ASCO 2017: l’oncologia nell’era Trump

Anche se il congresso europeo sta guadagnando sempre più considerazione, l’appuntamento annuale con l’ASCO a Chicago resta un punto di riferimento essenziale per la comunità interessata all’oncologia. Quest’anno, agli inizi di giugno, i trentacinquemila medici che come di consueto si sono confrontati al McCormick Center hanno avvicinato per la prima volta il congresso nell’era Trump.

Le novità non eclatanti di questa edizione aiutano a sedimentare riflessioni già avviatesi negli scorsi appuntamenti. Le immunoterapie, così efficaci ma in coorti ancora piuttosto ristrette di pazienti con particolari mutazioni genetiche; il costo delle nuove terapie, difficilmente sopportabile dai servizi sanitari nazionali e a rischio rigetto anche da parte delle assicurazioni private, mentre prosegue negli USA lo smantellamento dell’Obama Care; la richiesta sempre più pressante da parte dei malati di un maggiore coinvolgimento nelle scelte terapeutiche che li riguardano e l’affacciarsi dei Paesi negletti dell’Africa e dell’Asia con il loro carico di richieste e legittime recriminazioni. Tutto ciò s’impone all’attenzione degli oncologi, ancor prima delle “novità” terapeutiche. Un congresso serio e riflessivo, senza squilli di tromba. E forse, proprio per questo, ancor più interessante.




Il web

I pazienti, dicevamo. Seguono con passione i social network e il web in generale, ma si rendono conto che i contenuti che vi trovano spesso non riescono a soddisfare il loro bisogno di informazioni e aggiornamenti. Per questo chiedono con forza l’utilizzo dei social media da parte dei centri oncologici, come ha svelato uno studio1 dei ricercatori del Mary Babb Randolph Cancer Center della West Virginia University (WVU) di Morgantown: ben il 32,7% dei pazienti afferma di visitare ogni giorno le pagine social del WVU Cancer in cerca di aggiornamenti, informazioni e notizie, mentre il 57,8% dei pazienti visita su base quotidiana il sito web ufficiale dell’istituzione. Una fortissima domanda di interattività e comunicazione social che rimane però sostanzialmente delusa negli Stati Uniti; figuriamoci in Italia, dove l’utilizzo degli strumenti web da parte delle istituzioni sanitarie è ancora in una fase albescente. E dire che in questi tempi di fake news e utilizzo incontrollato di internet da parte del pubblico si presenta per le istituzioni che sovrintendono alla salute dei cittadini un’opportunità comunicazionale che non andrebbe sprecata, a meno di non voler creare l’ennesimo “unmet need” nel campo dell’assistenza sanitaria.
Ma il web non è solo un’opportunità di informazione: incide persino sull’overall survival, quanto e più di una terapia innovativa, come ha dimostrato un trial randomizzato2 che si è imposto all’attenzione dei congressisti. Un team di ricercatori coordinato da Ethan Basch (Memorial Sloan Kettering Cancer Center, New York) ha dimostrato che uno strumento online piuttosto semplice (denominato Symptom Trecking and Reporting) attraverso cui segnalare tempestivamente all’équipe terapeutica gli effetti collaterali da chemioterapia ed eventuali urgenze permette ai pazienti che ne fanno uso con tumore in fase metastatica di vivere 5 mesi più a lungo di coloro i quali riportano i sintomi solo durante le visite mediche di controllo.
A venire incontro al paziente oncologico nel suo percorso sono anche interventi psicologici in grado di alleviare lo stress, diminuire la paura di recidive nei lungosopravviventi e migliorare la qualità di vita di chi convive con un tumore, diminuendo i tassi di depressione secondaria.
Uno studio australiano3 dimostra che un intervento psicologico mirato riesce a ridurre la paura in misura significativa: di 18,1 punti in una scala appositamente realizzata, contro 7,6 punti in meno del braccio di controllo. La diminuzione diveniva più significativa col passar del tempo, scendendo dopo sei mesi di 27,2 punti.

