Dalla letteratura

In collaborazione con l’Associazione Alessandro Liberati – Network Italiano Cochrane
www.associali.it

Ricerca&Pratica:
da 200 numeri sul territorio

Intervista a Maurizio Bonati

Ricerca&Pratica è una rivista curata dall’Istituto di ricerche farmacologiche Mario Negri, uno dei protagonisti della ricerca indipendente internazionale. La rivista è nata nel gennaio del 1985 e nel mese di aprile 2018 uscirà il numero 200. Un traguardo non banale, per uno strumento culturale che ha il merito di essere riuscito a svolgere un ruolo significativo in anni, in decenni diversi: da quello della sua infanzia – ancora caratterizzato dall’entusiasmo per le leggi di riforma sanitaria e psichiatrica – a quello dell’adolescenza, segnato dai drammatici eventi legati alla corruzione e a una diffusa inappropriatezza clinica. La rivista vive oggi una fase di maturità nel corso della quale è impossibile non farsi domande sul proprio ruolo e sul domani che l’attende. Inevitabilmente legato al futuro della sanità del nostro Paese.

Prima di natale scorso, il BMJ ha pubblicato uno studio sui conflitti di interesse (CoI) vissuti da chi dirige una rivista scientifica. Maurizio Bonati è da anni il direttore di Ricerca&Pratica, rivista del Mario Negri. Prima di parlare nel merito dell’articolo del BMJ, qualche domanda introduttiva...

Quando è nata Ricerca&Pratica? Perché il direttore dell’Istituto, Silvio Garattini, pensò che valesse la pena impegnarsi anche sul fronte dell’informazione al medico e al farmacista?

R&P è nata nel 1985 al Mario Negri come proposta rivolta alla medicina del territorio e ai medici di medicina generale: un tentativo di agganciare e trasferire le evidenze dal laboratorio alla clinica, in questo caso all’ambulatorio. Questo pensando che la medicina del territorio sia il centro di smistamento, il nodo essenziale, del nostro Servizio Sanitario Nazionale. Un punto nodale e una condizione ideale del rapporto medico-paziente.

L’iniziativa editoriale nasceva dalla collaborazione, non occasionale ma validata nella pratica della ricerca, con il Centro Studi e Ricerche di Medicina Generale (CSeRMEG): un piccolo gruppo di MMG che condivideva la sfida di fare ricerca nel territorio a partire dal proprio ambulatorio e non solo nell’elitario, esclusivo e selezionato ambiente delle grandi cliniche e delle università. La sfida, che si realizza anche grazie alla condivisione-determinazione dell’editore, era (ed è) quella di mostrare che la ricerca si fa nel “luogo naturale” dove nascono (e purtroppo si creano spesso) i bisogni assistenziali (e non dove questi vengono trasferiti). Dove c’è bisogno di produrre evidenze, affinché le cure sia­no appropriate perché basate sulle evidenze, accessibili, aggiornate e gli esiti delle cure siano monitorati e valutati. Il tutto in un contesto centrato non sul singolo paziente, medico, operatore sanitario, ambulatorio o servizio, ma sulla popolazione di un contesto territoriale. Una sfida affinché parole magiche come “presa in carico” o “percorsi condivisi” rimandassero ad approcci assistenziali effettivi.

Tutto questo suggerisce ancora oggi la necessità di progettare e validare nuovi modelli assistenziali e di alleanza che rispondano, in modo equo ed efficace, ai bisogni primari di salute: del singolo e della comunità/popolazione a cui appartiene. L’impegno di R&P è stato quello di continuare in questa direzione, allargando ulteriormente gli spazi di attenzione alla medicina e pediatria di famiglia e ai problemi della salute e della sanità pubblica; il tutto con uno sguardo all’Europa. Un osservatorio esclusivo e autonomo che è anche un laboratorio di riflessione, valutazione e informazione attraverso strumenti come l’affidabilità e la rilevanza dei dati, l’equilibrio tra benefici e rischi e tra costi e benefici, l’indipendenza da CoI, l’obiettivo reale di contribuire a un miglioramento, progressivo ed equamente distribuito, del livello di salute della popolazione.

