piede attraverso il lenzuolo. – Ciao, Bestiolina, – disse. Non vedevo mia madre da anni; continuavo a fissarla, non capivo come mai mi sembrasse tanto cambiata.

– Mamma, come sei arrivata qui? – le chiesi.

– Oh, ho preso un aereo –. Sventolò le dita, e capii che l’emozione era troppa per i nostri gusti. Perciò le risposi anch’io con un cenno della mano e tornai a coricarmi. – Vedrai che guarisci, – aggiunse con la stessa voce timida e inderogabile di poco prima. – Non ho fatto nessun sogno.

Che lei fosse lì, che mi chiamasse con quel vezzeggiativo che non usava da una vita, mi fece sentire dentro il tepore di un liquido caldo, come se tutta la mia tensione fosse stata un grumo solido e adesso non lo fosse più. Di solito mi svegliavo verso mezzanotte e di lì in poi sonnecchiavo in modo discontinuo, oppure restavo sveglia a fissare le luci della città dalla finestra. Quella notte invece dormii un sonno filato e la mattina mia madre era seduta dove stava il giorno prima. – Non importa, – disse, quando le chiesi. – Lo sai che non dormo tanto.

Le infermiere si offrirono di portarle una branda, ma lei scosse la testa. Scuoteva la testa ogni volta che un’infermiera tornava a proporgliela. Dopo un po’ smisero di chiedere. Mia madre rimase con me per cinque notti, e dormì sempre seduta sulla stessa sedia.

Durante il primo giorno insieme ci parlammo ogni tanto; credo che nessuna delle due sapesse come comportarsi. Mi fece qualche domanda sulle mie bambine e io risposi, avvampando: – Sono fantastiche, – dissi. – Sì, sono una meraviglia –. Su mio marito, mia madre non fece domande, anche se – me lo disse lui al telefono – era stato lui a chiamarla per chiederle di venire a stare con me, a pagarle il biglietto dell’aereo, a offrirsi di andarla a prendere all’aeroporto; mia madre, che non era mai salita su un aereo in vita sua. Nonostante lei avesse risposto che prendeva un taxi, nonostante il suo rifiuto di incontrarlo di persona, mio marito le aveva comunque fornito indicazioni e soldi per arrivare da me. E adesso, seduta su una sedia ai piedi del mio letto, mia madre non diceva niente neppure di mio padre, perciò evitai anch’io di parlarne. Continuavo ad augurarmi che dicesse: «Tuo padre spera che tu guarisca presto», ma non lo disse.

– Hai avuto paura a prendere il taxi, mamma?

Esitò e a me parve di percepire il terrore che doveva averla colta quando era scesa dall’aereo. Ma disse: – La lingua ce l’ho, e so farla funzionare.

Dopo un attimo dissi: – Mi fa tanto piacere che tu sia qui.

Sorrise frettolosamente e si voltò verso la finestra.

Eravamo alla metà degli anni Ottanta, non c’erano ancora i cellulari e quando il telefono beige accanto al letto squillava ed era mio marito – sono sicura che mia madre lo capiva dal modo dolente in cui dicevo «Ciao», come se fossi sul punto di scoppiare a piangere – lei si alzava dalla sedia senza far rumore e usciva dalla stanza. È probabile che approfittasse di quelle pause per andare al bar a prendersi qualcosa da mangiare, o per chiamare mio padre dal telefono pubblico in fondo al corridoio, perché io non la vedevo mai mangiare e immaginavo che mio padre volesse sapere come se la cavava – visto che tra loro, per quanto ne sapevo, andava tutto bene – e poi, dopo che avevo parlato con ciascuna delle bambine e baciato il ricevitore una decina di volte e mi ero già appoggiata sul cuscino e avevo chiuso gli occhi, penso che mia madre rientrasse in punta di piedi nella stanza, perché quando aprivo gli occhi lei era di nuovo lì.

Il primo giorno parlammo di mio fratello, il maggiore di noi tre che, non essendosi sposato, abitava ancora in casa, nonostante avesse trentasei anni, e di mia sorella maggiore, che ne aveva trentaquattro e stava a dieci miglia dai miei, con cinque figli e un marito. Chiesi se mio fratello lavorava. – Non ha un lavoro, – disse mia madre. – Passa le notti insieme a qualsiasi animale che venga ammazzato l’indomani –. Le chiesi cosa stava dicendo, e lei ripeté le stesse parole. E aggiunse: – Va nella stalla dei Pederson e si corica vicino ai maiali che il giorno dopo vanno al mattatoio –. Questa cosa mi sbalordì, e glielo dissi, e mia madre si strinse nelle spalle.

Poi parlammo delle infermiere; mia madre le ribattezzò una a una quasi subito. C’era la «Biscottino», quella secca di corpo e di modi, c’era la «Maldidenti», la più vecchia, dall’aria eternamente afflitta, e poi c’era la «Brava Bambina», l’indiana che piaceva a tutte e due.

Io però ero stanca e così mia madre cominciò a raccontarmi aneddoti di persone che avevo conosciuto molto tempo prima. Parlava in un modo che non ricordavo, come se parole, sentimenti e osservazioni le si fossero accalcati dentro per anni e adesso le uscissero in un sussurro disinibito. Di quando in quando mi appisolavo e, al risveglio, la pregavo di parlare ancora. Ma lei diceva: – Su, Bestiolina, adesso devi riposare.

– Ma sto già riposando! Per favore, mamma. Raccontami qualcosa. Una storia qualunque. Dimmi di Kathie Nicely. Mi è sempre piaciuto tanto quel nome.

– Ah, già, Kathie Nicely. Santo cielo, che brutta fine ha fatto.