L’immunoterapia nel tumore del polmone non a piccole cellule: ritorno al futuro

Michela Roberto1, Andrea Botticelli2, Fabiana Cecere3, Francesco Cognetti3, Raffaele Giusti1, Alain Gelibter2, Antonio Lugini4, Fabrizio Nelli4, Marianna Nuti2, Daniele Santini5, Paolo Marchetti1,2

1Azienda Ospedaliero-Universitaria Sant’Andrea, Roma; 2Azienda Ospedaliero-Universitaria Policlinico Umberto I, Roma; 3Istituto Nazionale Tumori “Regina Elena” IRCCS – IFO, Roma; 4Azienda Ospedaliera San Giovanni Addolorata, Roma; 5Ospedale Belcolle di Viterbo; 6Policlinico Universitario Campus Bio-Medico, Roma.

Pervenuto su invito il 14 ottobre 2019.

Riassunto. L’avvento dell’immunoterapia nel trattamento delle neoplasie polmonari, ripristinando la risposta immunitaria contro le neoplasie e instaurando una memoria immunologica, è in grado di migliorare, oltre che la sopravvivenza libera da progressione e la sopravvivenza globale, anche la qualità di vita dei pazienti. Questo ha aperto la strada a nuovi algoritmi terapeutici, nuove strategie di combinazione, nonché al possibile impiego di immunoterapia adottiva (per es., reinfusione di cellule T infiltranti il tumore espanse in vitro o CAR-T). Sebbene l’impiego dell’immunoterapia sia ormai ampiamente utilizzato nelle diverse fasi della neoplasia polmonare, restano da chiarire quali siano i meccanismi di resistenza, i fattori predittivi di risposta, le interferenze tra immunoterapia e il microambiente tumorale, il ruolo dell’angiogenesi e le interazioni con le terapie convenzionali, come la chemioterapia. L’obiettivo è inquadrare gli importanti risultati ottenuti con l’immunoterapia nel tumore polmonare, fornendo spunti di riflessione utili a superare snodi decisionali alla base della scelta terapeutica. Inoltre, tornando allo studio della fisiopatologia polmonare e ai dati preclinici disponibili in letteratura, affronteremo le tematiche sulla diversità di risposta agli anti-PD1 e anti-PD-L1, comprese le nuove combinazioni, la necessità di identificare biomarcatori oltre il PD-L1, e nuove strategie di imaging radiologico.

Parole chiave. Angiogenesi, checkpoint inibitori, immunoterapia, NCSLC, PD-1, PD-L1, VEGF.

Immunotherapy in non-small cell lung cancer patients: back to the future.

Summary. With the advent of immunotherapy, the life expectancy of patients with advanced non-small cell lung cancer (NSCLC) is dramatically improved. As described in the most recent clinical trials, the addition of immunotherapy to the available therapeutic strategies, restoring an efficient immune response against neoplasms and establishing an immunological memory, is able to improve both patient’s survival and quality of life. This paved the way for new therapeutic algorithms, new combination strategies, as well as the possible use of adoptive immunotherapy. Although the use of immunotherapy is now widely employed in the different phases of lung cancer, we have not yet fully understood what are both the actual mechanisms of action and resistance to checkpoint inhibitors, predictive factors of response, immuno-related response criteria, and interferences between immunotherapy and tumor microenvironment, as well as angiogenesis and its interactions with conventional therapies, such as chemotherapy. The objective of this critical review is to frame the relevant results obtained with immunotherapy in NSCLC, providing insights to help overcome decision-making for a better therapeutic choice. In addition, returning to the study of pulmonary physiology and preclinical data, we will address the new issues on the heterogeneity of response to anti-PD1/anti-PD-L1, including their combinations, in NSCLC. Moreover, to date, we are facing with patterns of response different from those previously seen with cytotoxic or target therapies. Indeed, different radiological evaluation criteria have been proposed to evaluate response to immunotherapy and further efforts are needed to identify a unique system of evaluation and other than PDL1 biomarkers, to integrate radiology in the assessment of response.

Key words. Angiogenesis, checkpoint inhibitors, immunotherapy, NCSLC, PD-1, PD-L1, VEGF.