Anche l’intervento psicologico chiamato STREAM4, gestito in remoto via web da medici dell’ospedale universitario di Basilea per pazienti di lingua tedesca svizzeri, tedeschi e austriaci, conferma l’efficacia del supporto psicologico. «Quando il medico dice “cancro”, la parola porta con sé un carico di emozioni, paura e incertezza. Le terapie devono essere quindi accompagnate da un sostegno psicologico di alto livello. Ed esistono in rete strumenti eccellenti in grado di assicurare questo supporto, specie ai pazienti che altrimenti non avrebbero l’opportunità d’incontrarsi con un terapeuta», nota Don S. Dizon (Massachusetts General Hospital, Boston). L’intervento consiste in un programma di gestione dello stress di otto settimane, sviluppato da oncologi e psicologi, che si basa su una psicoterapia cognitivo-comportamentale via web, faccia a faccia con il malato, messo in condizioni d’interagire online con i terapeuti. Oltre alle sessioni in diretta, il programma fornisce anche informazioni audio e testo, esercizi e questionari. A distanza di due mesi, per i pazienti del braccio STREAM si è constatato un vantaggio in termini di qualità della vita di 8,59 punti rispetto al gruppo di controllo, mentre il punteggio medio di stress era calato da 6 a 4.

Un terzo studio randomizzato5, il CALM (Managing Cancer and living carefully), ha coinvolto 305 malati reclutati in una vasta area urbana del Canada centrale. Tre mesi dopo aver ricevuto il sostegno del CALM, grazie a 3/6 sessioni di colloquio psicologico di 45/60 minuti ognuna, sostenute con personale specializzato per 3/6 mesi, il 52% di questi malati presentava una marcata riduzione dei sintomi di depressione, contro il 33% del braccio di controllo a 3 mesi, e del 64% a 6 mesi dalla somministrazione. A un test dopo tre e sei mesi, questi malati sono risultati meglio disposti ad affrontare con dignità e una qualche serenità il percorso di fine vita.

La trasparenza

Un altro grande tema dell’ASCO 2017 è stato il desiderio di trasparenza. Non si tratta più soltanto di ragionare sulla tossicità finanziaria dei più recenti trattamenti, per cui una percentuale crescente di malati e delle loro famiglie finisce in bancarotta per pagare le cure. Neppure più di denunciare la disparità delle terapie tra Paesi affluenti e Paesi poveri. Quel che si sta facendo largo è una più marcata consapevolezza della necessità di ricerche indipendenti, meno condizionate dall’industria del farmaco. Un afflato – per così dire – anche “istituzionalizzato” dalla decisione di CancerLinQ LLC di implementare una partnership pluriennale6 con la FDA per avviare una grande raccolta di report dei pazienti oncologici e di big data per analizzare i dati “real world” riguardanti l’utilizzo di nuovi farmaci. I dati così raccolti da CancerLinQ® verranno utilizzati per accrescere le nostre conoscenze sulle traiettorie di cura di tutti i tipi di tumore con tutte le opzioni terapeutiche disponibili, accelerando analisi che sarebbero molto più difficili da effettuare seguendo le normali vie della ricerca scientifica e aiutando la FDA e gli altri enti regolatori internazionali nel processo decisionale. CancerLinQ® è l’iniziativa sui big data dell’American Society of Clinical Oncology, che può contare – oltre che sulla potenza analitica di CancerLinQ Discovery™, una piattaforma che permette di studiare dati real world aggregati – sulla collaborazione fattiva di decine di strutture ospedaliere statunitensi. «Si tratta di una collaborazione che permette di affrontare una delle sfide più difficili dell’Oncologia moderna», spiega Clifford A. Hudis, CEO dell’ASCO e chairman del CancerLinQ Board of Governors. «Finora la nostra informazione sui trattamenti innovativi proveniva da clinici e pazienti coinvolti nella ricerca tradizionale e rallentava significativamente appena i trial clinici finivano. CancerLinQ Discovery inizia a lavorare proprio quando i trial si chiudono, e ci apre un nuovo mondo di approfondimenti e analisi per guidarci nell’utilizzo delle terapie innovative e aiutarci a migliorare la qualità di vita e l’assistenza dei malati oncologici».




