Porte aperte, porti chiusi:
la medicina può suggerire qualcosa alla società?

Fabrizio Elia1, Elisabetta Segre2, Marco Vergano3, Giuseppe Renato Gristina4

1Dipartimento di Medicina d’Urgenza e Terapia Subintensiva, Ospedale San Giovanni Bosco, Torino; 2Residency Program in Medicina d’Emergenza-Urgenza, Università di Torino; 3Dipartimento di Anestesia e Rianimazione, Ospedale San Giovanni Bosco, Torino; 4Società Italiana di Anestesia Analgesia Rianimazione e Terapia Intensiva (SIAARTI), Comitato Etico, Roma.

Pervenuto il 12 agosto 2019.

Riassunto. Negli ultimi anni i Paesi occidentali stanno vivendo una svolta nelle politiche riguardanti l’immigrazione. Rispetto all’idea di accoglienza e integrazione si è imposta quella della chiusura e dei respingimenti. La politica dei “porti chiusi” ha guadagnato consensi come mai prima d’ora. Consensualmente, negli ultimi decenni, anche alcune realtà ospedaliere in differenti Paesi hanno vissuto una svolta. Da luoghi chiusi si sono trasformati in luoghi aperti. Da strutture di cura con molte limitazioni per i visitatori (in termini di spazio e di tempo) si sono trasformate in strutture che hanno reso semplice l’accesso a chi viene in visita ai pazienti. La politica delle “porte aperte” in ospedale si è diffusa e ha dimostrato grandi vantaggi sotto più punti di vista. Pur con le dovute cautele, esiste un’asimmetria tra i “porti chiusi” e le “porte aperte”. Si tratta di soluzioni opposte a problemi per certi versi simili in contesti differenti. È possibile tentare un confronto? La medicina può suggerire qualcosa alla società?

Open doors, closed ports: can medicine suggest something to society?

Summary. Western countries are today experiencing a profound mutation of their immigration policies. Integration and hospitality have been taken over by closure and rejections. The policy of “closed ports” gained ground as never before. Traditionally, hospitals have imposed rules and restrictions to patients and visitors, ruling and limiting the space and the time offered. In the last two decades, though, a radical change in perspectives of some medical centres allowed a profound transformation of hospitals from closed realms to open spaces where communication and interaction with visitors is desired and encouraged. The policy of “open doors” became widespread and showed benefits in a lot of ways. Noticeably, a profound asymmetry exists between the idea of “closed ports” and “open doors”, both representing – albeit in different contexts – opposite solutions for similar issues. It is possible to make a comparison? Can medicine suggest something to society?

Negli ultimi anni i Paesi occidentali stanno vivendo una svolta nelle politiche riguardanti l’immigrazione. Rispetto all’idea di accoglienza e integrazione si è imposta quella della chiusura e dei respingimenti. In Italia, pochi mesi fa, l’allora vice-premier ha proposto la chiusura dei porti per tutte quelle imbarcazioni di soccorso cariche di migranti raccolte nel mar Mediterraneo. Negli Stati Uniti è iniziata la costruzione del muro al confine con il Messico allo scopo di impedire l’accesso dei migranti. Muri e filo spinato sono una realtà anche in altri Paesi europei.

Queste scelte politiche raccolgono consensi in un’ampia fetta della società. È diventata diffusa l’idea che l’“invasione” di stranieri provenienti dai cosiddetti “Paesi poveri” possa essere un pericolo per l’economia, la sicurezza e la cultura dei “Paesi ricchi”. Chi sostiene la necessità di proteggere i cittadini contro questo presunto pericolo sta vincendo contro chi sostiene che accogliere e integrare i migranti possa essere un’opportunità oltre che un dovere morale1.

Negli ultimi decenni anche alcune realtà ospedaliere di molti Paesi hanno vissuto una svolta. Da luoghi chiusi si sono trasformati in luoghi aperti. Da strutture di cura con molte limitazioni per i visitatori (in termini di spazio e di tempo) si sono trasformate in strutture che hanno reso semplice l’accesso a chi viene in visita ai pazienti. Questo passaggio non è stato immediato, in molte realtà è ancora in corso, in altre non ancora iniziato, ma l’idea dell’ospedale “a porte aperte” si sta imponendo come un modello vincente. L’ospedale aperto ha prodotto effetti positivi facilitando il rapporto tra sanitari e pazienti, migliorando la qualità del ricovero e riducendo l’ansia dei pazienti e dei loro familiari2. Le preoccupazioni relative al rischio infettivo tra i pazienti si sono dimostrate infondate3. Il miglioramento di alcuni parametri clinici si è dimostrato essere un effetto positivo diretto per il paziente4.

Esiste un’asimmetria tra i “porti chiusi” e le “porte aperte”. Si tratta di soluzioni opposte a problemi per certi versi simili in contesti differenti. Nelle argomentazioni esposte da chi sostiene di voler chiudere i porti emergono aspetti in comune con chi si è opposto a tenere aperte le porte degli ospedali.