Da allora, molte cose sono cambiate. Per esempio, R&P nacque come rivista italiana affiliata alla rete dei bollettini indipendenti sui farmaci. La rivista sente ancora questa appartenenza al network internazionale?

La Società Internazionale dei Bollettini sui Farmaci (International Society of Drug Bulletins - ISDB) è stata fondata nel 1986 e tra i soci fondatori c’era R&P di cui è ancora un full member. L’iniziativa nasceva sotto l’egida del direttorato europeo per la politica dei farmaci dell’Organizzazione Mondiale della Sanità (OMS). Lo strumento “Bollettino di Informazione sui Farmaci”, con la finalità di aiutare il medico a prescrivere in modo più razionale i farmaci, era nato molto prima. Allora non si parlava ancora di appropriatezza o di evidence medicine, ma di rational use of drugs che fu uno dei “comandamenti” dell’OMS degli anni ’70 e ’80. Il primo bollettino fu americano, il Medical Letter (1959), diretto da Harold Aaron. Nel 1962 l’Associazione Consumatori londinese ne pubblicò una edizione per i propri medical practicioners che ebbe un’accoglienza inattesa. Da buoni inglesi però non si ritrovavano proprio in tutte le indicazioni e non avevano accesso a tutti i farmaci riportati nell’edizione americana, pensata inoltre per tutti i medici e prevalentemente operanti nel privato. Nel 1963 nasce quindi l’inglese Drug and Therapeutics Bulletin (DTB) sulla falsa riga del Medical Letter, anche loro con 26 numeri/anno, ma in completa autonomia. Il marchio del produttore, la serietà britannica, la novità culturale/editoriale e il bisogno di informazione in un’area ad alta esposizione commerciale e interesse industriale ne hanno fatto, in quei tempi, il “vangelo” per l’uso razionale dei farmaci. Il DTB oggi è pubblicato dal BMJ ed è membro dell’ISDB. Due anni prima il Ministero della Salute britannico aveva iniziato la pubblicazione di Prescribers’ Journal, diretto da Max Rosenheim (che sarebbe diventato successivamente Lord) che aveva uno stile diverso del DTB ed era inviato gratuitamente ai soli general practicioners. Era nato in seguito a un’indicazione data da un apposito gruppo di lavoro ministeriale che nel 1959 aveva prodotto delle Prescribers’ Notes, inviate poi a tutti i general practioners inglesi affiché potessero ricevere «up-to-date-information about new drugs and preparations and the results of clinical trials». Pubblicato in 6 numeri/anno, venne tradotto anche in italiano, spagnolo e francese, mantenendo sempre l’attenzione prevalentemente sui clinical trials. Dopo alterne vicende venne chiuso definitivamente nel 2000 quando furono tagliati i finanziamenti perché ritenuto ridondante rispetto al lavoro svolto dal NICE (National Institute for Clinical Excellence). La decisione del NICE arrivò anche in un contesto avanzato (quello britannico) dove il lavoro di Iain Chalmers con il suo primo Effective Care in Pregnancy and Childbirth del 1989 e la pubblicazione di Clinical Evidence del 1999 pubblicata dal BMJ avevano indirizzato non tanto l’editoria scientifica critica, ma indicato i principi della nuova informazione e pratica medica. I bollettini storici a livello europeo sono stati: il tedesco Der Arzneimittelbrief, che iniziò le pubblicazioni nel 1967; Informazione sui Farmaci, prodotto dalle Farmacie Riunite di Reggio Emilia nel 1977; La Revue Prescrire di Parigi (1981). Modelli di lavoro differenti, come pure le risorse economiche e umane disponibili confluiti nello statuto dell’ISBD, le cui finalità principali erano di: condividere lavoro e produzioni, sostenere la diffusione di bollettini nel mondo e in particolare nelle nazioni con scarse risorse, promuovere la realizzazione di centri di informazione sul farmaco e di prontuari nazionali. La costituzione dell’ISDB avvenne principalmente a opera di Andrew Herxheimer e Gianni Tognoni. Oggi sono 80 i bollettini associati all’ISDB (44 europei) di 33 nazioni di tutte le regioni del mondo. Alcuni sono semplici pamphlet artigianali, altri riviste scientifiche formali indicizzate in database bibliografici. Alcuni con versione web, altri con il solo indice fatto circolare per posta elettronica.

