Cinema e medicina

a cura di Luciano De Fiore

Le conseguenze del desiderio

Per parlarne su queste pagine, sarebbe sufficiente notare che il film di Paolo Sorrentino è ambientato in un ex sanatorio, ora clinica di lusso. Sopra Davos, nel Canton Grigioni svizzero, dove – con la scusa dell’aria buona che combatte la tubercolosi e le malattie polmonari – da un centinaio d’anni e più la migliore borghesia europea va cercando, inutilmente, di guarire dall’unica malattia dalla quale non vi è remissione: il desiderio.

Nella realtà, è stato così per tanti: da Robert Luis Stevenson, ospite del Berghof nel 1882, a Arthur Conan Doyle, fino a Diego Maradona, al quale Sorrentino – attraverso la presenza di un malinconico sosia obeso – dedica nel film un omaggio amorevole. E ovviamente per Katia Mann, debole di bronchi, e per suo marito Thomas, colpito dal luogo al punto da ambientarvi il suo romanzo forse più famoso, Der Zauberberg, oggi tradotto in italiano con La montagna magica. Eppure, l’incanto del sito, come rendeva meglio la prima traduzione del titolo, consisteva forse proprio nella capacità non già di reprimere, bensì di reiterare e riaccendere il desiderio.
Oggi, in questa nostra età che vorrebbe imporre il godimento senza legge, è proprio la dimensione desiderante a soffrire. Chi invece ne è ancora affetto, è un malato sui generis – come i due amici e consuoceri protagonisti di Youth – La giovinezza, il musicista Fred Ballinger (Michael Caine) ed il regista Mick Boyle (Harvey Keitel) –, dal momento che il desiderio è spia di quella mancanza costitutiva che da sempre ci connota e ci rende umani.

Tacitarlo è difficile, ed oltremodo faticoso. La sua forza può essere piuttosto indirizzata, sublimata, magari creando, come hanno fatto per tutta la vita i due amici, non a caso artisti. Tante opere realizzate in una vita ormai lunga, tanti incontri, mille attenzioni dispensate alla famiglia. E adesso, alla fine, cosa ne rimane? C’è una sproporzione evidente, nota Fred, tra quanto si è dato ai nostri figli e quanto loro, da ultimo, ci riconoscono. Anche Mick ospita al sanatorio un manipolo di giovani amici che dovrebbero assisterlo nella sceneggiatura. Ma il suo intento vampiresco di succhiarne la gioventù e le idee va frustrato dalla loro pochezza.




Che senso ha tentare di guarire dal desiderio, se è l’unica forza che ci fa sentir vivi? Fred prova a spiegarlo, evocando l’argomento classico: la necessità di mettersi al riparo dalle passioni. Ma la sua apatia ed il suo cinismo non convincono: basta il suono appena accennato di un violino infantile, o la musica della natura alpina, per risvegliarne il desiderio. Come nel negozio di souvenir, quando non resiste a non provocare comunque il suono, azionando a catena gli orologi a cucù. O quando le mani esperte di una giovane massaggiatrice lo invitano a lasciarsi manipolare, rammentandogli l’importanza dell’essere toccati e toccanti. E su cosa si provocano, di continuo, i due anziani amici se non sulla memoria di un antico, trascorso amore comune?

Oltre al desiderio, nel film compaiono altri grandi temi classici: l’invecchiare ed il rapporto con i giovani, la memoria, l’amicizia, l’amore, la sete di ulteriori compimenti, proposti allo spettatore attraverso il piacere, anche visivo, dei contrasti di luci, colori e personaggi, suggerendo una sensazione di meraviglia nei confronti della bellezza, in tutte le sue forme, tipica della filmografia di Sorrentino.

È un film sul tempo, e quindi anche sulla memoria e l’oblio che il trascorrere degli anni comporta. Quando il giovane attor bello (Paul Dano) che sta preparando la parte di un nuovo film indossa a colazione il costume di scena, trasformandosi in un giovane Adolf Hitler, un’anziana coppia tedesca, fino allora contrassegnata dal reciproco mutismo, viene spinta da una reazione vitalistica addirittura all’amplesso, nel bosco. Fred, soprattutto, non può dimenticare di avere ancora una moglie, abbandonata demente in una struttura veneziana, in quella città di cui lui per tanti anni ha diretto l’orchestra.

D’altra parte, a intralciare e render vana ogni pretesa di oblio, bastano i sogni. Il film ne illustra due. Quello di Fred – reso peraltro splendidamente dalla fotografia perfetta di Luca Pigazzi – che sogna se stesso in una livida piazza San Marco notturna, sommersa dall’alta marea, come in uno scatto in movimento di Dopo il diluvio di David La Chapelle. Una città lagunare stanca, ritratta con una tavolozza di colori e sentimenti nuovamente vicina a quella manniana de La morte a Venezia. Sogno che prelude ad un’ultima visita di Fred alla vecchia, assente consorte. Il secondo sogno è l’incubo della sua bella e dolente figlia Leda (Rachel Weisz), appena lasciata dal marito per una popstar (Paloma Faith, nella parte di sé stessa), interprete in sogno di un video strapop girato dallo stesso Sorrentino per l’occasione.




Protagonisti piuttosto che vittime, Fred e Mick sanno perfettamente che il desiderio, sempre desto, ad ogni età richiede di esser soddisfatto in modo diverso: Miss Universo (Madalina Ghenea) entra nuda nella piscina termale dove stanno bagnandosi, e i due amici la guardano sì stupefatti e smarriti da tanta bellezza e gioventù, ma senza cupidigia. Insomma, per sentirsi vivi non c’è bisogno di tutte le cure, i massaggi, le abluzioni che il lussuoso sanatorio dispensa ai suoi ospiti. Quando Leda gli spiega che da quel periodo uscirà “in forma”, Fred ha facile gioco nel rispondere alla figlia che, alla sua età, rimettersi in forma è una perdita di tempo.

Per spezzare la catena desiderante, posto che i due ottantenni protagonisti sono maturi e navigati, non resta che un atto definitivo. Quello che compie Mick. Il quale si è dimostrato per tutto il film desideroso di realizzare una nuova opera, dal titolo ambizioso e terribile, L’ultimo giorno della vita. Visitato dalla sua antica musa, l’attrice Brenda Morel (Jane Fonda in un cammeo indimenticabile), che gli comunica di non voler partecipare al film, Mick constata di non avere allora altri motivi per girarlo, e ritenendo di non esser più libero di immaginare, di aver ancora davanti quell’ultimo giorno, salta dal terrazzo uccidendosi. Suicidio che, a chi ha buone letture, non potrà non ricordare quello di un personaggio rilevante della Montagna incantata, Mynheer Peeperkorn. Ma in fondo è come se Mick quel suo ultimo giorno lo avesse davvero girato, in virtù dell’arrivo di Brenda a Davos e del suo porre la parola fine al film.

Al contrario, Fred è più disponibile a riconciliarsi con le proprie memorie. Va a Venezia, dove al cimitero di San Michele lascia un mazzo di fiori sulle tombe appaiate di Igor’ e Vera Stravinskij, conosciuti in gioventù. Di nuovo consistente con se stesso e la propria storia, può fare i conti con i propri affetti, visitando la moglie. A quel punto può anche accogliere l’invito, fino a quel momento sdegnosamente rifiutato, della regina d’Inghilterra a dirigere le Simple Songs da lui composte, testimonianza del suo tenace amore per la consorte, accettando anche il titolo di Sir.

Si può celebrare il passato anche ad ottant’anni, se ci si dispone ad aprirsi al futuro. Se si rinuncia a voler guarire dal desiderio.