Esperienza clinica e criticità

Mirco Nacoti1

1Terapia Intensiva Pediatrica, Dipartimento di Anestesia e Rianimazione, ASST Papa Giovanni XXIII, Bergamo.

Pervenuto il 29 maggio 2020. Accettato il 1° giugno 2020.

Riassunto. Bergamo è una città ricca e popolosa del Nord Italia ma è anche uno degli epicentri della pandemia mondiale CoViD-19. Nonostante la generosità degli operatori sanitari, stiamo attraversando una grave crisi umanitaria che sta sottoponendo a un pesante stress ogni aspetto della vita quotidiana. Dall’esterno è molto difficile capire cosa sta succedendo perché tutto è chiuso per il lockdown e le case non sono distrutte come in caso di terremoto. Un’epidemia non è né soltanto un improvviso incidente mortale di massa, come un disastro naturale, né soltanto una malattia che i dottori devono curare, ma è anche un fenomeno sociale. Gli elementi storici e sociali sono fattori chiave per lo sviluppo (per esempio, intensa promiscuità tra animali e umani) e la diffusione di un’epidemia (per esempio, gli operatori sanitari e le ambulanze diventano rapidamente vettori del virus). La responsabilità medica può cambiare in tempi di pandemia? La mia risposta, come anestesista e medico di terapia intensiva di Bergamo, è sì. Quando la comunità medica è chiamata ad affrontare una pandemia senza precedenti, con poche prove scientifiche e “numeri folli” che descrivono la situazione, una testimonianza diretta schietta e onesta è un dovere etico. Scopo di questa narrazione è condividere un punto di vista sul dilemma della responsabilità morale.

Clinical experience and critical issues.

Summary. Bergamo is a rich and populous city of northern Italy and one of the epicentres of the worldwide pandemic CoViD-19. Despite the generosity of health workers, we are undergoing a severe humanitarian crisis that is stressing every aspect of daily life. From outside it is very hard to understand, because houses are closed for lockdown and are not destroyed as they would be in an earthquake. An outbreak is not “only” a sudden mass lethal incident, like a natural disaster, neither “only” a disease, to be treated by doctors, but a social phenomenon too. Historical and social elements are key factors for development (for example, intensive promiscuity between animals and humans) and spread of an epidemic (for example, health workers and ambulance rapidly become vector of the virus). Can medical responsibility change in times of pandemic? My answer, as anaesthetist and intensive care physician from Bergamo, is yes. When the global medical community is called on to face a pandemic of unprecedented scale, with little scientific evidence and “crazy numbers” describing the situation, honest and forthcoming advocacy is an ethical duty. Aim of this narrative report is to share a view point about the dilemma of moral responsibility.

Il 29 febbraio 2020, durante un assessment presso l’ospedale di Lodi, Guido Bertolini, epidemiologo dell’Istituto Mario Negri, rimane profondamente turbato dalla vista di una moltitudine di pazienti nel pronto soccorso e dalla sproporzione tra bisogni e la reale possibilità di curare, per insufficienza di materiale e persone. Ritorna a casa e spinge il comitato di bioetica della Società Italiana di Anestesia e Rianimazione a redigere le controverse linee guida di etica clinica1. Lo stesso giorno avevo lavorato come “urgentista” presso il presidio isolato e periferico di S. Giovanni Bianco, appartenente alla ASST Papa Giovanni XXIII di Bergamo. Avevo visto dozzine di pazienti ammassati in pronto soccorso con dispnea e occhi di paura; avevo trascinato da solo il corpo di una persona di cinquant’anni dal calorifero del bagno alla sua camera.

La piccola fiamma di operatore umanitario con alcune nozioni di salute pubblica ed etica si è accesa ed è diventata un fuoco ardente.

In questi due mesi ho visto e fatto molto. Ma la domanda che non mi lascia dormire è: ho pensato abbastanza?

Bergamo è l’epicentro occidentale della pandemia CoViD-19. Nonostante l’abnegazione e la generosità di molte persone, siamo testimoni di una grave crisi umanitaria che sta mettendo a dura prova il nostro sistema sanitario, economico, sociale, familiare.