Introduzione

L’avvento dell’immunoterapia nella cura dei tumori polmonari ha completamente modificato le aspettative di vita dei pazienti affetti da neoplasie polmonari in stadio localmente avanzato o metastatico. I risultati dei più recenti studi clinici mostrano, infatti, come l’aggiunta dell’immunoterapia alle terapie disponibili, ripristinando un’efficiente risposta immunitaria contro le neoplasie e instaurando una memoria immunologica, sia in grado di migliorare, oltre che la sopravvivenza libera da progressione e la sopravvivenza globale, anche la qualità di vita dei pazienti. Sebbene l’impiego dell’immunoterapia sia ormai ampiamente utilizzato nelle diverse fasi della malattia polmonare, non abbiamo ancora compreso a fondo quelli che sono i meccanismi d’azione e di resistenza ai checkpoint inibitori, i fattori predittivi di risposta, i criteri radiologici immuno-correlati e le interferenze tra l’immunoterapia e il microambiente tumorale, l’angiogenesi e le interazioni con le terapie convenzionali, come la chemioterapia.

Obiettivo di questa revisione critica della letteratura è proprio quello di inquadrare gli importanti risultati ottenuti con l’immunoterapia nel tumore polmonare, fornendo spunti di riflessione utili a superare snodi decisionali alla base della scelta terapeutica. Inoltre, tornando allo studio della fisiopatologia polmonare e ai dati preclinici disponibili in letteratura, affronteremo le nuove tematiche sulla diversità di risposta agli anti-PD1 e anti-PD-L1, compresi i nuovi schemi di associazione con terapie a bersaglio molecolare e chemioterapia. Infine, facendo riferimento ai più recenti dati scientifici pubblicati, analizzeremo quali sono le caratteristiche utili a scegliere il paziente ideale per il trattamento con anti-PD1 piuttosto che anti-PD-L1. Inoltre, in considerazione della diversità di risposta dei trattamenti immunoterapici rispetto a quanto eravamo abituati a osservare con la chemioterapia o la terapia a bersaglio molecolare, affronteremo la tematica relativa all’identificazione di criteri radiologici univoci e dei nuovi strumenti di intelligenza artificiale in grado di spiegare il tempo e l’eterogeneità di risposta tipica del trattamento immunoterapico.