Del resto l’ambiente dell’oncologia mondiale – pur con qualche persistente ombra – non può più ignorare (o far finta di ignorare) il bias determinato dall’ingerenza delle aziende nell’assistenza ai pazienti. L’elargizione di fondi a oncologi da parte delle aziende farmaceutiche è infatti direttamente correlata a un aumento della prescrizione da parte di quegli oncologi di farmaci prodotti dalle aziende in questione, almeno negli Stati Uniti. Lo afferma uno studio7 dei ricercatori dell’University of North Carolina a Chapel Hill coordinati da Aaron Philip Mitchell, che hanno analizzato il database Open Payments incrociando poi i dati delle transazioni finanziarie effettuate tra specialisti statunitensi e aziende con quelli delle prescrizioni effettuate e registrate su Medicare Part D Prescriber. Utilizzando un modello statistico McFadden, il team di Mitchell ha provato a determinare l’impatto dei grant ricevuti dagli oncologi sul loro “comportamento prescrittivo”, applicando il modello a scenari clinici nell’ambito dei quali gli oncologi potevano scegliere tra diverse opzioni terapeutiche, per esempio nel carcinoma a cellule renali metastatico (mRCC) tra sunitinib, sorafenib e pazopanib e nella leucemia mieloide cronica (CML) tra imatinib, dasatinib e nilotinib. La variabile indipendente primaria era l’aver ricevuto pagamenti da parte delle aziende produttrici dei suddetti farmaci nel 2013; la variabile dipendente era prescrivere un dato farmaco, sempre tra i suddetti, nel 2014. I finanziamenti delle industrie sono stati divisi in due categorie: finanziamenti alla ricerca e finanziamenti “generici” (viaggi, vitto e alloggio, compensi elargiti per interventi di vario genere). Dall’analisi dei dati è emerso che tra gli oncologi che hanno ricevuto finanziamenti “generici” da un’azienda, la probabilità di prescrivere il farmaco prodotto dalla stessa azienda aumenta sia per l’mRCC (OR: 1,78, 95%CI 1,23-2,57, media dei finanziamenti $566) sia per la CML (OR: 1,29, 95%CI 1,13-1,48, media dei finanziamenti $166). Lo stesso fenomeno si osserva in caso di finanziamenti alla ricerca nel mRCC (OR: 2,13, 95%CI 1,13-4,00, media dei finanziamenti $33.391), ma non nella CML (OR: 1,10, 95%CI 0,83-1,45, media dei finanziamenti $185.763).

La clinica

Uno studio osservazionale condotto su 826 pazienti con carcinoma colorettale al terzo stadio ha colpito fin dalla prima plenaria, rilevando una riduzione del tasso di recidiva del 42% e una riduzione della mortalità del 57% nei pazienti (il 19% del totale) che hanno assunto circa 60 g (≥ 2 oz) di frutta secca a guscio a settimana. I benefici sono stati significativi per tutti i fattori che possono influenzare la recidiva neoplastica, quali età, BMI, genere e mutazioni genetiche comuni. Tali benefici poi, a una successiva analisi, sono stati circoscritti alla sola assunzione di frutta proveniente da albero, tra cui mandorle, noci, nocciole, anacardi, noci pecan: non si è infatti riscontrata riduzione di recidive né di mortalità in pazienti che hanno mangiato arachidi o burro d’arachidi, peraltro di larghissimo consumo negli Stati Uniti. Gli autori sostengono che ciò sia da ricondurre alla diversa composizione metabolica dei legumi (di cui le arachidi fanno parte) rispetto ai frutti oleaginosi da albero. Si tratta di uno dei primi studi sul CRC in cui l’integrazione di frutta secca a guscio nella dieta è valutata non per il suo valore preventivo, ma per la sua capacità di ridurre recidive e mortalità. Con questo i ricercatori ovviamente non intendono suggerire una sostituzione delle terapie standard in favore di una dieta più ricca di frutta oleaginosa, quanto piuttosto promuovere abitudini alimentari sane che dimostrano di apportare benefici anche in termini di outcome clinici. D’altra parte, la relazione tra tumori e abitudini alimentari è sempre più indagata. Naturalmente, anche in questo caso, si attendono ulteriori approfondimenti in merito.