Dall’esterno si fa fatica a vedere, perché le case sono chiuse e le infrastrutture non sono cadute come avviene con un terremoto. I numeri reali, però, la raccontano: i Comuni ci dicono che ci sono 6-7000 morti (quasi l’1% della popolazione)2; dato che un indice di letalità del 20% è un non senso3, significa che nella migliore delle ipotesi abbiamo 250.000 contagiati (un quarto della popolazione). La prevalenza dei contagiati supera il 60% in alcune zone, come si evince dai preliminari sierologici di ATS4 e come già a fine febbraio Roy M. Anderson ipotizzava su The Lancet, con un R0 del 2,5 basandosi sul caso Wuhan, in Cina5.

Costruire un “modello Bergamo” sostenibile di risposta alla crisi diventa elemento cruciale per la ripresa di tutta la società italiana e richiede uno sguardo che va oltre il proprio orizzonte, ovvero risposte “pandemiche” semplici (ma non semplificate), potenzialmente perseguibili in tutti i territori del mondo. Quando soffri molto, puoi essere stimolato a vedere ciò che gli altri non vedono (come le miocarditi Corona-related nei bambini6 o i decorsi complessi in alcuni pazienti immunosoppressi). Quando soffri molto, puoi essere molto sollecitato alla ricerca di soluzioni, ma soprattutto pervaso da domande. Da esse scaturisce la mia riflessione.

Una epidemia (dal greco epì-demos, che riguarda il popolo) non è solo una malattia, ma è anche e soprattutto un fenomeno sociale: fattori contestuali e storici contribuiscono a generarla (per esempio la promiscuità intensiva uomo-animale) e possono contribuire a diffonderla e sostenerla. Le ambulanze hanno circolato per diverso tempo senza decontaminazione e con personale senza protezione. Pronto soccorso invasi da pazienti e parenti (come succede la sera, il sabato e la domenica quando sul territorio l’assistenza primaria si riduce), senza percorsi, senza separazione tra CoViD-positivi e CoViD-negativi7: l’epidemia della iatrogenesi, come ci ricorda Ivan Illich nel suo Nemesi medica8, come ci hanno insegnato più recentemente MERS e SARS e come ben illustrato da Vincent Munster sul New England Journal of Medicine di metà febbraio9.

Un’epidemia non è un problema di terapia intensiva, ma di salute pubblica e ci ricorda quanto siano importanti i principi della primary health care enunciati dalla dichiarazione di Alma Ata nel 197810.

Drammaticamente ci ricorda come un modello di cura centrato sulla persona e la centralizzazione ospedaliera per curare le malattie tempo-dipendenti come l’infarto amplifichino il contagio, come l’eroismo senza dispositivi di protezione individuale o come la velocità di azione, e impediscano il contenimento sui territori e il coinvolgimento attivo delle persone, propri di un modello di comunità.

L’epidemia CoViD-19, proprio perché fenomeno pansociale, ha denudato le coscienze e ci pone di fronte una questione di senso, a mio avviso sostanziale per il futuro. Qual è il ruolo di un medico, e nello specifico di un anestesista-rianimatore, nella società? Poiché un ruolo non può costituire una rendita di posizione ma una definizione di responsabilità, la domanda si sposta verso il tema della responsabilità. Ho cercato quindi di sviscerare la questione partendo dall’assunto di E. Levinas secondo il quale «ognuno di noi deve sentirsi responsabile della responsabilità dell’altro»11. Come declinare questo assunto senza farsi schiacciare dal peso della stessa? Poiché il termine” responsabilità” (dal latino spondeo= prometto, do la mia parola) contiene una prospettiva di futuro, ho provato a scomporla e a identificare al contempo elementi di progettualità.

Le mie responsabilità dirette

Quelle che continuano a non farmi dormire.

Una festa con 40 persone a casa mia il 22 febbraio, con qualche amico che già da fine gennaio mi chiedeva: “Ma cosa ne pensi di questo Corona?”. E io rispondevo con superficialità: “Non ti preoccupare, segui quello che ti dicono e tutto andrà bene”.

Il trasporto di paziente sospetto CoViD in altra regione, in un ospedale senza percorsi CoViD, per incapacità di opporsi a un ordine dall’alto.

La morte di un paziente CoViD durante il trasporto in Germania, ancora per incapacità di opporsi a un ordine dall’alto.

“Devi scegliere tra tuo padre e tua madre”, dico al telefono a una amica che da sola deve gestire i genitori a casa.

