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Report ASCO 2021

Report a cura di Maria Nardoianni e Vasilica Manole (Il Pensiero Scientifico Editore)


È possibile la ricerca clinica indipendente nei Paesi in via di sviluppo?

Negli ultimi anni, il numero di studi clinici registrati presso clinicaltrial.gov mostra una diminuzione del 24% del numero di studi finanziati dal NIH. Nello stesso periodo di tempo, i trial sponsorizzati dall’industria sono aumentati del 43%. Accanto ai vantaggi indubbi, sono noti anche i problemi degli studi sponsorizzati. Il tema è stato affrontato anche all’ASCO 2021. — Continua


Tumore della cervice uterina: la chemioterapia aggiuntiva non aumenta la sopravvivenza

La chemioterapia aggiuntiva somministrata dopo il trattamento standard di chemio-radioterapia non migliora la sopravvivenza nelle donne con tumore della cervice uterina localmente avanzato ed è associata a ulteriori effetti collaterali, secondo i risultati di uno studio randomizzato internazionale di fase III presentato all’ASCO 2021. — Continua


Con il burnout non si scherza

Gli oncologi lo sanno meglio di tutti. Così come sanno, per averlo sperimentato in questi mesi, che la pandemia ha esacerbato il senso di frustrazione e d’impotenza che a volte la professione comporta: all’ASCO 2021 è stato presentato uno studio di un focus group che descrive le conseguenze reali della pandemia e il suo impatto sul benessere degli oncologi e di riflesso sulla cura generale dei pazienti. — Continua


Tumore al polmone non microcitoma: quanto attendere i risultati dei biomarcatori?

È giusto attendere i risultati dei marcatori per iniziare ad aggredire un tumore ai polmoni? I rapidi progressi nei test con i biomarcatori possono risultare fondamentali nel decidere quale trattamento iniziare nel caso di tumore polmonare, dando informazioni utili su chi, cosa e quando testare e come trattare in base ai risultati dei test. Ad ASCO 2021 uno studio per valutare i test dei biomarcatori e le pratiche terapeutiche messe in atto dagli oncologi statunitensi nei pazienti con tumore polmonare non microcitoma. — Continua

Report a cura di Vasilica Manole (Il Pensiero Scientifico Editore)


È possibile la ricerca clinica indipendente nei Paesi in via di sviluppo?

Negli ultimi anni, il numero di studi clinici registrati presso clinicaltrial.gov mostra una diminuzione del 24% del numero di studi finanziati dal NIH. Nello stesso periodo di tempo, i trial sponsorizzati dall’industria sono aumentati del 43%. Accanto ai vantaggi indubbi, sono noti anche i problemi degli studi sponsorizzati. Per esempio, sottolinea Carlos Barrios (Latin American Cooperative Oncology Group, Porto Alegre, Brasile), dal momento che questo ASCO è dedicato all’equità delle cure, non si può non notare che la percentuale di pazienti afro-americani negli studi clinici negli Stati Uniti è molto minore rispetto a quella arruolata nei trial varati dagli studi di gruppi cooperativi. Similmente, guardando gli studi clinici sottoposti ad approvazione alla FDA, si apprezza una significativa sottorappresentazione delle popolazioni afroamericane e ispaniche e una curiosa e interessante sovra-rappresentazione asiatica.

Dei 46 abstract e studi presentati dal 2010 al 2020 nel corso delle sessioni plenarie dell’ASCO – e si noti che si tratta di lavori effettivamente selezionati perché potenzialmente in grado di cambiare la pratica clinica – le farmaceutiche hanno sponsorizzato il 56% degli studi, il NCI o altre istituzioni nordamericane ne hanno sponsorizzato il 23%, e gruppi di ricerca non statunitensi il 19%.