Rispetto ad altre riviste della ISDB, R&P ha caratteristiche diverse. Per esempio, non pubblica sistematicamente aggiornamenti su efficacia e sicurezza dei medicinali: da cosa deriva questa scelta?

Da due ragioni. La prima è l’accessibilità e concordanza di schede critiche e aggiornate di “profilo farmaco”. Un tempo era l’elemento caratterizzante tutti i bollettini e il confronto delle valutazioni e dei provvedimenti regolatori nelle varie nazioni. Materiale ancora utile per l’attività delle Commissioni Terapeutiche del Farmaco che decidono l’inserimento di farmaci nei prontuari locali o per le attività dei Comitati Etici, ma non c’è bisogno di duplicazioni con marchio ISDB. Spesso queste schede non sono aggiornate ai bisogni/richieste del momento, e quindi il ricorso alla consultazione delle evidenze prodotte più recenti, sia in termini di sintesi che di facile accesso, può condizionarne sia l’uso che la produzione. La seconda ragione è che i bollettini sono nati come strumenti drug-oriented, prodotti nella pratica da farmacisti, spesso ospedalieri, e da medici farmacologi clinici. Questa impronta per molti si è mantenuta, altri hanno invece ampliato gli sguardi pur conservando i principi e i valori identitari della fondazione dell’ISDB.

Alcuni anni fa, la ISDB invitò i gruppi facenti parte del network a costruire una sorta di “manifesto” proprio in tema di CoI. Quali furono le tue sensazioni in quella occasione? Quale posizione assumesti come direttore di R&P?

L’ISDB nacque anche come scelta politica, di campo. Per un’informazione trasparente, basata sulle evidenze, “pura” da qualsiasi interesse di mercato e dell’industria, che sia diretto o indiretto. Questo ha voluto dire una (auto)selezione dei bollettini e delle persone coinvolte. Iniziative di minoranza prodotte da una minoranza internazionale e locale. L’ISDB è gestito da un Comitato di soci e garanti che viene periodicamente rinnovato. Il “manifesto” ha rappresentato, nel corso di un alternarsi del coordinamento, la decisione di ribadire i principi della Società ponendo ulteriori discriminanti tra cui il non pubblicare contributi di autori con CoI.

Inizialmente la mia richiesta è stata quella di chiarire a quali autori facesse riferimento il testo. Era un punto rimasto nel vago al momento della costituzione dell’ISDB perché tutti pensavamo a un prodotto autarchico, tipograficamente forse scadente (anzi, meglio, perché caratterizzava maggiormente l’essenzialità), ma non qualitativamente, e che comunque tutti coloro che facevano parte o avrebbero fatto parte delle varie redazioni non avrebbero avuto alcun interesse (forse qualche conflitto redazionale era inevitabile, come pure quello tra bollettini). Il punto non veniva messo in discussione da alcuno dei membri. Se però lo stesso principio lo si deve applicare anche agli autori esterni, magari per contributi richiesti ne può limitare l’informazione, la sua qualità e ancor di più lo stimolo alla riflessione del lettore. È quello che accadrebbe, per esempio, se non pubblicassi il punto di vista originale dell’industria nell’ambito di una rubrica quale Forum o News and Views o un dibattito. Il bollettino non sarebbe specchio diretto dell’intera realtà, limitando inoltre il suo (auto)mandato di produttore critico di evidenze. Un eccesso di integralismo.

Eccoci dunque ai CoI. Lo studio del BMJ conferma che anche gli editor delle riviste di medicina sono corteggiati dall’industria. Qual è la tua esperienza al riguardo? Ambito di azione e “dimensione” di R&P ti mettono al riparo da possibili imbarazzi?