Aspetti di patologia di base

Fisiopatologia polmonare e possibili influenze di immunogenicità

Se si pensa che la superficie respiratoria di un adulto di circa 70 kg è pari a circa 75 m2, è possibile immaginare quanto complessa sia l’organizzazione anatomica polmonare, per poter essere contenuta all’interno del torace. La zona di conduzione, costituita dalla trachea e le prime sedici generazioni di bronchi e bronchioli, con il loro epitelio di rivestimento ciliato alla cui superficie sboccano i dotti di ghiandole mucose, oltre alla pura funzione meccanica di condotto dell’aria, è quella deputata alla difesa dagli agenti esterni come polveri, batteri, gas tossici o irritanti. I segmenti più distali della zona di conduzione esercitano inoltre una specifica azione di difesa contro le infezioni grazie alla presenza di linfociti e plasmacellule. Questa funzione protettiva in realtà inizia già a livello del naso: la rimozione delle particelle estranee dall’aria respirata è esercitata dall’impatto contro la parete del setto nasale, in una zona prossima alle tonsille e alle adenoidi, che così forniscono una difesa immunitaria contro il materiale biologicamente attivo con il quale vengono a contatto. È quindi ipotizzabile una maggiore esposizione ai patogeni e contaminanti respiratori proprio nei pazienti sottoposti ad adenotonsillectomia, intervento chirurgico molto comune nel passato anche per le sole forme infettive recidivanti. In condizioni fisiologiche, anche in assenza di tosse o starnuti, è comunque possibile eliminare le particelle estranee mediante il movimento ciliare e l’intrappolamento di queste particelle nello strato di muco prodotto dalle cellule caliciformi mucipare e dalle ghiandole mucose che ricoprono tutte le vie aeree della zona di conduzione. In condizioni patologiche, invece, come nella bronchite cronica, il numero di cellule caliciformi può aumentare e le ghiandole mucose possono ipertrofizzarsi, con aumento sia della quantità sia della viscosità delle secrezioni. Inoltre, agenti tossici come il fumo di sigaretta possono inibire il movimento ciliare, impedendo la prosecuzione del muco in direzione della faringe e la sua eliminazione con l’espettorato. L’ultima parte dell’albero respiratorio è rappresentata dalla zona respiratoria, composta quasi esclusivamente da dotti alveolari e alveoli. In questa zona, la funzione di difesa è esercitata dai macrofagi alveolari, grosse cellule mononucleate che si trovano sulla superficie alveolare dove catturano le particelle inalate o batteri, e li distruggono attraverso i lisosomi presenti al loro interno. I materiali organici non degradabili (particelle di carbone, amianto, ecc.) vengono anch’essi fagocitati dai macrofagi, che risalgono fino ai tratti distali della zona di conduzione per essere poi eliminati medianti i meccanismi di trasporto mucociliare. In realtà, possono anche migrare dagli alveoli nell’interstizio settale e nel tessuto peribronchiale interlobare, da dove possono immettersi nel sistema linfatico ed essere eliminati. È tuttavia anche possibile che i materiali inorganici fagocitati si depositino nel tessuto peribronchiale conducendo a patologie da accumulo come la silicosi e l’asbestosi. Peraltro, agenti tossici come il fumo di sigarette, oltre a ostacolare il trasporto mucociliare, possono anche inibire l’azione dei macrofagi, portando a condizioni patologiche come per esempio interstiziopatie. I macrofagi alveolari partecipano anche alla risposta immune e infiammatoria del polmone, secernendo enzimi, metaboliti dell’acido arachidonico e sostanze che modulano la funzione dei linfociti. L’eliminazione delle particelle estranee dagli alveoli può inoltre avvenire attraverso il movimento del fluido alveolare nella zona di conduzione, oppure nello spazio interstiziale e quindi nei vasi linfatici o nel torrente circolatorio ed essere fagocitate dai macrofagi interstiziali o dai fagociti del sangue, nonché da sostanze difensive inattivanti i batteri come il lisozima e la lattoferrina prodotte dai leucociti e dalle ghiandole mucose. Infine, a livello alveolare possono aver luogo processi di difesa immunitaria di natura sia umorale sia cellulo-mediata1. Questa complessa organizzazione strutturale giustifica le diversità in termini prognostici e terapeutici insite nei tumori polmonari a seconda della struttura cellulare da cui prendono origine e dai precursori morfologici che ne derivano. Per esempio, il carcinoma squamocellulare, frequentemente a origine dai grossi bronchi, deriva da un epitelio bronchiale che ha subito a seguito di stimoli irritativi quali il fumo di sigaretta o anche ripetuti episodi infiammatori, un processo di metaplasia, passando da un epitelio di tipo cilindrico pseudostratificato ciliato a un epitelio pavimentoso cheratinizzante2. Questo ovviamente è un meccanismo di difesa perché l’epitelio diventa più resistente, ma, in soggetti geneticamente predisposti, rappresenta un fattore di instabilità che predispone all’insorgenza del carcinoma.




Microambiente polmonare e fenotipi immunitari delle neoplasie polmonari non a piccole cellule

Il ciclo cancro-immunità, proposto da Chen e Mell­man3, è un processo spazio-temporale dinamico, che si svolge anche all’interno dell’organo polmone e che consiste di 7 step:

1. rilascio di antigeni tumorali;

2. presentazione degli antigeni tumorali;

3. priming e attivazione dei linfociti T;

4. traffico di cellule T nel torrente circolatorio;

5. infiltrazione delle cellule T nel tumore;

6. riconoscimento delle cellule tumorali da parte delle cellule T attraverso l’interazione TCR-MHC I;

7. distruzione delle cellule tumorali che a loro volta rilasciano antigeni tumorali, e il ciclo ricomincia.

