Dalla letteratura

La morte scandalosa di un padre e di sua figlia

Ogni nazione ha i propri confini. Ogni nazione ha un proprio meridione e c’è sempre un sud più a sud assediato da poveri ancora più poveri, da persone ancora più disperate, che nulla ormai sembra abbiano da perdere. La fotografia di un bimbo annegato abbracciato al proprio papà in un fiume al confine tra Messico e Stati Uniti ci ha scandalizzato, nel vero senso della parola: quella morte e non la fotografia è una cosa scandalosa. La pubblicazione sulla prima pagina del New York Times ha sollevato discussioni perché molti lettori si sono sentiti offesi. Qualcuno l’ha definita una scelta politica e, curiosamente, il NYT si è giustificato negando lo sia stata.

Si chiamavano Óscar Alberto Ramírez Martínez, di 25 anni, e Valeria, di 23 mesi. Una morte del genere è intollerabile. Come lo sono le dichiarazioni di chi accusa il padre di omicidio, come Ken Cucinelli, direttore degli US Citizenship and Immigration Services: “The reason we have tragedies like that on the border is because those folks, that father didn’t want to wait to go through the asylum process in the legal fashion, so decided to cross the river”.

Come ha spiegato la madre di Óscar, da diverse settimane circa duemila persone si accalcavano affamate nel campo profughi di Matamoro, con temperature insostenibili. Per questo, il padre aveva deciso di passare il confine, portando dapprima la piccola figlia al di là del fiume, lasciandola sulla sponda per tornare a prendere la moglie. Si è accorto, però, che la bambina lo aveva seguito in acqua e nel tentativo di salvarla sono stati entrambi travolti dalla corrente. Óscar lavorava da Papa’s John nella zona di Altavista di San Salvador, un’area caduta in mano alla malavita. Il suo guadagno mensile di 350 dollari non permetteva alla famiglia di vivere, dopo che la moglie aveva dovuto lasciare il lavoro di cassiera in un ristorante cinese per crescere la bambina.

Una domanda opportuna è giunta da un giornalista del Washington Post: “Vogliamo rendere più difficile o più facile per la gente trovare legalmente un rifugio sicuro negli Stati Uniti? La risposta di un Democratico a questa domanda è: sì, vogliamo rendere più facile alla gente disperata migrare, a condizione che sia fatto in modo legale e ordinato, in tutti i modi consentiti da buone politiche”1. Un articolo sul New York Times mette in relazione l’intensificarsi dei controlli alla frontiera (circa 20 mila agenti messicani vigilano sui confini con gli Stati Uniti) con la ricerca di passaggi più pericolosi e l’aumento dei morti tra i migranti2.

Hanno perso la vita in un modo quasi normale per i poveri: l’annegamento è la terza causa di morte per lesioni non intenzionali, e uccide circa 360.000 persone all’anno a livello mondiale, la maggior parte dei quali è un bambino3. È un modo di morire da bisognosi perché è nei paesi a reddito medio-basso (LMIC) che avviene il 90% delle morti per annegamento. Nonostante sia un dramma così frequente quasi nessuno se ne interessa, anche nei paesi che sono più colpiti4. Molte morti non vengono neanche registrate e, come osserva l’autrice di un post in un blog del BMJ, la diffusione così capillare e in zone eccezionalmente disagiate disincentiva anche l’attività di rilevazione.




Nessuno protesta. “Anche se l’annegamento è un problema che colpisce in modo sproporzionato i bambini – scrive Medhavi Gupta – non sembra incitare all’urgenza. Questa mancanza di preoccupazione può derivare dalle superstizioni locali che interpretano l’incidente dell’annegamento come ‘volontà di Dio’, piuttosto che un problema che può essere risolto sistematicamente. Inoltre, la copertura mediatica dell’annegamento è scarsa, forse perché il problema colpisce soprattutto le persone di basso livello socio-economico che vivono in comunità rurali che hanno meno probabilità di ottenere visibilità”.