Una corsa di notte ad aiutare il papà di amici con polmonite da CoViD-19 a morire senza soffrire perché per un vecchio come lui non c’è posto in ospedale.

Quattro persone morte con end-of-life decision in terapia intensiva, con un discreto approccio collegiale medico-infermieristico, ma senza il coinvolgimento dei parenti.

La responsabilità dei numeri

L’OMS da dicembre definisce in modo chiaro e quotidiano le linee di indirizzo di politica socio-sanitaria per far fronte all’emergenza CoViD-19 (e da anni ha elaborato documenti per prepararsi a una pandemia), ma sui numeri che la rappresentano, come sovente accade durante un’epidemia, c’è un grosso dilemma. A oggi (6 maggio) risulta che nel mondo ci siano circa 3.500.000 casi confermati (240.000 morti) e a Bergamo circa 13.000 con 2500 morti12. Ma i Comuni ci dicono che ci sono tra i 6000 e i 7000 morti (quasi l’1% della popolazione)13 e, considerando un indice di letalità tra l’1 e il 3%, sono ipotizzabili circa 250.000 contagiati. Quante azioni o non azioni a Bergamo, in Italia, nel mondo per un’errata percezione dei numeri? Quanto bisogno di conoscere il denominatore, come ci ricorda Vincent J. Munster sul New England Journal of Medicine9, per mettere in campo politiche lungimiranti o anche per prendere una decisione più consapevole sul fine vita?

La responsabilità delle priorità

Nel 1978 con la dichiarazione di Alma Ata si definiscono le priorità della Primary Health Care, quelle che hanno un impatto decisivo sulla salute delle persone: prevenzione, salute materno-infantile, controllo delle malattie infettive, chirurgia d’urgenza10. Durante una crisi umanitaria, prima di fare un trapianto, si dovrebbe creare un percorso CoViD-free sicuro per la paziente incinta e per il bambino con l’appendicite.

La responsabilità delle competenze

Gli esperti di un’epidemia si trovano all’interno delle organizzazioni non governative. Sono gli unici che hanno vissuto un’epidemia e una crisi umanitaria7. La conoscenza non è solo teoria, è anche esperienza. Le ATS sono state accusate di inazione, ma la riforma del 2015 le ha svuotate di potere operativo conferendo loro solo un ruolo di indirizzo14. Non siedono al tavolo delle Unità di Crisi (perlomeno non a Bergamo, così come le ONG). A oltre 2 mesi dall’inizio dell’epidemia all’Ospedale Papa Giovanni XXIII, come in altri ospedali e nelle case di riposo, non ci sono ancora percorsi fisici definiti che cercano di differenziare le aree CoViD dal resto. Salva più vite e riduce più contagi definire una PeeP (positive end-expiratory pressure) o un percorso?

La responsabilità clinico-metodologica

Quando sono entrato nel gruppo CoViD della terapia intensiva pediatrica (TIPed) ho chiesto che fosse elaborato un protocollo con un obiettivo generale che non poteva essere il mero trattamento della sindrome da distress respiratorio acuto (Acute Respiratory Distress Syndrome - ARDS). Andava ricalibrato adeguandolo alle esigenze del contesto, ovvero alla sproporzione tra l’esorbitante numero di pazienti necessitanti di cure intensive e l’impossibilità oggettiva a offrirle, e di conseguenza risultava vitale sostenere un elevato turn over dei pazienti. L’obiettivo generale del protocollo è divenuto dunque quello di salvare più vite possibili trattando pazienti con insufficienza respiratoria acuta da CoViD, dimettendo al più presto in respiro spontaneo, anche con supporti non invasivi come CPAP (Continuos Positive Airway Pressure) e NIV (Non Invasive Ventilation), evitando riammissioni. Questo approccio ha consentito di focalizzare azioni specifiche per favorire l’estubazione precoce:

Richmond Agitation-Sedation Scale (scala di punteggio per valutare la sedazione nel paziente critico - RASS) specifica per ventilazione meccanica e assistita, evitando RASS score -5 (definisce un livello di sedazione molto profonda = paziente non risvegliabile);

sorveglianza stretta della polineuropatia e del delirium;

extubation readiness test quotidiani;

valutazione appropriatezza e proporzionalità delle cure quotidiane, anche in relazione al contesto;

efficientamento di processi e risorse individuando azioni e terapie essenziali;

autonomizzazione del lavoro infermieristico condividendo target terapeutici;

definizione di indicatori di risultato bisettimanali per correggere errori.