Se uno di questi step viene meno, come per esempio lo scarso rilascio e la presentazione antigenica nei tumori EGFR mutati o ALK traslocati, o in caso di assenza di infiltrato immunitario nei cosiddetti “tumori freddi” o presenza di infiltrato ai margini del tumore nei cosiddetti “tumori immunoesclusi”, è facile intuire come si possa verificare una minore o alterata risposta all’immunoterapia.

Per spiegare la diversità di risposta al trattamento immunitario è stato recentemente proposto l’utilizzo di un immunogramma che attraverso tecniche avanzate di sequenziamento genico e di immunoistochimica è in grado di quantificare l’espressione di geni e molecole coinvolte nei diversi step del ciclo cancro-immunità del singolo paziente4,5. Nello studio di Karasaki et al.5 sono stati arruolati pazienti con adenocarcinoma oncogene-addict, e attraverso l’utilizzo dell’immunogramma si è visto che in realtà non vi è differenza di espressione di cellule T in base al solo stato mutazionale del gene EGFR. Allo stesso modo, non si è riscontrata nessuna differenza significativa confrontando il fenotipo immunitario dei pazienti con neoplasia squamosa rispetto a quelli con adenocarcinoma. Questi risultati suggeriscono che il tipo istologico e/o l’assetto mutazionale tumorale, da soli, non riflettono lo stato immunogenico complessivo del tumore. Probabilmente, sarà necessario studiare più fattori e combinarli insieme per catturare i diversi aspetti dell’interazione tra ciclo immunitario e tumore e per predire accuratamente la risposta all’immunoterapia.

Il trattamento antiangiogenico aggiunto all’immunoterapia come modifica l’homing linfocitario?

Nonostante gli importanti risultati ottenuti con gli anti-PD-1/PD-L1, solo una minoranza dei pazienti mostra risposte e sopravvivenza a lungo termine. Questo è probabilmente dovuto alla capacità del tumore di attivare multipli meccanismi di evasione della risposta immunitaria stessa, portando a un’immuno-resistenza primaria o secondaria alla terapia. Uno di questi meccanismi risiede nell’espressione del fattore di crescita vasculo-endoteliale (VEGF), che nei soggetti sani ha un ruolo centrale nei meccanismi di riparazioni tissutale e guarigione delle ferite.

Durante il processo di cancerogenesi, il VEGF stimola la formazione di nuovi vasi (angiogenesi) e contemporaneamente riduce la risposta immunitaria diretta contro il tumore. Pertanto, l’utilizzo di farmaci anti-VEGF, come l’anticorpo monoclonale bevacizumab, potrebbe avere un duplice effetto sulle cellule tumorali: non solo di tipo antiangiogenico ma anche immunomodulante. In accordo ai diversi dati preclinici presenti in letteratura, il VEGF eserciterebbe il suo ruolo immunosoppressivo attraverso 3 vie principali6:

1. riduce l’attivazione dei linfociti T inibendo la maturazione delle cellule dendritiche (CD) mediante l’azione sul fattore nucleare kB;

2. a causa della formazione di vasi tumorali aberranti e della down-regolazione di selectine e molecole di adesione necessarie per l’adesione dei linfociti T all’endotelio vascolare stesso, riduce il traffico e la trans-migrazione dei linfociti T dai linfonodi al tessuto tumorale all’interno della circolazione sanguigna;

3. in generale aumenta la presenza di cellule immunitarie inibitorie nel microambiente tumorale.

