Cinema e medicina

a cura di Luciano De Fiore

Birdman, o della dialettica del riconoscimento sulla Broadway

Quattro Oscar 2015 per l’ultima opera del messicano Alejandro González Iñárritu, Birdman, o l’imprevedibile virtù dell’ignoranza: miglior film, migliore regia, migliore sceneggiatura originale e migliore fotografia. Manca solo la statuetta per il migliore attore protagonista. Forse Michael Keaton se la sarebbe aspettata. E invece la sua pur inappuntabile performance nei panni di Riggan Thomson, star decaduta dopo aver dismesso i panni di un super-eroe hollywoodiano che aveva il potere di volare indossando un costume da uccello, Birdman appunto, non gli ha permesso di battere la concorrenza. Lui, Keaton, che già venticinque anni fa aveva interpretato un indimenticato uomo pipistrello, Batman.

Plot lineare e, diciamolo, neppure granché originale: finzione sulla finzione, identificazione tra l’attore e la maschera, scontro tra l’attor giovane ed il vecchio, conflitto tra realtà e sogno. Eppure il film funziona, per la bravura degli attori e soprattutto grazie alla tecnica della regia e del montaggio. Paradossalmente, perché il montaggio è ridotto all’osso: il film, di due ore, è un insieme di piani-sequenza nei quali lo spettatore quasi non individua soluzione di continuità, accompagnato da un’efficace e incalzante colonna sonora: una batteria jazz che, spesso da sola, ritma incessante lo stato d’animo del protagonista e l’incombere degli eventi. Fin quando la batteria è talmente presente da creare un momento diegetico nel film, apparendo in scena.

Thomson sta rischiando il tutto per tutto in uno spettacolo teatrale autofinanziato a Broadway, adattamento di un racconto di Raymond Carver. Michael Keaton lo interpreta senza incertezze, impersonificando un disperato alle prese con una serie di relazioni fallimentari sia sul piano personale (in primis con la figlia Sam, una straniante Emma Stone dagli occhi sempre meno umani), sia su quello professionale. Punta tutto quel che gli resta di una vita amara sul proprio riscatto in quanto attore vero, volano anche per un improbabile rilancio della carriera e dei suoi rapporti affettivi. Ha un solo, enorme problema: vorrebbe essere riconosciuto per quello che (non) è: un grande attore. E dalla figlia: per quel buon padre che non è stato. E dalla ex moglie: per quel marito presente e affettuoso che non è riuscito a essere. E dall’attor giovine, un clamoroso Edward Norton. Che invece lo schifa.

Per cui il film può essere letto anche come una riuscita rappresentazione della filosofica dialettica del riconoscimento: esser riconosciuti dall’altro è la condizione necessaria per la presa di coscienza di sé stessi e per la propria stessa accettazione. Quasi a rammentarsi quest’evidenza, Thompson si è appuntata una frase in un post-it sullo specchio del camerino: «A thing is a thing not what is said of that thing» («Una cosa è una cosa, non quel che si dice di quella cosa»). Contraltare al grande manifesto di sé come Birdman che troneggia sull’altra parete.




Sì, perché il primo a non riconoscersi è Riggan stesso: una voce di dentro, avrebbe detto Eduardo, gli ricorda spesso che lui è Birdman. Riggan sente le voci: allucinazioni uditive. A volte, quando la realtà lo sfida troppo, si rifugia nel delirio e torna ad essere Birdman, volando sopra la Broadway: allucinazioni vere e proprie. Tecnicamente, clinicamente parlando, Thomson sembrerebbe schizofrenico1. A volte, senza che il piano sequenza s’interrompa, si fa strada l’irrealtà come «elemento sconcertante: cosa è reale, cosa è mentale, e a cosa dovremmo prestar fede?»2. Riggan sposta gli oggetti telecineticamente, col solo pensiero. Oppure levita facendo yoga, fin dalla scena di apertura. Per non dire dei suoi voli. Elementi filmici di “realismo magico”, oppure finestre sul disagio mentale del protagonista?




Al termine della prima, tutto sembra svelarsi, per poi velarsi di nuovo. Chiudendo il monologo finale, secondo la sceneggiatura di Carver il protagonista dovrebbe spararsi. Ma, con una overdose di realismo, è Thomson a farlo, con una pistola vera, tirandosi un colpo alla testa. Il pubblico in platea sembra comprendere subito, mentre la severa critica del New York Times scappa a scrivere dell’“inattesa virtù dell’ignoranza”, sottotitolo del film, messa in scena dal vecchio attore, giunto al suo ultimo atto.
Stacco. Nero. E tuttavia il film continua. Si direbbe con un happy ending. Ma neanche per sogno. Anzi, proprio in sogno. Vediamo Thomson in ospedale, bendato: come se il colpo di revolver non avesse fatto centro, ferendolo soltanto gravemente al naso, ormai perso e – s’intravede – sostituito da una sorta di nuovo naso che rammenta vagamente il becco di Birdman. Tutti gli amici intorno, la figlia Sam accudente, la prima pagina del NYT che riporta a titoli cubitali la recensione entusiastica dello spettacolo della sera prima. Eppure qualcosa non torna. Com’è possibile che Thomson stia così bene solo una dozzina di ore dopo essersi sparato? Eppure c’è stato quel colpo, e lo stacco, e il nero. Thomson, probabilmente, è morto davvero.
Il finale che Iñárritu sceglie sembra piuttosto una rappresentazione del delirio d’onnipotenza finale di Riggan. Quello che vediamo potrebbe essere la sua fantasia prima di spararsi. A partire dalla sua impennata sopra New York City, visivamente simbolica di una mente malata che sta architettando uno schema che possa liberarlo sia dalla pazzia, sia dall’umiliazione di un ruolo destinato a fallire. Stiamo vedendo ciò che non sarà o non è stato, il felice, ordinato finale che Riggan avrebbe voluto per sé: una recensione esaltante del NYT, un naso solo ammaccato, una moglie ed una figlia amorevoli, cesti di fiori in camera, un ultimo saluto di congedo a Birdman, ed infine il suo salto nei cieli, mentre Sam sarebbe rimasta a guardare con gioia, stupita.

Chissà: in fondo, il film è quello che è, al di là delle interpretazioni. Forse il post-it sullo specchio non era soltanto un richiamo a considerare Thomson per quel che fa, ma anche a guardare il film per come viene narrato.

Bibliografia

1. Woods A et al. Experiences of hearing voices: analysis of a novel phenomenological survey. Lancet Psychiatry 2015. doi: http://dx.doi.org/10.1016/S2215-0366(15)00006-1

2. Morgan J. A Bird, a plane, Superman? Lancet Psychiatry 2015. doi: http://dx.doi.org/10.1016/S2215-0366(15)00048-6