Dalla letteratura

In collaborazione con l’Associazione Alessandro Liberati – Network Italiano Cochrane
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Evitare le riviste d’assalto

Dai National Institutes of Health (NIH) arriva una raccomandazione: stare alla larga dai cosiddetti predatory publishers, vale a dire quegli editori (e quelle riviste) che continuano a inviare email a clinici e a ricercatori invitandoli a pubblicare su riviste poco conosciute ma (incredibilmente) talvolta già indicizzate1. A pagamento, s’intende. L’obiettivo dei NIH è tutelare la credibilità della ricerca pubblicata, soprattutto se finanziata da soldi federali. La raccomandazione sottolinea ancora una volta l’importanza di una comunicazione efficace e autorevole come parte del percorso di ricerca scientifica, e denuncia come sia sempre più frequente leggere articoli da studi supportati dai NIH su riviste che non godono di alcun credito.

Come fare a distinguerle? Dal lato dell’autore, occorre diffidare di qualsiasi proposta che non sia esplicita riguardo il costo della pubblicazione e che tenda a nascondere questo aspetto fondamentale, che – va detto – non è di per sé indicativo di cattiva condotta editoriale (molte riviste importanti, come quelle del gruppo della Public Library of Science PLoS prevedono una quota da parte di chi scrive). Ancora, bisogna essere molto prudenti nel rispondere a offerte aggressive o insistenti che sollecitano la submission di articoli perché c’è sempre sotto qualcosa. Ci si deve insospettire anche ricevendo la proposta di entrare a far parte di comitati direttivi di riviste dal titolo improbabile o troppo simile a quello di periodici famosi e solo leggermente modificato.

Le riviste scientifiche di scelta, spiegano i NIH, devono aderire ai codici etici elaborati dalle associazioni come il Committee on Publication Ethics (COPE), il coordinamento della Directory of Open Access Journals (DOAJ), la Open Access Scholarly Publishers Association (OASPA) o la World Association of Medical Editors (WAME).

La raccomandazione dei NIH è servita anche per conoscere meglio le dinamiche della disseminazione degli studi finanziati dalle istituzioni centrali statunitensi. In un’intervista al sito Retraction Watch scopriamo che non pochi studi targati NIH – circa il 10% – sono pubblicati su riviste non indicizzate in Medline (e quindi non accessibili o ricercabili tramite PubMed che, ricordiamo, è un servizio degli stessi NIH) e che «NIH-funded author manuscripts have been published in over 10,000 journals since 2008. Over 7800 journals of those journals have published 25 or fewer NIH-funded manuscripts. Of this long-tail, 3,022 journals have only published one NIH supported manuscript»2.




Parallelamente, stanno iniziando anche delle azioni legali nei confronti dei predatory publishers, come quella verso la Omics da parte della corte del Distretto del Nevada che accusa la casa editrice di affermare il falso sostenendo che le proprie riviste prevedano un processo di peer review e millantando un impact factor mai ottenuto3. Il problema – sottolinea un commento sul blog Scholarly Publishing – non è tanto nella “qualità” o nel prestigio della rivista, ma nell’onestà con cui sono gestite: «The NIH guidance does not urge its funded authors to publish in fancy, high-ranking or high-reputation journals, but rather in “credible” ones; the FTC’s allegation against OMICS et al., is not that they publish low-quality journals, but that they deceive and defraud authors»

Bibliografia

1. National Institutes of Health. Statement on Article Publication Resulting from NIH Funded Research. November 3, 2017.

2. NIH to researchers: don’t publish in bad journals, please. Retraction Watch 2017; December 1st.

3. Anderson R. Federal Trade Commission and National Institutes of Health Take Action Against Predatory Publishing Practices. Scholarly Publishing 2017; December 4th.

Le priorità di scelta delle riviste mediche, tra scienza e impresa

Dopo aver diretto per molti anni il BMJ, il punto di vista di Richard Smith sull’editoria medica è diventato ancora più radicale: «There are perhaps three main reasons for publishing in a major journal», ha scritto il 28 novembre sul proprio blog. «Firstly, it might make it more likely that the study will lead to real improvement in the real world. This would be a good reason, but I don’t think it’s true: the route from a study to major scale up is long and complex, and publication is a necessary, but small and mostly unimportant step on that path. Secondly, your study may be noticed more, which is probably true – but interviews on the BBC and articles in the New York Times are flattering but usually not consequential. The third reason is academic credit, and the sad truth is that where you publish continues to be the major form of academic assessment even in countries, like Britain, where the assessing authorities warn against it»1.