Sempre nel campo del colon-retto, i dati forse più dibattuti a Chicago sono stati quelli riportati da Axel Grothey (Majo Clinic, Rochester), che ha presentato il più vasto studio prospettico8 mai condotto nella storia del tumore colorettale, l’IDEA, su 12.834 pazienti, nel quale è ben rappresentata anche l’Italia. E come? Grazie a ricercatori di caratura internazionale, come Alberto Sobrero e Roberto Labianca, e grazie all’AIFA che si è affiancata al Ministero della salute francese, a quello giapponese, al NIHR e al National Cancer Institute americano. Un trial che ha dimostrato che in alcuni casi “less is more”. Che per i malati di tumore colorettale al III stadio dopo chirurgia, tre mesi di chemioterapia non sono – di fatto – meno efficaci di sei mesi della medesima cura, e con grandissimo vantaggio in termini di tossicità. Dimostrando quindi che a volte è possibile trovare il giusto equilibrio tra minore tossicità ed efficacia della terapia, per un paziente davvero al centro del processo terapeutico. I ricercatori hanno aggregato i dati relativi a più di 12.800 pazienti reclutati in 6 studi condotti in 12 diversi Paesi del Nord America, dell’Europa e dell’Asia, col fine di comprendere se una chemioterapia (FOLFOX o CAPOX) della durata di tre mesi fosse efficace quanto una della durata standard di sei mesi. Dai risultati è emerso che un trattamento di tre mesi si associa a una riduzione della probabilità di non andare incontro a recidiva inferiore solo dell’1% rispetto a un trattamento della durata di sei mesi (74,6% vs 75,5%). Inoltre, per i pazienti caratterizzati da un basso rischio (il 60% di quelli reclutati) la differenza è risultata addirittura minore (83,1% vs 83,3%). «Queste evidenze possono essere applicate, a livello globale, a 400 mila pazienti affetti ogni anno da cancro del colon», ha commentato Grothey. «Per il 60% di questi, caratterizzati da un basso rischio di recidiva, la chemioterapia di tre mesi potrebbe diventare il nuovo standard di cura».
Un altro dato molto interessante è venuto dalla sessione dedicata ai tumori della mammella. Secondo un ampio studio retrospettivo⁹, le pazienti trattate per carcinoma mammario, anche ER+, che programmano una gravidanza non corrono un rischio più elevato del normale di recidiva. Sebbene circa la metà delle donne in età riproduttiva colpite da tumore della mammella si dichiarino interessate in teoria a una gravidanza, si stima che solo il 10% di loro rimanga effettivamente incinta dopo il trattamento. Di tutte le pazienti sopravvissute a un tumore non ginecologico, quelle con carcinoma della mammella sono quelle statisticamente meno inclini a una successiva gravidanza. Si è temuto per anni che una gravidanza potesse contribuire ad aumentare il rischio di recidiva, particolarmente in caso di tumori ER+, “alimentati” dagli estrogeni. Un’altra preoccupazione riguardava la terapia ormonale adiuvante post-chirurgica, che è necessario interrompere se si programma una gravidanza e che spesso viene somministrata per periodi di tempo molto lunghi.




