Cinema e medicina

a cura di Luciano De Fiore

Ferite
Appunti su Il cliente, di Asghar Farhadi

Le ferite sanguinano, ma non sempre sono visibili. Lascia tracce evidenti il taglio al piede di un vecchio pensionato, tra l’appartamento dove ha sorpreso e aggredito Rana, una giovane donna, nuda sotto la doccia, e le scale dalle quali arrancando è fuggito. Episodio che scava una ferita profonda anche nell’anima di Emad, marito della donna. E mentre la ferita del vecchio, col tempo, tende a rimarginarsi, i giorni che passano slabbrano e approfondiscono invece quella del giovane, sempre più dolente ed esposto al rancore ed al desiderio di vendetta. Più ancora della moglie, oltraggiata e alle prese con i pregiudizi dei vicini, frastornati da una cultura – quella iraniana – contesa fra tradizione e modernità.

Emad e Rana si sono appena trasferiti in un appartamento messo loro a disposizione da Babak, l’amico regista della compagnia teatrale della quale sono i protagonisti. Stanno allestendo Morte di un commesso viaggiatore, e la sera si ritirano stanchi nella nuova casa, dopo che quella vecchia – nella prima, potentissima scena del nuovo film di Asghar Farhadi, Il cliente (Forushande, Iran 2016) – è lì lì per schiantarsi, minata dalle ruspe che nel lotto accanto stavano spalancando una voragine deputata a inghiottire il vecchio quartiere.

Il vecchio crolla, Teheran cambia pelle, ma le viscere restano antiche. Emad fa parte della giovane borghesia colta; è un attore, perfettamente calato sul palcoscenico nel personaggio di Arthur Miller, occidentale come pochi. Anche Rana e gli amici sono aperti e gestiscono con apparente disinvoltura il passaggio dal vecchio al nuovo. Eppure, quando l’anziano panettiere approfitta di un malinteso per salire nell’appartamento che frequentava fino allora per aver compagnia da una prostituta e dove invece trova Rana, cultura e civiltà non bastano a frenare i sentimenti atavici di vendetta che afferrano Emad. Intanto, il suo primo pensiero è scoprire il colpevole. Vero è che Rana gli impedisce di rivolgersi alla polizia e di denunciare l’aggressione. Ma è come se non aspettasse altro per dar sfogo ad una reazione violenta e conservatrice, incapace di compassione e perdono. Il suo spazio privato è stato violato? Si sente allora autorizzato a fare altrettanto, ed in grande: in un crescendo di brutalità e intolleranza, prende a leggere le lettere lasciate in casa dalla vecchia inquilina, ascolta i messaggi sui cellulari altrui, guarda le foto sull’iPhone di un suo studente. Alla fine, di fatto sequestra l’anziano panettiere giunto a lui per caso, per usargli una cortesia in luogo del genero – il presunto colpevole, secondo Emad. E nonostante l’evidente malattia cardiaca del vecchio e, soprattutto, a dispetto dell’ansia di perdono di questi e della sua preghiera di non essere esposto alla vergogna di un confronto con la vecchia moglie, non esita a rinchiuderlo in uno stanzino ed a convocare la parentela del vecchio. Solo la minaccia di Rana («Se dirai una sola parola alla moglie di quel che ha fatto, non mi vedrai più») gli impedisce di essere esplicito con la figlia, il genero e l’amorevole coniuge del vecchio, sempre più sofferente, fino all’inevitabile infarto.




Il tono perentorio, la violenta determinazione che traspare dai suoi sguardi, il risentimento di Emad sono tali da costringere infine “l’Uomo” nel ruolo di vittima. E questo capovolgimento appare, francamente, un po’ scontato, e spinge verso una chiusa amara, ma prevedibile. Del film, quindi, più che il finale restano le intense sequenze iniziali: una città sconvolta non può far da sfondo soltanto ai propri residenti. Lo scuotimento finisce con l’abitarli. Che per quanto “viaggiatori”, come nel dramma di Miller, restano sempre ingombri di valigie e bagagli, non guadagnando mai la leggerezza di chi è disposto sempre a partire, a lasciare un orizzonte per abbracciarne un altro; ma, al contrario, appaiono pesanti di fardelli culturali e ideologici e di emozioni non elaborate, nonostante le professioni di laicismo e di modernità.