Al dunque, la ricerca indipendente costituisce una sfida non solo nei Paesi in via di sviluppo, ma anche nei Paesi sviluppati, come possiamo vedere chiaramente oggigiorno. Una parte sostanziale della ricerca clinica è sponsorizzata dalle case farmaceutiche: è importante riconoscere che ciò fa sì che una serie di problemi specifici e di bisogni dei pazienti rimangano inesplorati. Viceversa, dovremmo prenderli in considerazione molto seriamente. La ricerca accademica indipendente ha importanti e ben noti limiti, ma ciò non toglie che dovrebbe essere stimolata anche nei Paesi in via di sviluppo. Abbiamo bisogno di sviluppare la ricerca accademica indipendente ovunque nel mondo, in modo da affrontare i bisogni inevasi a cui ogni Paese ancora dovrebbe rispondere.


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Report a cura di Vasilica Manole (Il Pensiero Scientifico Editore)


Tumore della cervice uterina: la chemioterapia aggiuntiva non aumenta la sopravvivenza

La chemioterapia aggiuntiva somministrata dopo il trattamento standard di chemio-radioterapia non migliora la sopravvivenza nelle donne con tumore della cervice uterina localmente avanzato ed è associata a ulteriori effetti collaterali, secondo i risultati di uno studio randomizzato internazionale di fase III presentato all’ASCO21. Questi risultati “comporteranno un cambiamento immediato nella pratica clinica, dal momento che dimostrano che questo approccio non dovrebbe essere usato per trattare il tumore della cervice localmente avanzato. Ora possiamo risparmiare ai nostri pazienti sia gli effetti collaterali sia gli effetti tossici derivanti dalla chemioterapia aggiuntiva”, ha affermato Lori J. Pierce, presidente ASCO.

Lo studio ha arruolato 919 pazienti con tumore della cervice uterina localmente avanzato, randomizzate a ricevere chemio-radioterapia standard a base di cisplatino con o senza chemioterapia aggiuntiva con carboplatino e paclitaxel. L’endpoint primario era la sopravvivenza globale a 5 anni. Inoltre, i ricercatori hanno esaminato la sopravvivenza libera da progressione, gli effetti collaterali avversi e i modelli di recidiva della malattia. Gli autori hanno dimostrato che, dopo cinque anni, la sopravvivenza globale era comparabile per entrambi i gruppi (72% contro 71% rispettivamente, per quelli che ricevevano la chemioterapia adiuvante e quelli che ricevevano cure standard). Inoltre, a 5 anni la malattia non era progredita per il 63% dei pazienti che hanno ricevuto il trattamento aggiuntivo, rispetto al 61% che non lo ha fatto. I modelli di recidiva della malattia erano simili nei due gruppi di trattamento. Eventi avversi gravi sono stati riscontrati da più pazienti fino a un anno dopo la randomizzazione: l’81% dei pazienti nel gruppo chemioterapico adiuvante rispetto al 62% nel gruppo di trattamento standard.

“Lo studio conferma che la sola chemio-radioterapia è attualmente il nostro miglior trattamento possibile per le donne con tumore della cervice uterina localmente avanzato. Non solo non c’è alcun beneficio con la chemioterapia adiuvante, ma aumentano anche gli effetti collaterali gravi”, ha affermato l’autore principale dello studio, Linda R. Mileshkin, oncologa presso il Peter McCallum Cancer Center di Melbourne.


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Report a cura di Maria Nardoianni (Il Pensiero Scientifico Editore)


Con il burnout non si scherza

Gli oncologi lo sanno meglio di tutti. Così come sanno, per averlo sperimentato in questi mesi, che la pandemia ha esacerbato il senso di frustrazione e d’impotenza che a volte la professione comporta: all’ASCO è stato appena presentato uno studio di un focus group che descrive le conseguenze reali della pandemia e il suo impatto sul benessere degli oncologi e di riflesso sulla cura generale dei pazienti.