Anche perché è un problema poco affrontato e ancor meno studiato, non si sa se esista qualche strategia di prevenzione che abbia dimostrato di essere efficace. Essendo direttamente collegato al dramma del cambiamento climatico dovuto al riscaldamento globale, è spesso inserito negli obiettivi dei programmi volti a promuovere lo sviluppo sostenibile, ma le politiche per la salute globale sono spesso molto generiche, indicano prospettive più che interventi, anche perché i contesti nei quali i programmi andrebbero implementati sono talmente compromessi e, comunque, diversi tra loro, che proporre indicazioni puntuali è obiettivamente assai complicato.

Finché il terrore di quel che ci si lascia alle spalle sarà maggiore della paura del dover rischiare la vita, sarà difficile ridurre il numero dei morti migranti.

Bibliografia

1. Sargent G. Trump’s latest migrant horrors demand a real Democratic response. Here’s one. Washington Post 2019; 27 giu­gno. https://wapo.st/2RKuDdh (ultimo accesso 8 luglio 2019).

2. Ahmed A, Semple K. Photo of drowned migrants captured pathos of those who risk it all. New York Times 2019; 25 giu­gno. https://nyti.ms/2FvMDTF (ultimo accesso 8 luglio 2019).

3. World Health Organization. Global report on drowning. Geneva: WHO, 2014.

4. Medhavi Gupta. Why drowning is ignored – and what can be done about it. BMJ Blogs Global Health 2019; 10 maggio. http://bit.ly/2Q3bp1J (ultimo accesso 8 luglio 2019).




Cose dell’altro mondo

Di conflitto d’interessi si parla sempre come se esistesse, sì: ma in un altro mondo. La convinzione di Franco Panizon è ripresa in una lettera che il pediatra di famiglia Giuseppe Boschi ha inviato alla rivista Medico e bambino1. È vero: nonostante una letteratura sterminata, si parla di conflitto d’interessi soprattutto per negare che sia un problema reale e, se in qualche caso lo fosse, riguarderebbe pochi altri colleghi. Non noi. Non è difficile capire le ragioni di questa prudenza, che sono soprattutto legate all’imbarazzo di dover ammettere che è vero, anche l’offerta di una birra e un panino al bar dell’ospedale da parte di un informatore scientifico del farmaco può contribuire almeno in certa misura a farci preferire – alla pasticca della concorrenza – il medicinale di cui quel signore cortese e pieno di attenzioni ci ha appena parlato.

Se non “la” soluzione definitiva, un possibile passo avanti potrebbe essere l’approvazione della legge istitutiva di una banca-dati pubblica dove verificare se e in quale misura un medico abbia percepito del denaro da parte di industrie. La legge – disegnata sulla falsariga di quella che ha avviato il progetto del database Open payment previsto dal Sunshine Act statunitense – è ferma in parlamento e chissà quando potrà essere approvata. Però, nonostante la buona volontà, la proposta di legge non garantisce la trasparenza auspicata. I passaggi di denaro tra le industrie e i professionisti sanitari seguono percorsi poco limpidi e sono quasi sempre intermediati da agenzie o provider di educazione continua. Arginare un problema così rilevante come la mancanza di integrità nelle decisioni cliniche e di politica sanitaria attraverso regole più stringenti potrebbe non essere la strada giusta: è una questione morale, osserva rispondendo a Boschi il direttore di Medico e bambino Federico Marchetti, e l’appello alle coscienze dovrebbe precedere l’approvazione di nuove leggi che d’altra parte riaffermano quanto già scritto nel codice deontologico della FNOMCeO e almeno teoricamente affermato anche nel codice di comportamento di Farmindustria.

Col richiamo alle regole ippocratiche – e quindi con indicazioni di ordine etico – si apre anche uno splendido articolo di Tannock e Joshua2 rilanciato recentemente su Twitter: lo sviluppo di gran parte dei nuovi farmaci oncologici è stato portato avanti con un’intensa collaborazione istituzionale in termini di denaro e risorse umane dedicate ma nonostante questo «il prezzo dei nuovi farmaci antitumorali negli Stati Uniti supera generalmente i $ 10.000 al mese, e mentre i piani sanitari nazionali possono contrattare per prezzi più bassi in Europa, generalmente sono necessarie negoziazioni che richiedono da mesi ad anni per raggiungere un accordo per rendere i farmaci disponibili al pubblico. Il prezzo elevato dei nuovi farmaci significa che molti pazienti non hanno disponibilità, o possono permettersi solo un programma subottimale di trattamento». Il prezzo – sostengono gli autori – non ha alcun rapporto con i costi di sviluppo e produzione, l’efficacia del farmaco o la misura in cui i fondi pubblici sono stati utilizzati nello sviluppo industriale; «il prezzo è impostato per massimizzare il profitto», molto più elevato rispetto alla maggior parte degli altri settori industriali.