Riusciremo a conservare questo approccio metodologico, a fare in modo che gli obiettivi siano il risultato di un’analisi collegiale di fattori contestuali e che le azioni siano coerenti con gli stessi?

La responsabilità della ricerca

Durante la prigionia negli anni ’40 Archibald Cochrane, nonostante i disagi e le privazioni, aveva curato con perizia molti prigionieri, spesso ammalati di tubercolosi, osservando come la malattia si giovasse più di un buon apporto calorico che di farmaci di incerta se non alcuna efficacia. I germi dell’evidence-based medicine nascevano da quelle osservazioni. Ottanta anni dopo, quanti supporti respiratori non invasivi CPAP utilizzati senza un sondino nasogastrico a Bergamo? Clorochina, antivirali, anti-IL6, anti complemento, cortisonici, antibiotici somministrati senza un reale approccio metodologico, senza un monitoraggio, con persone arrivate in ospedale consumate da giorni di dispnea. Quali dati, quale ricerca etica si può produrre in questa confusione15? Come si dice in gergo: “Garbage in, garbage out”16, anche se si compare su una rivista importante. E che dire della pretesa di chiamare “consenso” una firma chiesta a una persona dispnoica senza famiglia accanto? Questione così complicata da richiedere competenza ed esperienza, sovente delegata invece a specializzandi. Non tutto è lecito in urgenza, esiste un’etica della ricerca anche in emergenza17. Derek C. Angus in un view point su JAMA18 ci ricorda come nella pandemia del 1919 è stato usato il chinino in modo casuale e come 100 anni dopo stiamo utilizzando farmaci chinino-simili in modo altrettanto casuale. In urgenza, propone sempre Angus, occorre perseguire un approccio integrato di apprendimento mentre si fa (learning by doing). Ma le azioni, ci ricorda Hannah Arendt, devono essere eseguite anche a livello di pensiero (thinking by doing)19, per evitare quello che è successo durante il nazifascismo, quando è stata prodotta moltissima conoscenza (in tutti gli ambiti del sapere umano) ma spesso chi l’ha prodotta ha smesso di pensare.

La responsabilità del triage

Avere un supporto delle linee guida SIAARTI sul fine vita1 è stato d’aiuto, ci ha fatto sentire meno soli. Tuttavia un approccio metodologico e collegiale sono necessari per un loro corretto utilizzo.

Paradossalmente ritengo che a Bergamo siano servite a poco. Da dati preliminari sembra che a Bergamo più di 2000 persone siano rimaste a casa perché non c’era posto negli ospedali e il triage l’hanno fatto gli infermieri da soli nelle case, o le persone stesse che avevano capito che non c’era posto per loro. Le terapie intensive hanno fatto fatica ad adottare con metodo l’end-of-life care perché non lo facevano prima e tendono a non comprendere, come ci ricorda Adriano Pessina, che «inguaribilità non coincide mai con incurabilità»20. Così molti anestesisti, anche giovani, si sono trovati da soli nella shock-room a fare triage e prendere decisioni sul vivere e sul morire per sopperire alla mancanza di responsabilità degli intensivisti. Quanto dolore in quella solitudine per taluni? E forse quanto superomismo per altri?

La responsabilità della comunicazione

La responsabilità della comunicazione si ha sia nel metodo, per esempio quella proveniente dall’alto (confusa, frammentata per non dire troppo o per non spaventare) sia nelle parole, che non sono mai sterili e rilevano inconsci. Luoghi comuni come eroi, terapia intensiva, patente d’immunità, vaccino, guerra nascondono l’incapacità di raccogliere la condizione della precarietà e dell’incertezza che questa catastrofe ci consegna e che noi avevamo via via delegato (si muore nelle case di riposo, negli hospice, in terapia intensiva, spendendo tanti soldi, ma non a casa). L’unica eccezione al trend è la legge Basaglia, di cui forse sarebbe oggi opportuno riprendere la filosofia ispiratrice.

Mi dispiace ripeterlo, la terapia intensiva non costituisce una priorità di salute pubblica. Un chirurgo e un anestesista CoViD-free che operano una persona con appendicite sì.