I ricercatori dell’Institut Jules Bordet di Bruxelles, coordinati da Matteo Lambertini, hanno preso in esame 1207 pazienti under 50 con diagnosi di carcinoma della mammella non metastatico precedente al 2008. Nel 57% dei casi si trattava di un tumore ER+, nel 40% di tumori estesi ai linfonodi o di massa molto importante. Delle 1207 pazienti, 333 hanno intrapreso una gravidanza negli anni successivi al trattamento: la distanza media tra diagnosi e gravidanza è risultata di 2,4 anni, anche se le pazienti con tumori ER+ hanno aspettato in media più tempo (il 23% di costoro infatti ha programmato una gravidanza più di 5 anni dopo la diagnosi). Dopo un follow-up medio di 10 anni non è stata riscontrata alcuna significativa differenza nella PFS tra le pazienti che avevano scelto una gravidanza e le altre. Non solo: tra le sopravvissute a un tumore ER+, la gravidanza pare rappresentare addirittura un fattore protettivo, perché il rischio di decesso risulta inferiore del 42% proprio nelle pazienti che hanno scelto la gravidanza.
Tra le terapie, i PARP inibitori si candidano come nuova opzione di trattamento per il carcinoma della mammella. Lo studio di fase III OlympiAD¹⁰, coordinato da Mark E. Robson (Memorial Sloan Kettering Cancer Center, New York), ha messo a confronto olaparib e la chemioterapia standard, randomizzando 302 pazienti con carcinoma della mammella metastatico BRCA mutato sia HR+ che triplo negativo a olaparib orale o chemioterapia standard (capecitabina, vinorelbina, eribulina) fino a progressione o allo sviluppo di effetti collaterali. È stata registrata una riduzione dei tumori nel 60% delle pazienti del gruppo olaparib e nel 29% del gruppo standard: dopo un follow-up di 14 mesi le pazienti trattate con olaparib mostravano un tasso di progressione inferiore del 42% (tempo di progressione medio 7 mesi vs 4,2 mesi del gruppo chemioterapia). Anche la seconda progressione si è rivelata più dilatata nel tempo nel gruppo olaparib, a riprova del fatto che il tumore non si fa più aggressivo al cessare dell’effetto protettivo del farmaco. La qualità di vita, infine, è risultata significativamente migliore nel gruppo olaparib. Ancora una volta però i dati non consentono di valutare l’impatto sull’overall survival, il che resta una costante spesso rilevata dagli oncologi, perplessi nei confronti di studi clinici per i quali il tempo libero da progressione diviene di fatto l’endpoint primario.

Maria Nardoianni, Fabio Ambrosino, David Frati

Bibliografia

1. Ali S, Knestrick MW, Aciavatti L, Wen S, Shah NA. A survey on social media use and expectations in cancer patients. Abstract e18183, ASCO Annual Meeting 2017.

2. Basch EM, Deal AM, Dueck AC, et al. Overall survival results of a randomized trial assessing patient-reported outcomes for symptom monitoring during routine cancer treatment. Abstract LBA2, ASCO Annual Meeting 2017.

3. McNeil Beith J, Thewes B, Turner J, Gilchrist J, Sharpe L, Girgis A. Long-term results of a phase II randomized controlled trial (RCT) of a psychological intervention (Conquer Fear) to reduce clinical levels of fear of cancer recurrence in breast, colorectal, and melanoma cancer survivors. Abstract LBA10000, ASCO Annual Meeting 2017.

4. Rodin G, Lo C, Rydall A, et al. Managing cancer and living meaningfully (CALM): a randomized controlled trial of a psychological intervention for patients with advanced cancer. Abstract LBA10001, ASCO Annual Meeting 2017.

5. Hess V, Grossert A, Alder J, Scherer S, Handschin B, Borislavova B. Web-based stress management for newly diagnosed cancer patients (STREAM): a randomized, wait-list controlled intervention study. Abstract LBA10002, ASCO Annual Meeting 2017.

6. CancerLinQ Partners with FDA to Study Real-World Use of Newly Approved Cancer Treatments. ASCO annual meeting 2017 press release.

7. Mitchell A, Winn A, Dusetzina S. Pharmaceutical industry payments and oncologist drug selection. Abstract 6510, ASCO Annual Meeting 2017.

8. Shi Q, Sobrero AF, Shields AF, et al. Prospective pooled analysis of six phase III trials investigating duration of adjuvant (adjuv) oxaliplatin-based therapy (3 vs 6 months) for patients (pts) with stage III colon cancer (CC): the IDEA (International Duration Evaluation of Adjuvant chemotherapy) collaboration. Abstract LBA1, ASCO Annual Meeting 2017.

9. Lambertini M, Kroman N, Ameye L, et al. Safety of pregnancy in patients with history of estrogen receptor positive (ER+) breast cancer: long term follow-up analysis from a multicenter study. Abstract LBA10066, ASCO Annual Meeting 2017.

10. Robson ME, Im SA, Senkus E, et al. OlympiAD: Phase III trial of olaparib monotherapy versus chemotherapy for patients (pts) with HER2-negative metastatic breast cancer (mBC) and a germline BRCA mutation (gBRCAm). Abstract LBA4, ASCO Annual Meeting 2017.