L’intento era di identificare qualsiasi potenziale intervento, sia organizzativo che individuale, che aiutasse in futuro a sostenere il coping degli oncologi. Sono stati allestiti quattro focus group virtuali, di 25 oncologi statunitensi iscritti all’ASCO, considerando il periodo da settembre a novembre del 2020. L’età mediana dei partecipanti era 47 anni (in un range da 35 a 69 anni), il 52% era donna e il 52% composto da minoranze. Il 76% era costituito da oncologi medici, alle prese con una mediana di 51,5 pazienti visti settimanalmente. Il 64% era sposato. Il 36% pratica nell’area medio-atlantica degli Stati Uniti.

Quali sono stati i risultati e le implicazioni chiave dei focus group? Ne è emerso che il burnout latente dell’oncologo è stato esacerbato dalla pandemia, che ha causato stress aggiuntivo, associandolo a interruzioni nelle terapie e nella ricerca, con ripercussioni sul piano finanziario e sanitario, oltre che a fattori di stress familiari personali legati all’esposizione al COVID-19.

Lo si comprende bene ascoltando alcune testimonianze riportate nell’intervento di Fay Hiubocky (University of Chicago): «Il burnout è stato reale. Il danno morale è stato tangibile. Il razzismo che è emerso è un grande problema. La cura dei bambini è un problema davvero rilevante. I problemi finanziari sono un grosso problema. E non so se stiamo affrontando tutto ciò davvero con tutte le nostre forze. Anche se stiamo incontrando una volta alla settimana tutti i diversi dipendenti coinvolti nei servizi per capire cosa e come possiamo fare al nostro meglio». Per stare ai soli termini economici, si è stimata una perdita di 4,6 miliardi di dollari annui.

Fortunatamente, ci sia avvia ad una ripresa che consentirà di recuperare una dimensione più umana, più intima con la persona malata, anche se – occorre dirlo – la telemedicina ha aiutato molto a superare questa fase così difficile. Ma, come ha ricordato Julio Frenk nella plenaria d’inizio congresso, la professione medica resta al fondo un atto d’amore nei confronti del prossimo. E qualsiasi atto d’amore si giova della prossimità, parola-chiave della sanità di domani.


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Report a cura di Maria Nardoianni (Il Pensiero Scientifico Editore)


Tumore al polmone non microcitoma: quanto attendere i risultati dei biomarcatori?

La questione si pone anche in Italia ormai da anni: è giusto attendere i risultati dei marcatori per iniziare ad aggredire un tumore ai polmoni? I rapidi progressi nei test con i biomarcatori possono risultare fondamentali nel decidere quale trattamento iniziare nel caso di tumore polmonare, dando informazioni utili su chi, cosa e quando testare e come trattare in base ai risultati dei test. Una task force ASCO, comprendente rappresentanti dell’American Cancer Society National Lung Cancer Roundtable e associazioni dei pazienti, ha condotto uno studio per valutare i test dei biomarcatori e le pratiche terapeutiche messe in atto dagli oncologi statunitensi nei pazienti con tumore polmonare non microcitoma.

La ricerca ha preso in considerazione 170 risposte. Il 59% degli intervistati lavora in un centro clinico accademico, mentre il 41% in altri ospedali o cliniche. Quasi tutti (98%) ritengono che i risultati dei biomarcatori dovrebbero essere ricevuti entro 1 o 2 settimane dall’ordine, ma il 37% attende i risultati in media 3 o 4 settimane. Tra chi solitamente aspetta 3 o 4 settimane, il 37% inizia un trattamento sistemico non mirato durante l’attesa. Gli intervistati hanno riferito alte percentuali di test sia relativamente alla forma non squamosa che a quella squamosa.

Il campione ha chiarito che le decisioni terapeutiche risentono dei ritardi nei risultati dei test coi biomarcatori. I clinici dovrebbero essere informati su quando è sicuro e appropriato rinviare la terapia in attesa dei test. Ovviamente, gli intervistati premono affinché chi fa i test diagnostici con i biomarcatori si sforzi di accelerare i risultati.


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