Purtroppo non ho avuto occasione per sentirmi in imbarazzo e mi rincresce. Il corteggiamento è ormai ritenuto anacronistico eppure è un comportamento essenziale negli sviluppi di una relazione (non solo amorosa). Il corteggiamento presuppone interesse, attrazione, curiosità, piacere, divertimento verso una persona, ma non solo. Il fatto che R&P non riceva, e ancor più non abbia mai ricevuto, attenzioni tali da aver innescato tattiche di seduzione, beh, potrebbe minare profondamente l’autostima della rivista. Vuol dire che: R&P raggiunge pochi lettori, che la ricaduta del lavoro che svolge è insignificante o trascurabile, che la qualità del prodotto è bassa, che… non ha mercato, anzi è fuori mercato. R&P non manifesta a tutt’oggi caratteristiche nucleari dei disturbi borderline di personalità e quindi sta bene, anche senza corteggiamenti. Non ha un’immagine di sé impoverita: con il sito, la grafica, talvolta le fotografie (anche se a caro prezzo) si arricchisce. Sì, forse talvolta è eccessivamente autocritica, ma non ha sentimenti cronici di vuoto abbondando il materiale ricevuto, richiesto o autoprodotto. Gli obiettivi, le aspirazioni o i valori sono solidi sin dal suo primo numero. L’empatia creata con i lettori è soddisfacente valutando i seppur pochi ritorni. L’idealizzazione del suo ruolo nel panorama scientifico e culturale italiano sinora non è affiorato nelle pagine e tra le righe. Quindi: nessun conflitto perché non c’è nessun interesse (di terzi).

Quando si parla di CoI si fa riferimento quasi esclusivamente a condizionamenti di tipo economico: coinvolgimento in comitati scientifici di aziende, relazioni congressuali retribuite, consulenze su farmaci o vaccini… Qual è il tuo parere riguardo quelli che il NEJM ha definito “conflitti di interesse intellettuale”? C’è chi sostiene che l’attenzione per i possibili condizionamenti di tipo culturale o di appartenenza politica sia solo un pretesto per confondere le acque e ridimensionare il problema. Ti senti di essere in una posizione imbarazzante nel decidere di dare spazio sulla rivista a temi − che so… − che riguardano migranti o realtà come quelle latino-americane solo per il fatto di avere uno sguardo partecipe su questi temi?

Domandona lunga e intensa. Rispondo con due considerazioni di contesto. La prima considerazione per cercare uno spiraglio di luce nella foschia del CoI è incominciare a separare i ruoli e definire le responsabilità tra direttore responsabile (editor) ed editore. Una rivista scientifica è un’impresa intellettuale e commerciale: l’area intellettuale è in carico al direttore responsabile (non solo scientifico), l’area commerciale al direttore. Il lavoro di entrambi deve essere autonomo, garantito da principi e valori condivisi, che è il direttore responsabile a dover monitorare e garantire ai lettori. In altre parole, io posso dirigere il comitato redazionale perché l’editore me lo consente (mi mette nelle condizioni di poterlo fare e mi aiuta anche a implementare la rivista) perché ne riceve un beneficio, magari non solo e non tanto economico, ma tutto quanto messo in atto non contrasta con i principi e i valori sottesi all’impresa intellettuale. Beh, questo vorrebbe dire di non accettare la direzione di The Lancet, proprietà del gruppo Reed-Elsevier, il maggior editore mondiale in ambito scientifico, ma anche una delle maggiori figure economiche nel commercio mondiale di armi. The Lancet non è R&P e non è membro dell’ISDB. Reed-Elsevier non è Il Pensiero Scientifico Editore. Qual è il mio interesse intellettuale, politico? Cosa favorisco o assecondo con la mia scelta? È condivisa anche, seppur non necessariamente, dall’editore? È il primo passo per incominciare la riflessione. La seconda considerazione da fare è definire e dichiarare in modo trasparente qual è la condizione del direttore rispetto all’impresa editoriale. Il lavoro che svolge è retribuito oppure no? Se retribuito, con quale modalità ed entità? È un tempo pieno? E se parziale di quanto? La tipologia dei direttori e degli editori è varia perché vari sono gli interessi. Ci sono direttori a tempo pieno con contratto di dipendenza, altri part-time con rimborsi forfettari, altri ancora a titolo gratuito indipendentemente dal tempo dedicato. Spesso quest’ultima categoria è rappresentata da professionisti pensionati. Analoga considerazione si può fare per il comitato di redazione. Questi elementi consentono di valutare meglio l’organizzazione del lavoro editoriale, a prescindere dalla qualità del lavoro e dei criteri decisionali di pubblicazione. Altri interessi (culturali ed economici) del direttore e della redazione, ma anche dell’editore, dovrebbero essere dichiarati.