In pochi protestano, fanno notare Tannock e Joshua, e gli ordini e le associazioni che rappresentano i clinici non si fanno sentire in modo sistematico e organico: «la posizione dell’American Society of Clinical Oncology sulla sostenibilità dei farmaci antitumorali non considera la pressione pubblica o professionale sull’industria farmaceutica come meccanismo per influenzare i prezzi. Perché? Perché l’industria farmaceutica è molto efficace nell’acquistare il silenzio dei medici». Un’accusa più pesante per i professionisti sanitari che per le imprese, che, dopotutto, dimostrano di saper fare il proprio lavoro. Gli autori puntano il dito soprattutto verso una pratica sempre più diffusa: «Mentre la consulenza di alcuni medici esperti può essere utile per le aziende, molti “comitati consultivi” non sono istituiti per chiedere un consiglio ma per “pubblicizzare”, per garantire che i medici prescrittori vengano a conoscenza dei prodotti dell’azienda. In tal modo, la ricezione di pagamenti personali da parte delle imprese, sebbene di entità relativamente ridotta, può costituire un ostacolo alla possibilità di formulare critiche all’industria», compresa la richiesta che i farmaci efficaci siano disponibili per tutti coloro che potrebbero trarne beneficio a prezzi accessibili.

Anche la dichiarazione dei conflitti di interessi non risolve il problema: i medici non dovrebbero accettare pagamenti personali da imprese, come già prevedono i regolamenti di alcuni enti di assistenza e di ricerca. «Organizzazioni come ESMO e ASCO dovrebbero sviluppare programmi che richiedano sia alle organizzazioni sia ai loro membri di avviarsi verso l’indipendenza finanziaria; ciò consentirebbe loro di estendere l’attività di advocacy sia all’industria sia al governo per chiedere la disponibilità di trattamenti efficaci a prezzi accessibili, nonché per lo sviluppo di analisi farmaco-economiche indipendenti che favoriscano prezzi ragionevoli». Un sistema economico interno al sistema sanitario che massimizza profitto a scapito dei cittadini non è etico, concludono Tannock e Joshua.

In conclusione: «la Medicina può ancora essere riconducibile a una vocazione disinteressata?». La risposta alla domanda posta da Gianni Tognoni in un editoriale pubblicato tanti anni fa su MeB3 è solo apparentemente facile e non è affatto scontata.

Bibliografia

1. Boschi G. Perché abbiamo paura a parlare male del conflitto d’interesse? Medico e bambino 2019; 6: 351-2.

2. Tannock IF, Joshua AM. Purchasing silence. Ann Oncology 2018; 29: 1339-40.

3. Tognoni G. Il conflitto di interesse. Medico e bambino 2006; 25: 279-80.




Il burn out dei medici nella sanità “industriale”

«È indubbio che l’assistenza sanitaria sia diventata un mercato a un livello quasi irriconoscibile. Ma è anche vero che la maggior parte dei clinici rimane fedele all’etica che, come prima ragione, li ha portati sul campo. Questo rende l’ospedale un luogo di lavoro stimolante. Sempre più spesso, però, mi sono resa conto che questa etica a cui tengo tanto viene sfruttata con cinismo. Ormai, la medicina industriale ha spremuto quasi tutta l’efficienza che può produrre il sistema. Con accorpamenti e razionalizzazioni, ha portato all’estremo gli indicatori della produttività. Ma una risorsa che sembra infinita – e gratuita – è l’etica professionale delle persone che lavorano nello staff medico».

