Medicina e letteratura: un’antologia




L’arte di non far danni
Cammina per New York come in un mosaico di “inner cities”: Julius, il protagonista di Città aperta di Teju Cole, è uno studente di psichiatria, quella che definisce “l’arte di non far danni”. «Il suo mestiere – nota Daniela Fargione dell’Università di Torino – ha a che fare con l’idea di “vedere il mondo come un insieme di tribù”, ma se la categoria dei cosiddetti normali è cerebralmente prevedibile sin nelle sue multiformi diversità sociali, quella dei pazzi appare per lo più omogenea persino a molti addetti ai lavori. Ecco dunque il primo fattore che lo differenzia dagli altri studenti: gli insegnamenti impartiti educano a “diffidare della filosofia”, a rifiutare ogni forma d’olismo, mentre lui, al contrario, insiste nel “pensare all’anima”, a indugiare nel dubbio».
Leggendo le pagine di Cole, celebrato dal New Yorker e dal Guardian come una delle stelle nascenti della narrativa statunitense, il pensiero va ad Allen Frances, lo psichiatra americano che ha rinunciato a curare la quinta edizione del DSM-5 per non essere complice di una psichiatria accademica che sembra aver abdicato alla missione ippocratica del “primum: non nocere”.

Quel giorno […] avevo cercato di offrire al mio amico un resoconto sulla mia mutevole visione della pratica psichiatrica. Gli dissi che vedevo ciascun paziente come una camera buia e che, entrando in quella stanza per una seduta con il paziente, consideravo fondamentale essere lento ma deciso. Tenevo sempre a mente il più antico dei principi medici: non fare danni. Con le malattie che si vedono dall’esterno, si lavora con più luce; i Segni sono espressi con maggior forza, e quindi è più difficile non notarli. Per i problemi della mente, la diagnosi è un’arte difficile, visto che anche i sintomi più forti possono essere invisibili. Risulta particolarmente elusiva perché la fonte di informazioni sulla mente è la mente stessa, che è in grado di auto ingannarsi. Come medici dipendiamo, a un grado molto maggiore rispetto alle patologie non mentali, da quello che il paziente ci dice, spiegai al mio amico. Ma cosa dobbiamo fare quando la lente tramite cui vediamo i sintomi è spesso, di per sé, asintomatica? La mente è opaca a se stessa, ed è difficile distinguere dove si trovino di preciso queste aree di opacità. La scienza oftalmica descrive un’area dietro il bulbo oculare, il disco ottico, in cui i milioni di gangli del nervo ottico si dipartono dall’occhio. È proprio qui, dove si concentrano molti dei neuroni associati alla visione, che la visione va in tilt. Per tanto tempo – ricordo di aver spiegato al mio amico quel giorno – ho avuto l’impressione che gran parte del lavoro degli psichiatri, in particolare e di tutti coloro che lavorano nel campo della mente in generale, fosse un punto cieco così vasto da comprendere quasi tutto l’occhio.
Quello che sappiamo, gli dissi, è molto meno di quello che rimane nell’oscurità, e il fascino e la frustrazione del nostro lavoro sta proprio in questo enorme limite.

Da: Città aperta
di Teju Cole
Torino: Einaudi, 2013