Cinema e medicina

a cura di Luciano De Fiore

La realtà e il reale
Su Nocturnal animals, di Tom Ford

Gufi e pipistrelli sono animali notturni, ma anche topi e giaguari. Per caratteristiche e comportamenti, vivono al buio, più che di giorno. Come Susan (Amy Adams), rossa sulla soglia dei quaranta, direttrice di una galleria d’arte, sposata con Hutton (Armie Hammer), per il quale vent’anni prima ha lasciato su due piedi un marito che l’amava davvero, Edward (Jake Gyllenhaal), scrittore in erba ma senza un dollaro.

Susan dorme poco: il suo mestiere le offre mille occasioni mondane, e poi è insoddisfatta da sempre, e da sempre è insonne. Il film si apre con una vernice nella sua sontuosa galleria di LA: espone una serie iperconcettuale di videoclip, in cui danzano delle cheerleaders obese e sfatte. Il contrasto non è però quello, provocatoriamente dichiarato, tra l’algido formalismo stiloso dell’ambiente e del pubblico e le carni sudate, ma autentiche delle modelle improvvisate. Susan non ha occhi per capire che l’opposizione vera è, una volta di più, tra l’artificio e la vita: che poi è il tema di questo secondo, bel film di Tom Ford. Gli splendidi occhi viola di Susan non le consentono di vedersi: lei non è (più) viva.

In gioventù, Edward l’aveva sposata per spartire la chiamata all’arte. Dopo una breve stagione di speranze condivise, Susan aveva scelto di lasciarlo, preferendo il confort di un’esistenza deformata dal prisma dell’opulenza, ricalcata sul modello genitoriale. Ford, stilista di grido, disegna con eleganza luttuosa gli interni californiani del villone dove la gallerista abita, a tratti, col nuovo marito.

Rientrata a casa dal vernissage, Susan si ritrova sola as usual - Hutton è a New York, intento all’ennesimo tradimento. In una busta, trova il manoscritto di un romanzo – Nocturnal Animals – che Edward, il suo ex, le ha spedito, insieme alla disponibilità ad un incontro. S’immerge nella lettura. E qui bisogna plaudire al montaggio eccellente di Joan Sobel, asso nella manica di una regìa comunque attenta e parca nei movimenti di macchina, capace di tenere insieme tre livelli narrativi: il passato di Susan ed Edward, il presente di Susan e la vicenda narrata nel romanzo di Edward.

Il racconto è atroce. Una storia di assassini e di vendetta. Il cuore del film è la lunga, disperante scena notturna in cui, nella piana desolante del Texas occidentale, su una highway solitaria del tutto altra rispetto al groviglio di viadotti e svincoli del cuore di Los Angeles ripresa dall’alto all’inizio del film, una macchina con tre balordi prima infastidisce e poi costringe a fermarsi la Mercedes condotta da Tony Hastings, marito di Laura e padre della sedicenne India. Le strategie difensive di Tony e delle donne sono povere di aggressività e di trovate: i tre balordi si tramutano rapidamente in rapitori, violentatori e assassini di Laura e India. Gli animali notturni si dividono infatti tra prede e cacciatori, e i tre sono veri predatori della notte, ai quali Tony non sa opporre altro che la propria rabbia e la propria impotenza metropolitana. Spersa, tra i cespugli rotolanti e i mulinelli di polvere della piana desertica.

Fin quando, a cose fatte, non trova una sponda alla propria disperazione nel detective texano Bobby Andes (Michael Shannon) che, in stivali a punta e Stetson, ma soprattutto malato di cancro ai polmoni, è deciso e cinico come solo chi non ha nulla da perdere può permettersi. E che gli fornisce la chiave per convertire la rabbia in vendetta. I tre finiranno uccisi, in un crescendo di orrori.

Susan è sconvolta dalla lettura. Sente che il manoscritto di Edward è a sua volta una vendetta: per esser stato lasciato, per aver dovuto sopportare lo svuotamento subitaneo della propria vita e delle proprie attese, per aver dovuto digerire l’aborto di Susan. La creatura mai nata diviene allora, nella finzione romanzesca, India adolescente, stuprata e sgozzata dai banditi. Edward ha dovuto patire e sopportare il costo della sua solitudine, per vent’anni, e infine presenta il conto all’ex moglie.

L’indigeribilità del reale dovrebbe venir mediata dalla scrittura, dall’arte. Dal draft del romanzo. Dal film. Sappiamo che quel che Susan vede non è vero, che è almeno a due gradi di irrealtà, dal momento che ciò che si sta autoproiettando è il suo proprio film privato, una sorta di versione cinematografica del racconto che Edward ha mandato all’ex moglie. Il cazzotto però arriva lo stesso, anche attraverso la finzione: non c’è sublimazione che tenga, per quanto la parola di Ed sia stata in grado di mettere in forma l’angoscia e di mediarla all’ex moglie. Susan sente di aver commesso lo sbaglio della sua vita, lasciando Edward. Sente che la rinuncia alle proprie pulsioni essenziali l’ha privata del futuro, sente di non esser stata capace di individuare, e poi di restar fedele, al proprio desiderio. E vorrebbe rimediare, riallacciare una relazione con Ed.

Ma certi treni non passano più. E così resterà inchiodata alla propria solitudine, incartata come una morbida caramella in un bellissimo abito verde che nessuno apprezzerà, dal momento che aspetterà inutilmente Edward in un ristorante patinato, l’ennesimo di una vita che ha scelto troppo a lungo di essere fiction.