Se medici e infermieri si rifiutassero di assecondare le richieste dei malati e la loro domanda di salute, il sistema crollerebbe, spiega Danielle Ofri sul New York Times1. La complessità dei quadri clinici aumenta costantemente e questo significa diagnosi più difficili da formulare, terapie più complicate da prescrivere, complicanze più numerose da governare. Per ogni ora passata a visitare il malato, il medico ne passa due a compilare documentazione al computer nonostante, negli Stati Uniti, il numero di impiegati amministrativi nella sanità sia dieci volte quello dei clinici. Quale altro lavoratore potrebbe mai accettare una cosa del genere?

Alla sanità ospedaliera e territoriale viene chiesto di fare di più con meno risorse e spesso questo miracolo diventa possibile soltanto per la disponibilità del personale sanitario. Un miracolo che rischia di costare caro, alla fine dei conti, perché il medico mentalmente esaurito ammette di fare più errori che si traducono anche in peggiori esiti delle cure e in un maggior numero di risarcimenti per malpractice. Il costo complessivo per il sistema sanitario statunitense causato dal burnout dei clinici è stimato tra i 2,6 e i 6,3 miliardi di dollari l’anno secondo una ricerca pubblicata sugli Annals of Internal Medicine in apertura del giugno 20192. Si tratta dunque di un importante determinante di maggior costo e inappropriatezza per il sistema sanitario, che potrebbe essere mitigato con investimenti relativamente modesti.

Bibliografia

1. Ofri D. The business of health care depends on exploiting doctors and nurses. New York Times 2019; 8 giugno 2019. https://nyti.ms/2ZgeFu4 (ultimo accesso 8 luglio 2019).

2. Han S, Shanafelt TD, Sinsky CA, et al. Estimating the attributable cost of physician burnout in the United States. Ann Int Med 2019; 170: 784-90.




Come imbrogliare con l’impact factor

Da pochi giorni sono stati presentati i nuovi dati riguardanti l’impact factor delle riviste indicizzate sul Web of Science1. Nessuna particolare novità: 283 nuove riviste aggiunte alla banca dati e solo 17 cancellate.

«L’impact factor (IF) è senza dubbio l’indicatore bibliometrico più utilizzato, male utilizzato e abusato nella scienza accademica. Le riviste sono classificate nel loro ambito a seconda dell’IF che si ritiene rifletta l’importanza di ciò che viene pubblicato su una rivista. Anche i contributi dei singoli scienziati vengono valutati sulla base dell’IF delle riviste in cui viene pubblicato il loro lavoro, e, in ambito accademico, le decisioni di finanziamento e di promozione fanno molto affidamento sull’IF. Non sorprende che ci sia un’intensa pressione sui direttori delle riviste per alterare il sistema e aumentare l’IF dei periodici che dirigono e in modi che non contribuiscono al progresso della scienza e che in molti casi distorcono il processo scientifico». Come al solito John Ioannidis non le manda a dire, e in un articolo uscito sullo European Journal of Clinical Investigation critica duramente il principale fattore che determina finanziamenti e promozioni nella comunità scientifica2. Chi non imbroglia, sostengono Ioannidis e Thombs, ne paga le conseguenze.

Cosa si deve fare per aumentare l’IF?

1. aumentare il numero di articoli che possono essere citati senza accrescere il numero degli articoli che vanno nel denominatore (“contano” come articoli pubblicati solo gli articoli di ricerca e le rassegne): per capire come funziona bisogna sapere come si calcola l’IF che, in sintesi, è nulla più che un rapporto tra articoli pubblicati da una rivista e citazioni ottenute da altri lavori su periodici indicizzati;

2. aumentare le citazioni di articoli della “propria” rivista chiedendo agli autori di citare anche pretestuosamente lavori presenti in archivio (coercive citation): stratagemma assai diffuso3 che funziona ancora meglio quando ad auto-citarsi è lo stesso autore (self-citation);

3. preferire la pubblicazione di rassegne, perché ottengono più citazioni;

4. pubblicare articoli di modesto spessore qualora promettano di essere citati perché affini ai membri di una determinata società scientifica, come documenti di consenso, linee guida o altri statement di questo genere.

