Cinema e medicina

a cura di Luciano De Fiore

Il giovane favoloso

«Dalla mia teoria del piacere seguita che l’uomo, desiderando sempre un piacere infinito e che lo soddisfi intieramente, desideri sempre e speri una cosa ch’egli non può concepire. E così è infatti. Tutti i desideri e le speranze umane, anche dei beni ossia piaceri i più determinati, ed anche già sperimentati altre volte, non sono mai assolutamente chiari e distinti e precisi, ma contengono sempre un’idea confusa, si riferiscono sempre ad un oggetto che si concepisce confusamente».

Il desiderio arse Giacomo Leopardi costantemente, per tutta la sua non lunga vita. Ed il bel film di Mario Martone dà conto con attenzione di questa macchina atroce, ininterrottamente all’opera, capace di proporre ad un’intelligenza sensibile orizzonti sempre diversi.

Non dev’essere facile fare un film sulla vita di un poeta. Peggio ancora se il poeta è Leopardi, intrisa com’è la vox populi di pessimismi di maniera. Martone è riuscito, invece, a girare un buon film, aiutato dalla bravura ricercata degli interpreti: Elio Germano (Leopardi), Massimo Popolizio (il conte Monaldo), Michele Riondino (Antonio Ranieri), Anna Mouglalis (Fanny), Gloria Ghergo (Teresa Fattorini, cioè Silvia). La Ghergo, per di più, è recanatese, laureanda in scienze infermieristiche.

In una scena forse un po’ troppo didascalica, ma necessaria probabilmente per rappresentarla direttamente, emerge tutta la rabbia matura di Leopardi per chi continuava a confondere la sua profondissima infelicità con i suoi tanti, evidenti problemi di salute fisica. D’altra parte, all’arte di vivere a lungo Leopardi oppose con risolutezza la difficile arte di vivere felicemente, cioè il dovere di ricercare comunque una vita viva e degna di essere vissuta. Giacomo è sì gracile prima e poi malato, ed è ovvio che le sofferenze e le frustrazioni psicologiche che lo tormentavano non potevano non avere un’influenza sul suo stato d’animo. Da sempre asmatico e sofferente agli occhi per un’oftalmia, sosteneva lui stesso di essere “malato di nervi”, oltre che di scoliosi alla spina dorsale; inoltre, soffriva di bronchite cronica e certamente la sua morte è da imputare ad un idrotorace da scompenso cardiaco, da quanto diagnosticò il clinico napoletano Nicola Mannella, ribadito poi nella lettera dell’amico Antonio Ranieri al padre, il Conte Monaldo. Ma ben altra è l’origine dei suoi pensieri, liquidati, dai più, come infelici: l’accavallarsi come “pensiero dominante” dell’esperienza della morte e di quella dell’amare. In un assoluto presente, Leopardi vive il morso del desiderio inesausto ed inesauribile, sempre estroflesso verso nuovi desideri da desiderare, e insieme il trascorrere inesorabile dei giorni, la tirannia di una natura del tutto indifferente verso i destini dell’uomo. La morte assoluta e, intrecciata ad essa, la vita assoluta del pensiero amoroso.




Ravvivato, quest’ultimo, nel film, dalle brevi stagioni di innamoramento e passione. Come per la bellissima giovane filatrice, dirimpettaia della sua finestra a Recanati, la Silvia morta anzitempo, o come per la breve passione del periodo fiorentino per Fanny Targioni Tozzetti. Ma per quanto l’amore sia il «dolcissimo dominator di mia profonda mente», il mondo gli si rivela in tutta la sua insopportabile realtà: «Tutto il reale essendo un nulla, non v’è altro di reale né altro di sostanza al mondo che le illusioni». Leopardi ha le parole per dirlo, questo reale angosciante che per i più risulta invivibile. E, insieme, la forza per issarsi sul dorso del mondo di dolore, per vedere nuovi confini: «Quella vita ch’è una cosa bella non è la vita che si conosce, ma quella che non si conosce; non la vita passata, ma la futura», dice il Passeggere al Venditore d’almanacchi.

Martone accompagna questo passeggero della vita con discrezione, come uno dei pochi veri amici del conte Giacomo nella sua breve vita, tra Recanati, Firenze e Napoli. Fino alla notte della Ginestra a Torre del Greco, quando Giacomo, ormai stanchissimo, indulge un’ultima volta nella considerazione della infinità smisurata del cielo notturno, «e perde quasi se stesso nel pensiero dell’immensità delle cose, e si trova come smarrito nella vastità incomprensibile dell’esistenza» (Zibaldone). Nel nero della notte, trafitto dal fiammeggiare degli astri, segue quei «nodi quasi di stelle / ch’a noi paion qual nebbia». Dinnanzi a tanta immensità, «non so se il riso o la pietà prevale».