Alla luce della documentata attività immuno-soppressoria del VEGF, l’inserimento del bevacizumab nell’armamentario terapeutico delle neoplasie polmonari, con l’intento di rendere più immunogenici anche i tumori definiti “immuno-esclusi” o “freddi” ovvero dove le cellule immunitarie sono presenti solo alla periferia del tumore (fenotipo immune-excluded) o in cui non vi è proprio infiltrato infiammatorio (fenotipo immune-desert) e che pertanto non sono responsivi all’immunoterapia up-front, potrebbe rappresentare una valida opportunità terapeutica per superare la resistenza tumorale agli anti PD-1/PD-L1 somministrati da soli7. Questo fenotipo immunoresistente è tipico di alcuni tumori, come gli adenocarcinomi oncogene-addicted: pazienti con alterazione genetica di EGFR o ALK prima e dopo terapia a bersaglio molecolare presentano infatti una ridotta espressione di linfociti T CD8+ nel loro infiltrato tumorale e di conseguenza una scarsa sensibilità alla terapia anti-PD-1/PD-L18-10. I dati clinici emersi dai recenti studi di combinazione tra atezolizumab e bevacizumab nelle neoplasie renali11 e tra atezolizumab, bevacizumab e chemioterapia nel tumore polmonare12, compresi i tumori oncogene-addicted, confermano le teorie estrapolate dagli studi preclinici, per cui inibendo il VEGF si rimuoverebbe l’ostacolo al transito linfocitario dai linfonodi alla sede tumorale, aprendo le porte per un nuovo infiltrato infiammatorio e modificando il microambiente tumorale anche nelle neoplasie polmonare cosiddette “fredde”.

Aspetti clinici

Nei pazienti con neoplasia polmonare avanzata senza alterazioni molecolari, ovvero suscettibili di terapia a bersaglio molecolare, attualmente la scelta del trattamento si basa essenzialmente sull’espressione di PD-L1, sul tipo istologico e le condizioni generali del paziente.

Gli immuno-checkpoint inibitori (ICI) diretti contro la pathway PD-1/PD-L1, come nivolumab, pembrolizumab e atezolizumab, rappresentano i farmaci immunoterapici attualmente disponibili per il trattamento dei tumori polmonari avanzati. Sebbene essi abbiano completamente stravolto la prognosi di questi pazienti, raggiungendo in tutti gli studi registrativi sopravvivenze mediane nettamente superiori a quelle associate alla chemioterapia, peraltro con un migliore profilo di tollerabilità, c’è ancora una percentuale di pazienti che presenta resistenza primaria o acquisita e questi pazienti sono caratterizzati da una PFS breve e prognosi ancora infausta. In generale, si riporta un tasso di risposte terapeutiche del 14-23% nella popolazione non selezionata e fino al 48% nei pazienti con elevata espressione tumorale di PD-L113,14. In considerazione della forte discrepanza tra pazienti rispondenti e non rispondenti all’immunoterapia, molti sono gli sforzi della ricerca per identificare marcatori predittivi di risposta un po’ più robusti della sola espressione del PD-L1, peraltro dinamica ed eterogenea, e se vi sono strategie terapeutiche per superare i possibili meccanismi di resistenza. Dal convegno ESMO 2019, derivano i dati di sopravvivenza dello studio di fase 3 a 3 bracci con la combinazione nivolumab + ipilimumab rispetto alla chemioterapia e rispetto al nivolumab da solo per la I linea di trattamento (CheckMate 227). Indipendentemente dallo status di PD-L1, il braccio di combinazione è risultato più efficace, ma anche il dato del nivolumab in monoterapia nei pazienti con più elevata espressione di PD-L1 rispetto alla chemioterapia è risultato positivo. Pertanto, nei casi di pazienti più fragili anche il solo nivolumab sembrerebbe essere una scelta adeguata rispetto alla chemioterapia. L’elevato carico mutazionale del tumore (TMB), misurato mediante tecniche di sequenziamento genico avanzate, e l’alta espressione di neoantigeni sono risultati direttamente correlati alla risposta obiettiva e la sopravvivenza libera da progressione nella maggior parte degli studi e rappresentano attualmente i marcatori predittivi più promettenti15, sebbene poco utili nelle combinazioni di immunoterapia con la chemioterapia, come emerso dall’ultimo ESMO 2019.

