In questo numero

Nel fascicolo di questo mese, Recenti Progressi in Medicina ospita tre contributi che affrontano da prospettive complementari un tema cruciale della medicina contemporanea: la gestione terapeutica del paziente oncologico nella fase terminale della malattia.

Nella sua rassegna, Maura Rossi (pagina 648) analizza in modo sistematico le evidenze e le raccomandazioni internazionali che invitano a limitare l’impiego di terapie antitumorali attive negli ultimi giorni o settimane di vita. L’autrice documenta come, nonostante tali indicazioni, una quota significativa di pazienti riceva ancora trattamenti oncologici in prossimità della morte, con benefici minimi o nulli in termini di sopravvivenza, a fronte di un peggioramento della qualità di vita, di un aumento dei ricoveri e dei costi assistenziali. L’articolo richiama dunque la necessità di un approccio clinico più rigoroso e realistico, fondato su una comunicazione trasparente con il paziente e su una precoce integrazione delle cure palliative nel percorso oncologico, al fine di evitare interventi sproporzionati e di restituire centralità alla persona e ai suoi obiettivi di cura.

A questa analisi fa seguito la riflessione di Gianmauro Numico ed Elena Fea (pagina 637), che invita a considerare la complessità del processo decisionale nelle fasi avanzate della malattia oncologica. Secondo l’autore, la valutazione dei trattamenti nel “fine vita” non può basarsi unicamente su indicatori quantitativi, come la distanza temporale dalla morte o il numero di pazienti sottoposti a chemioterapia nelle ultime settimane. L’incertezza prognostica, la varietà dei quadri clinici e la disponibilità di terapie sempre più efficaci rendono impossibile definire a priori un confine netto tra ciò che è “appropriato” e ciò che non lo è. La decisione terapeutica, sottolinea Numico, deve nascere da un processo di confronto che tenga conto delle preferenze, dei valori e dei desideri del malato. In questa prospettiva, la qualità delle cure non si misura con l’interruzione automatica dei trattamenti, ma con la capacità di costruire, insieme al paziente e ai suoi familiari, un percorso coerente con le sue aspettative e la sua visione della vita residua.

Infine, Luciano Orsi (pagina 633) riprende e approfondisce la posizione di Rossi, ribadendo l’urgenza di un cambiamento di paradigma: dalla cura della malattia alla cura della persona. La domanda che dà titolo al suo editoriale – “Stiamo curando il tumore o la persona?” – diventa il filo conduttore di un ragionamento che riconduce la pratica oncologica a una dimensione etica e relazionale. Per Orsi, la chiave per superare l’inappropriatezza terapeutica nel fine vita è la collaborazione strutturata tra équipe oncologiche e palliative, fondata su una comunicazione prognostica condivisa e su un processo decisionale realmente partecipato. Solo in questo modo – scrive – è possibile evitare che la sospensione delle terapie venga percepita come un abbandono, trasformandola invece in un atto di cura consapevole e rispettoso della dignità del malato.

In questa direzione si muove anche il contributo di Fabio Ambrosino (pagina 644), che propone, nel suo articolo sull’approccio delle Compassionate communities, una riflessione ampia sulla necessità di restituire valore sociale e collettivo al morire. Il modello, sperimentato anche in Italia attraverso il progetto InVita, esorta a superare la medicalizzazione della morte e a costruire comunità che si prendano cura delle persone nel fine vita, coinvolgendo cittadini, istituzioni e reti di volontariato. Il rispetto della dignità non si esaurisce dunque nel gesto clinico, ma si radica nella capacità di una società di accompagnare, sostenere e condividere l’esperienza del morire, riconoscendone il valore umano e relazionale.

Nel loro insieme, i quattro contributi delineano un percorso di riflessione che supera la contrapposizione tra “fare” e “non fare”, restituendo complessità e umanità alle scelte cliniche e sociali nel fine vita. Le differenze di prospettiva – dalla denuncia dell’eccesso terapeutico (Rossi) alla sottolineatura dell’incertezza prognostica (Numico), dalla chiamata alla responsabilità palliativa (Orsi) fino alla visione comunitaria della cura (Ambrosino) – convergono su un punto essenziale: il valore della decisione condivisa, tanto nel rapporto medico-paziente quanto nella dimensione collettiva della cura.

A chiudere idealmente il fascicolo, due testi di tono diverso ma accomunati dalla stessa sensibilità per la fragilità umana e per la responsabilità civile della medicina. Giuseppe Gristina (pagina 690), nei suoi Appunti di viaggio, offre una riflessione sul significato della pace e del dialogo in un tempo di conflitti, mentre Luciano De Fiore (pagina 641) analizza come la comunità medico-scientifica internazionale si sia espressa di fronte alla guerra di Israele contro la Palestina, richiamando il ruolo etico della ricerca e della salute pubblica nella promozione della pace. Entrambi ricordano che la cura – individuale o collettiva – non può prescindere dal riconoscimento della vulnerabilità e dal rifiuto della violenza, valori che fondano tanto la medicina quanto l’umanità stessa.