In una sessione del congresso nazionale di epidemiologia del 2016, si parlò dei CoI che possono nascere dall’appartenenza religiosa. Pensiamo, per esempio, alle decisioni che può prendere il direttore di una rivista nel valutare un contributo sull’opportunità dell’obiezione di coscienza o su argomenti riguardanti il fine vita. Secondo te, è un problema reale?

La riflessione che è stata ripresa ultimamente è sul rapporto tra scienza e religione, e se ci aggiungiamo anche la politica, non fa che rimandare alla necessità di ridefinire e aggiornare continuamente lo scenario e il contesto della vita alla luce delle conoscenze acquisite e delle evidenze prodotte. Una rivista scientifica dovrebbe essere specchio, anche se solo una scheggia, di tutto questo.

R&P non prevede la dichiarazione di CoI in calce ai contenuti pubblicati: perché?

Perché privilegiamo gli interessi (dei lettori) e non i conflitti. E perché i conflitti non esistono. Non è l’autore di un pezzo che si sente in conflitto, ma sono io che lo ritengo (giudico?) in conflitto con le regole. Quindi le dichiarazioni di CoI dipendono dal contesto e dalle regole di quel contesto: può esserci CoI per l’assegnazione di un incarico, ma non per un altro identico. A R&P interessa far crescere la riflessione per una pratica più appropriata anche dove c’è “conflitto”, disuguaglianza, diritti negati. Sono i valori e i principi che determinano gli interessi, mentre i conflitti li determina il mercato. R&P è anche per questo una testata libera.

Dalla fondazione, R&P ha deciso di non ospitare pubblicità. Nel frattempo, l’industria ha molto ridotto il ricorso a questa forma di promozione, a vantaggio di pratiche assai meno trasparenti. Secondo te è stata una scelta opportuna?

Quella compiuta da R&P è stata una scelta, come per tutti i bollettini dell’ISDB, e non una condizione subita dal mercato come avviene di questi tempi. È possibile solo in alcune condizioni come quelle indicate, per esempio tra direttore ed editore in termini di autonomia e condivisione. A prescindere dalle dimensioni dell’impresa editoriale. La pubblicità su una rivista scientifica o commerciale, o per qualunque mezzo di informazione, rimanda a due considerazioni: a) all’autonomia economica. Posso farne a meno perché garantito da altre voci di entrata (abbonati, donazioni) e quindi sia il direttore che l’editore “non sono in perdita”; b) c’è autonomia e indipendenza tra direttore ed editore a tal punto che entrambi devono (dovrebbero) garantire solo la veridicità del messaggio, e in questo caso è sempre il commerciale che predomina sul culturale. Sembra ovvio e irrilevante, ma alcune riviste hanno come editore una società di cui fanno parte uno o più componenti della redazione, oppure il direttore ha quote di proprietà. Le opportunità sono quindi altre, come pure le scelte.

Può essere che sia nella tua storia la risposta alla domanda che viene spontanea: chi te lo fa fare?

Non le royalties che ogni fine anno l’editore mi versa su un conto offshore di Saint Vincent e Grenadine, quanto alcune bottiglie di piccole aziende vinicole di qualità o qualche libro di fotografia…

“Quando si sogna da soli è un sogno, quando si sogna in due comincia la realtà”.