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Se non fosse un’espressione fuori luogo, a usarla parlando di cancro, si potrebbe dire che quello dell’oncologia è un mondo di inguaribili ottimisti. La prova più recente viene dalla campagna pubblicitaria della rete di centri ospedalieri Cancer Treatment Centers of America (CTCA), che ha investito più di 100 milioni di dollari in pubblicità televisiva, sui giornali e su internet. L’obiettivo? Far preferire questo network di piccoli centri specializzati agli istituti più noti. Dal punto di vista della promozione, MD Cancer Center e Memorial Sloan Kettering Cancer Center sembrano tirchi, in confronto al CTCA: solo 13,9 e 9,1 milioni di dollari spesi, rispettivamente (Vater LB, Donohue JM, Park S, Schenker Y. Trends in cancer-center spending on advertising in the United States, 2005 to 2014. JAMA Intern Med, Published online July 11, 2016).

Come sempre più spesso accade, il bicchiere della pubblicità è mezzo pieno e usa le voci dei pazienti: da un’assistenza competente e personalizzata riceverebbero maggiore speranza. Non cure più appropriate o efficaci: speranza. Peccato che un’inchiesta della Reuters ha evidenziato che le statistiche della CTCA (apparentemente lusinghiere) siano distorte da una serie di bias che vanno dall’età dei pazienti (inferiore alla media) al precoce stadio di malattia fino al reddito tale da garantire una buona copertura assicurativa: tutti fattori che possono aver favorito la tendenza a servirsi della CTCA, che quasi sempre prevede che il malato debba accettare lunghi viaggi per raggiungere uno dei cinque centri ospedalieri presenti sul territorio degli Stati Uniti.

I centri della CTCA – come diversi altri istituti tra quelli che più spendono per la pubblicità ai pazienti – non sono tra i 69 Designated Cancer Center (DCC) da parte nel National Cancer Institute (NCI), riconosciuti per la competenza che li rende una guida per l’intera comunità scientifica americana (vedi http://www.cancer.gov/research/nci-role/cancer-centers). Molto opportunamente, il NCI sottolinea che non soltanto i DCC devono esemplarmente tradurre nella clinica le evidenze della ricerca, ma – essendo diversi di loro localizzati in realtà sociali e demografiche peculiari – devono anche sviluppare delle policy assistenziali e organizzative originali, che – se efficaci – possano essere recepite dalla sanità statunitense. Infine, dei cinque centri CTCA ben tre non sono accreditati dal programma dell’American College of Surgeons, non avendo conseguito i minimi requisiti di performance assistenziale.

L’articolo di Rebecca Robbins pubblicato l’11 luglio 2016 su Stat (https://www.statnews.com/2016/07/11/for-profit-cancer-centers-advertising/) finisce non solo con l’essere un atto di accusa nei confronti di un network assistenziale privato. È soprattutto l’ennesima dimostrazione dei problemi che possono nascere in un sistema sanitario in cui la componente privata è prevalente: in un contesto del genere, la medicina è un bene da consumare, talvolta a prescindere dalla propria salute e quasi sempre senza una relazione evidente con i benefici che se ne possono trarre.

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