Il primo aspetto riguarda la paura di fatti concreti, visibili e misurabili. Economia e sicurezza, posti di lavoro in calo, criminalità in aumento e nuove malattie sono le questioni più care a chi si oppone ad accoglienza e integrazione. In maniera similare, il rischio di infezioni veniva sollevato come esempio di possibile complicanza immediata dell’accesso liberalizzato in ospedale. Tale rischio tuttavia si è rivelato infondato. Non sono i visitatori a trasmettere infezioni ma i sanitari stessi. La soluzione del problema relativo alle infezioni ospedaliere non è allontanare i visitatori ma promuovere atteggiamenti virtuosi tra i sanitari. Il nemico non è fuori ma dentro il sistema.

Esiste un parallelismo tra questo e un altro timore ampiamente diffuso rispetto all’accoglienza dei migranti, ovvero quello relativo ai rischi sanitari. “I migranti portano malattie” è un ritornello ricorrente e per nulla originale. I dati epidemiologici rendono questo timore del tutto infondato5,6.

La popolazione straniera in arrivo presenta, di norma, condizioni di salute buone legate al fatto che solo le persone più giovani e più sane decidono di tentare il viaggio (“effetto migrante sano”). Sono semmai le disparità economiche e sociali che in molti casi i migranti sono costretti a subire (scarsissimi guadagni, alloggi precari, lavori pesanti e pericolosi, discriminazione) a comportare un peggioramento delle loro condizioni di salute (“effetto migrante esausto”). Ancora una volta siamo noi, generando condizioni di inospitalità, a creare i presupposti per il proliferare di malattie.

Il secondo aspetto di cui parliamo è certamente più sfumato e riguarda i valori più che i fatti concreti. Chi sostiene il respingimento dei migranti solleva come ulteriore argomento la paura di perdere la propria identità e di contaminare i propri valori. Da un lato questo sottintende il fatto che il nostro sistema di valori è considerato talmente debole e fragile da non poter entrare in contatto con sistemi di valori differenti. Dall’altro esiste l’idea che contaminazione e integrazione siano potenzialmente inquinanti e quindi da evitare a ogni costo. Manca la volontà di riflettere sui propri valori e di confrontarsi con quelli altrui.

Una delle questioni che i sanitari hanno dovuto affrontare durante il percorso di apertura degli ospedali è stata quella di ridefinire il proprio ruolo: chi sono io in ambito professionale, che cosa devo fare, che cosa mi è richiesto, come devo relazionarmi con le altre figure dell’équipe, con i pazienti e con i visitatori. Questo evidentemente ha richiesto uno sforzo, culturale più che tecnico. Ma ha anche resa necessaria l’acquisizione di nuove competenze: agire per risolvere le situazioni conflittuali, accogliere in maniera costruttiva critiche e obiezioni, essere in grado di affrontare tematiche dai contenuti sgradevoli o scomodi, comunicare efficacemente anche in condizioni di stress.

Da qualcuno, almeno in fase iniziale, questo sforzo è stato interpretato come una perdita più che un guadagno, una perdita in termini di autonomia, indipendenza, identità professionale e credibilità. I fatti tuttavia dimostrano qualcos’altro. Nelle realtà che da anni hanno iniziato un percorso di apertura solo un piccolissimo numero di operatori tornerebbe indietro riducendo l’orario di visita in maniera restrittiva, e la grande maggioranza ne riconosce l’utilità non solo per i pazienti e i familiari, ma per i sanitari stessi, in relazione all’aumentato grado di soddisfazione per il proprio lavoro (riconosciuto come indispensabile) e alla riduzione della conflittualità.

È evidente che per costruire un ospedale aperto, così come per realizzare una società aperta, occorrano delle regole definite. Tuttavia abbiamo l’impressione che spesso la mancanza di regole già esistenti sia un’ottima scusa per non affrontare la questione, per difendere i propri confini ed evitare di proporre soluzioni di apertura.

Siamo consapevoli che il parallelismo da noi presentato riguardi contesti decisamente differenti ma ci sembra che alcuni aspetti siano in qualche modo confrontabili.

All’interno degli ospedali aperti operatori sanitari, pazienti e visitatori, una volta messi a stretto contatto, si sono accorti di avere interessi e spesso valori comuni e di lavorare per gli stessi obiettivi.

Nella nostra società non potrebbe accadere qualcosa di simile?

Conflitto di interessi: gli autori dichiarano l’assenza di conflitto di interessi.

Bibliografia

1. Saracci R. Insidiosa barbarie. Recenti Prog Med 2018; 109:367-8.

2. Chapman DK, Collingridge DS, Mitchell LA, et al. Satisfaction with elimination of all visitation restrictions in a mixed-profile intensive care unit. Am J Crit Care 2016; 25: 46-50.

3. Malacarne P, Corini M, Petri D. Health care-associated infections and visiting policy in an intensive care unit. Am J Infect Control 2011; 39: 898-900.

4. Fumagalli S, Boncinelli L, Lo Nostro A, et al. Reduced cardiocirculatory complications with unrestrictive visiting policy in an intensive care unit: results from a pilot, randomized trial. Circulation 2006; 113: 946-52.

5. Khan MS, Osei-Kofi A, Omar A, et al. Pathogens, prejudice, and politics: the role of the global health community in the European refugee crisis. Lancet Infect Dis 2016; 16: e173-7.

6. Migration and health: key issues. WHO. Disponibile su https://bit.ly/2FdsNtC (ultimo accesso luglio 2019).