Le riviste accademiche esercitano un ruolo arbitrario in cui il potere discrezionale delle direzioni prescinde dalla considerazione dei vantaggi che la pubblicazione di un articolo può promettere alla salute dei cittadini. Le priorità, per una rivista medica, sono dettate da considerazioni imprenditoriali più che scientifiche. Le riflessioni di Smith tornano in mente leggendo l’editoriale di Bishal Gyawali su eCancer Medical Science nel quale commenta il trial OlympiAD2 che ha valutato olaparib nel carcinoma mammario positivo alla mutazione  BRCA2, HER2 negativo. Lo studio aveva come endpoint primario la sopravvivenza libera da progressione (progression free survival -PFS) sebbene sia noto quanto sia modesta l’aspettativa di vita nelle pazienti con la condizione studiata così che – osserva Gyawali – sarebbe stato possibile e più opportuno considerare come esito primario direttamente l’overall survival.

Dubbi anche sul controllo scelto dai ricercatori e sull’alto costo della terapia: «In this trial, the median total treatment duration with olaparib was 8.2 months; which equates to a treatment cost of nearly $100,000 for drug alone. For a 2.8 months benefit in PFS without benefit in OS observed in an unblind trial against a weak comparator, are we ready as a society to pay $100,000 per patient?»3.

Perplessità, infine, sul ruolo dello sponsor: «Astrazeneca was responsible for overseeing the collection, analysis, and interpretation of the data. […] The manuscript was written with medical-writing support, which was funded by Astrazeneca, with critical review and input from authors». La funzione degli autori è diventata, ormai, quella di supervisor del lavoro svolto da ghostwriter aziendali: un tempo tutto questo era nascosto, ora invece è fatto alla luce del sole.

È questa la trasparenza che si auspicava?

Bibliografia

1. Angry at the delay, waste, and inefficiency caused by medical journals. BMJ Blogs 2017; November 28th.

2. Gyawali B. The OlympiAD trial: who won the gold? eCancer Medical Science 2017; December 6th.

3. Robson M, Im S-A, Senkus E, et al. Olaparib for metastatic breast cancer in patients with a germline BRCA mutation. N Engl J Med 2017; 377: 523-33.




Screening cardiaco e attività sportiva

I programmi di screening per le patologie cardiovascolari non sono un modo efficace per prevenire l’arresto cardiaco improvviso durante sport agonistici e impedire agli atleti sani di partecipare: queste sono le conclusioni a cui è giunto uno studio canadese pubblicato sul New England Journal of Medicine. «La morte cardiaca improvvisa durante la partecipazione a sport agonistici è rara, le cause sono varie, e più dell’80% dei casi non sarebbe stato identificato con l’uso di un’attività sistematica di screening da solo o in combinazione con elettrocardiografia», scrivono gli autori1.

Utilizzando il database del Toronto Regional RescuNET, hanno identificato un totale di 3825 arresti cardiaci verificati durante la partecipazione sportiva tra individui di età variabile tra 12 e 45 anni dal 2009 al 2014. Nel corso del periodo di studio di 6 anni (e 18,5 milioni di anni-persona di osservazione), un totale di 74 arresti cardiaci improvvisi si sono verificati durante la partecipazione sportiva: 16 si sono verificati durante sport competitivi e 58 si sono verificati durante sport non competitivi. La cardiomiopatia ipertrofica e la cardiomiopatia aritmogena del ventricolo destro erano rari; tra i 16 casi di arresto cardiaco improvviso verificatisi durante gli sport agonistici, si sono registrati solo due casi di cardiomiopatia ipertrofica e nessun caso cardiomiopatia ventricolare aritmogena. Solo tre casi di arresto cardiaco improvviso verificati durante la partecipazione a competizioni erano potenzialmente identificabili se gli atleti si fossero sottoposti a uno screening preventivo.

L’incidenza di arresto cardiaco improvviso durante gli sport agonistici è stata di 0,76 casi su 100.000 anni-atleta, un dato simile a quello riportato in studi precedenti. «La rarità dell’arresto cardiaco improvviso a causa di una malattia cardiaca strutturale solleva interrogativi sul valore potenziale dello screening», commentano gli autori. «Lo screening degli atleti è un argomento molto controverso e dibattuto e questo studio apporta nuove conoscenze di notevole importanza. La conclusione è che lo screening per gli atleti allo scopo di identificare le persone a rischio e prevenire la morte cardiaca improvvisa è probabile sia una strategia inefficace perché la maggior parte degli atleti che muoiono improvvisamente durante lo sport soffre di condizioni che non possono essere diagnosticate con uno screening preliminare». I vantaggi di partecipare a sport competitivi superano di gran lunga qualsiasi rischio di arresto cardiaco improvviso. Con uno sguardo più ampio, l’attività sportiva consente di salvare molte più vite di quante si possa rischiare di perdere, ha commentato The heart. L’arresto cardiaco nei giovani rimane un problema devastante e sono necessarie ulteriori ricerche per individuare i fattori di rischio e identificare le persone più esposte.

Bibliografia

1. Landry CH, Allan KS, Connelly KA, Cunningham K, Morrison LJ, Dorian P. Sudden cardiac arrest during participation in competitive sports. N Engl J Med 2017; 377: 1943-53.