L’associazione tra TMB, studiato su biopsia liquida, e risposta all’atezolizumab è stata dimostrata indipendentemente dall’espressione di PD-L1 e sia in prima sia in seconda linea terapeutica. La spiegazione alla scarsa risposta all’immunoterapia riportata nei tumori EGFR mutati o ALK traslocati sembrerebbe essere dovuta proprio al basso TMB e alla bassa espressione di neoantigeni, rendendo questi tumori poco immunogenici. Gli studi di anti-PD1 in I linea (Keynote-042, -149 e -189 e CheckMate 026) hanno pertanto escluso i pazienti con mutazioni di EGFR o ALK. Diversamente, lo studio IMpower150, in pazienti con neoplasia avanzata a istologia non squamosa, ha incluso anche pazienti con alterazioni di EGFR o ALK, a condizione che avessero ricevuto almeno una precedente linea di trattamento con inibitore tirosinchinasico. Il razionale della scelta deriva dalla dimostrazione che le mutazioni attivanti EGFR e l’over-espressione dell’EGFR stesso, mediante l’attivazione delle pathway JAK-STAT, PI3K-AKT e RAS-MEK-ERK, portano a una up-regolazione del VEGF, instaurando i fenomeni di immuno-soppressione su descritti. Allo stesso modo, anche la traslocazione di ALK favorisce l’espressione del VEGF, per cui l’utilizzo di un farmaco anti-VEGF come il bevacizumab troverebbe forte indicazione proprio nei tumori oncogene-addicted sinora esclusi dal campo dell’immunoterapia. In effetti, nello studio IMpower150, lo schema di terapia con bevacizumab, atezolizumab e chemioterapia è risultato più vantaggioso rispetto al braccio di controllo, in termini di PFS in tutti i sottogruppi, inclusi i 108 pazienti con mutazione di EGFR e ALK. Inoltre l’efficacia sembra essere indipendente dall’espressione del PD-L1, sebbene il beneficio appaia più rilevante nei pazienti con espressione di PD-L1 >=50% delle cellule tumorali o >=10% delle cellule dell’infiltrato infiammatorio, rispetto ai pazienti con PD-L1 assente. Inoltre, il vantaggio della combinazione rispetto alla chemioterapia viene confermato anche nel sottogruppo di pazienti con metastasi epatiche, sebbene caratterizzato da una peggiore prognosi16, ma con un profilo tissutale ipervascolare in cui si osservano alti livelli di VEGF. Questo spiegherebbe l’efficacia terapeutica in tutti i sottogruppi della combinazione chemio, immunoterapia e bevacizumab nei pazienti con neoplasia polmonare arruolati nello studio IMpower150. Difatti, l’effetto immunomodulatorio del bevacizumab in associazione all’inibizione del PD-L1 da parte di atezolizumab potrebbe creare un microambiente tumorale più immuno-responsivo, facilitando la distruzione delle cellule tumorali anche in ambienti più immuno-resistenti come le localizzazioni epatiche.

Sebbene non sia ancora stato proposto un algoritmo terapeutico definitivo nel trattamento delle neoplasie polmonari non a piccole cellule e quale sia il migliore trattamento immunoterapico tra quelli disponibili, sulla scorta dei dati preclinici discussi e di quelli estrapolati dalle analisi di sottogruppo degli studi registrativi è possibile fare una sorta di identikit del paziente “ideale” per un trattamento immunoterapico piuttosto che un altro (tabella 1). Attraverso questa tabella riassuntiva, sarà più facile per il clinico identificare dove si colloca il proprio paziente e scegliere consapevolmente il trattamento immunoterapico da proporre. A ogni modo, sia in prima e ancor più in seconda linea, l’efficacia è comparabile tra gli inibitori di PD-1 e PD-L1. Anche i profili di tossicità delle due classi di checkpoint inibitori sono comparabili, a eccezione di una maggiore incidenza di polmoniti interstiziali nei pazienti che ricevono anti-PD-1 rispetto a quelli sottoposti ad anti-PD-L1 (4% vs 2%; p=0,01)17. Questa differenza è verosimilmente legata al fatto che diversamente dagli anti-PD-1, gli anti-PD-L1 come atezolizumab non inibiscono l’interazione del PD-1 con il PD-L2, che è deputato proprio al controllo della risposta immunitaria polmonare svolta da macrofagi e tutto quel sistema linfocitario presente nell’interstizio settale e nel tessuto peribronchiale interlobare descritto nel capitolo della fisiopatologia.