La citazione coatta o la auto-citazione sono parodie della scienza: difficile non essere d’accordo con gli autori.

Quasi contemporaneamente, è uscita su Nature una nota propositiva preparata da persone che da tempo si interessano alle questioni chiave della valutazione della letteratura scientifica accademica4. In sintesi, si chiede di aumentare il numero degli indicatori per coprire tutte le funzioni delle riviste accademiche, di definire una serie di principi per governare il loro uso e di creare un organo di governo per mantenere questi standard e la loro rilevanza. «Abbiamo delineato le funzioni chiave delle riviste, che rimangono in gran parte invariate dal loro inizio più di 350 anni fa. Dalla “certificazione di paternità” del lavoro originale, alla registrazione del record di ricerca (comprese le eventuali correzioni e ritrattazioni), fino alla gestione della revisione critica e della disseminazione dei contenuti».

L’IF coglie solo alcuni degli aspetti della funzione di una rivista accademica, sottolineano Paul Waters e i suoi colleghi: «Gli indicatori che riguardano la curatela, ad esempio, potrebbero prendere in considerazione l’esperienza e la pluralità del comitato editoriale, nonché il tasso di accettazione degli articoli proposti e la trasparenza dei criteri di accettazione. Gli indicatori che riguardano i dati (come quelli riferiti al numero di citazioni o agli standard di reporting) diventeranno via via più importanti con l’affermarsi della open science e dell’analisi indipendente. Gli indicatori della valutazione della ricerca potrebbero prendere in considerazione la trasparenza del processo, nonché il numero e la multidisciplinarità dei revisori tra pari e la loro tempestività.

Di particolare interesse nella proposta è l’accenno alla possibilità di una “indicizzazione e di una rendicontazione di impatto” di unità singole di pubblicazione all’interno di un articolo stesso. Cosa vuol dire? Per esempio, potrebbe essere monitorato l’impatto sulla comunità scientifica (e sul progresso delle conoscenze) di una singola figura particolarmente rappresentativa o di un set di dati riepilogato in una tabella.

Giustamente, gli autori sottolineano come qualsiasi indicatore rischi di indurre distorsioni perché la pratica editoriale e il processo di publishing possono essere forzati per migliorare la propria performance a seconda dei criteri di valutazione adottati. Per questo, qualsiasi indicatore dovrebbe essere pienamente giustificato, contestualizzato, spiegato alla comunità scientifica e oggetto di uso responsabile. L’organo di governo del sistema potrebbe proporre nuovi indicatori per affrontare le varie funzioni delle riviste accademiche, formulare raccomandazioni sul loro uso responsabile e sviluppare standard. Potrebbe anche creare materiale educazionale (per esempio sull’etica della definizione degli indicatori e sul loro uso) e servire da punto di riferimento per la segnalazione dell’uso inappropriato e per la promozione di buone pratiche. Potrebbe aiutare a proteggere i ricercatori dalle “riviste predatorie”, in genere pubblicazioni di bassa qualità che non prevedono peer review e che hanno solo scopo di lucro.

In definitiva, un sistema più articolato – e per certi versi più complesso – potrebbe essere meno esposto alle distorsioni che rendono oggi l’IF un indicatore spesso falsato. Resta da vedere se la “comunità scientifica” avrà voglia di impegnarsi per affrontare e risolvere questo problema oppure se la possibilità di alterare i meccanismi di valutazione della ricerca non sia in fin dei conti gradita e funzionale alla conservazione della medicina accademica.

Bibliografia

1. Journal citation report 2019 update release. Research Information 2019; 20 giugno. https://bit.ly/32dpkrF (ultimo accesso 8 luglio 2019).

2. Ioannidis, JPA, Thombs, BD. A user’s guide to inflated and manipulated impact factors. Eur J Clin Invest 2019; e13151.

3. Chorus C, Waltman L. A large-scale analysis of impact factor biased journal self-citations. PLoS ONE 2016; 11: e0161021.

4. Wouters P, Sugimoto CR, Larivière V, et al. Rethinking impact factors: better ways to judge a journal. Nature 2019; 569: 621-3.