La parcellizzazione della responsabilità

La parcellizzazione della responsabilità ha condotto alla deresponsabilizzazione. Il corpo è stato scomposto in parti sempre più piccole e specialistiche ed è scomparsa la persona e con essa la relazione con il suo territorio. In questa decomposizione si è parcellizzata anche la responsabilità per cui nessuno si sente più responsabile dell’impatto delle sue azioni sulla persona, la sua famiglia, il suo territorio di provenienza, il mondo a cui tutto ciò appartiene. La responsabilità è sempre di qualcuno più in alto. Quanto è importante in tempi di normalità abituarsi a raccogliere e distinguere un borbottio da una lamentela fastidiosa ma legittima, da una notizia falsa, da una critica propositiva? Quanto è importante in tempi di normalità imparare a discutere criticamente e collegialmente i casi clinici? A chi spetta ricomporre i pezzi del corpo, del mondo a cui appartiene?

Questo meccanismo di parcellizzazione della responsabilità ha condotto all’eliminazione della stessa come valore, mercificandola come mera necessità di avere una copertura assicurativa. E in questo percorso di parcellizzazione si inserisce a mio avviso il processo che ha condotto a una richiesta di accettazione acritica degli ordini imposti dall’alto in nome della guerra alla CoViD. Non pare di rintracciare in questo perverso processo lo stesso meccanismo che ha contributo alla tragedia dell’olocausto, come si evince dai 12 processi secondari (tra cui quello dei dottori) di Norimberga: “azioni compiute per ordine superiore”?

Questo è un punto fondamentale per capire come sia stato possibile l’olocausto, la “banalità del male” come la definisce Hannah Arendt: nessuno era responsabile, o meglio, nessuno vi si sentiva; facevano solo il proprio lavoro21.

Le cause di carenze di responsabilità sociale del presente affondano le radici in percorsi irrisolti del passato. Come ebbe a scrivere Churchill nelle sue memorie, «l’uccisione di Mussolini ci risparmiò una Norimberga italiana». Forse quel percorso di verità avrebbe potuto aiutarci oggi? Un organo di controllo dei decisori delle Unità di Crisi a stretto contatto con i territori sarebbe forse stato utile?

Anche e soprattutto per queste ultime domande che mi scuotono sento il bisogno di un confronto.

Stamane leggo sul New England Journal of Medicine22, con firmatari bergamaschi, l’elogio della capacità di aumentare i posti letto di terapia intensiva e nulla sull’abbandono dei territori; e di un fantomatico score cumulativo utilizzato per allocare ventilatori, ovvero il giovane medico anestesista solo che decide chi vive e chi muore di cui ho accennato sopra. Nessun segno, dentro una crisi umanitaria così devastante, di analisi autocritica, di domanda di senso.

Conclusioni

Provo una forte angoscia perché, come mi induce a riflettere il filosofo Giuseppe Goisis, coautore dell’articolo sul NEJM Catalyst7, «non è vero che nulla sarà più come prima». Ci saranno molte più persone povere e disperate. Ma le logiche economiche, scientifiche, politiche, sociali che ci hanno condotto a questa crisi possono restare drammaticamente le stesse, anche peggiorare. Ce ne sono già tutti i segni nella comunicazione e nelle azioni o non azioni.

L’ambivalenza del progresso tecnico-scientifico medico richiamata da Van Reasselaer Potter permane20. Serve un processo trasparente di riconciliazione con le reciproche irresponsabilità. Ma nel frattempo ritengo sia più che mai necessario ed eticamente doveroso, come medici, fare advocacy, definire distanze e identità per costruire nuove alleanze responsabili per il nostro futuro.

Come rianimatori ritengo necessario recedere dalla centralità conquistata e partecipare più attivamente alla gestione della salute pubblica, per esempio attraverso una scrupolosa e metodica gestione e prevenzione delle infezioni. Come anestesisti, riconsiderare l’importanza del nostro ruolo per rendere più efficienti gli interventi chirurgici di primary health care; infine, come forse ci suggerirebbe oggi Ivan Illich8, portare nei territori la nostra esperienza sul vivere e il morire e riconsegnarla agli uomini dopo avergliela espropriata.

Ringraziamenti: a mio padre Francesco.

Conflitto di interessi: l’autore dichiara l’assenza di conflitto di interessi.

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