Prospettive e conclusioni

L’eterogeneità tumorale che si riflette sul profilo mutazionale e immunologico, i limiti tecnologici nonché la diversità di risposta dagli agenti citotossici e la natura dinamica di biomarcatori come PD-L1 sottolineano la necessità di identificare altri strumenti in grado di riconoscere con maggiore precisione i fenomeni di risposta che si associano all’immunoterapia. Difatti, nonostante l’immunoterapia abbia completamente modificato l’aspettativa di vita dei pazienti affetti da neoplasie polmonari, ancora molto c’è da fare nei confronti di quei pazienti che vanno incontro a progressione precoce, pseudoprogressione18, o addirittura a una progressione severa e rapida detta “iperprogressione”, che riguarda circa il 15-20% o più dei casi19. Ovviamente in assenza di biomarcatori predittivi di risposta, la valutazione radiologica rimane lo standard del controllo di risposta all’immunoterapia e nel processo valutativo dell’oncologo clinico. In quest’ottica, i criteri di valutazione dell’immagine RECIST sono stati superati dagli irRECIST, ovvero RECIST immuno-relati, dove per caratterizzare una progressione radiologica intesa come l’aumento dimensionale >20% della somma dei diametri delle lesioni target rispetto al nadir o la comparsa di una nuova lesione, come per i RECIST classici, è necessario che questa progressione sia confermata al controllo radiologico successivo, eseguito dopo almeno 4 settimane dalla prima progressione20. Tuttavia, poiché la maggior parte dei trial ha usato i vecchi criteri RECIST, non vi è ancora univoca interpretazione di quali criteri radiologici utilizzare e soprattutto, vista la peculiare tempistica di risposta dell’immunoterapia, qual è il periodo di tempo necessario per ottenere una concreta riposta radiologica all’immunoterapia. Recenti studi suggeriscono che l’iperprogressione si verifica quando oltre alla progressione radiologica propriamente descritta dai criteri RECIST si verifica anche un aumento di più del doppio del tasso di crescita tumorale, detto “TGR”, e misurato come l’aumento percentuale del volume tumorale in un definito periodo di tempo. Anche altre ipotesi sono state proposte, tra le quali: l’analisi di un profilo genomico di “immuno-resistenza” in cui l’amplificazione dei geni MDM2/MDM4 sembrerebbe essere maggiormente correlata a progressione rapida di malattia; o l’utilizzo di nuovi modelli statistici, che superano il classico metodo di Kaplan-Meier, capaci di catturare anche gli affetti tardivi sulla sopravvivenza o le risposte a lungo termine, che più spesso vediamo in corso di immunoterapia20.

Infine, sono stati proposti sistemi di intelligenza artificiale, che attraverso indici radiologici e algoritmi sofisticati sono in grado di quantificare in modo automatizzato le caratteristiche del tumore20. Diversamente dalla tradizionale analisi istologica sul singolo campione tumorale, la radiomica, cioè l’intelligenza artificiale applicata alla radiologia, sarà sicuramente in grado di fornirci informazioni più dettagliate sui cambiamenti volumetrici e morfologici del tumore primitivo e/o delle singole localizzazioni metastatiche21. In uno scenario così complesso quale quello tipico dell’immunoterapia, in cui ogni singola sede ha un pattern di risposta diverso e un diverso microambiente, l’utilizzo di questa tecnologia nei prossimi studi darà probabilmente la chiave di lettura alle diverse progressioni tumorali in corso di immunoterapia e potrebbe rappresentare un valido strumento per la selezione del paziente ideale. Si aprono così nuovi scenari diagnostico-terapeutici, che in aggiunta alla scoperta di nuove molecole e all’avvento di sofisticati strumenti radiologici anche nel campo della medicina nucleare, come l’utilizzo di radionuclidi specifici per l’infiltrato infiammatorio tumorale22, consentiranno una valutazione sempre più accurata della risposta ai checkpoint inibitori e alla scelta del miglior algoritmo terapeutico.

Dichiarazioni: questo lavoro è stato realizzato grazie a un contributo non condizionante di Roche.

Conflitto di interessi: gli autori hanno percepito diritti d’autore da Il Pensiero Scientifico Editore - soggetto portatore di interessi commerciali in ambito medico-scientifico.

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