Cinema e medicina

a cura di Luciano De Fiore

La Storia e la ferita:
su Una questione privata,
di Paolo Taviani

Impossibile rendere con immagini in movimento la severità e il rigore di Una questione privata, di Beppe Fenoglio. Uno dei più bei racconti della letteratura italiana. Adesso trasposto in cinema da Paolo e Vittorio Taviani, anche se è il solo Paolo a firmarne la regia.

Eppure il film è composto e asciutto. La misura e la compostezza del romanzo sono state rispettate per rendere la vicenda sentimentale del protagonista, il partigiano Milton, innestandola nella Storia, con la esse maiuscola. La storia di una ferita in una Storia più grande.

Il libro fu pubblicato postumo nel 1963. Fenoglio lo aveva concepito e scritto tra il ’60 e il ’61: erano trascorsi quindici anni dalla fine della guerra. E si sentono tutti, quegli anni: una storia così non si sarebbe potuta scrivere ad armi ancora calde. Perché portare dentro la Storia – il mito fondativo resistenziale, la guerra partigiana contro i nazifascisti in Alta Italia – una vicenda così intima, come la questione privata del titolo, diviene possibile solo quando la ferita ha iniziato a rimarginarsi. Solo quando lo sguardo di Fenoglio può allargarsi oltre la nebbia che, non a caso, insiste in tutte le parti del romanzo, e del film, dedicate al secondo atto del dramma: la ricerca affannosa di Milton del suo amico, e rivale in amore, fatto prigioniero dagli “scarafaggi” nazifascisti.







Il “prologo in cielo” è costituito dall’idillio a tre tra il protagonista (Luca Marinelli), il bell’amico Giorgio (Lorenzo Richelmi) e Fulvia (Valentina Bellè), la donna amata da entrambi. Il suo sguardo è quasi sempre offuscato dal fumo lento delle sigarette che i tre si scambiano di continuo, come a rappresentare la caducità del tempo, fugace quanto una cicca. Una stagione nella bella villa di lei, a sentire e risentire il disco di Over the Rainbow, colonna sonora dei pochi momenti felici tra Milton e Fulvia; a capire quanto dolce è il frutto dell’amore e amaro nel momento della separazione, e quanto possa intossicare se avvelenato dalla gelosia: qui, innescata da una mezza frase della custode della villa di Fulvia, che insinua in Milton il dubbio che tra Fulvia e Giorgio possa già esserci stato qualcosa. Prima che i due ragazzi salissero in montagna, in due diverse bande partigiane, e Fulvia scendesse in città.

Deve passare la notte. Finita la guerra, i tre potranno ritrovarsi e fare chiarezza. Nel frattempo Milton non si risparmia. È un punto di riferimento per i compagni, anche quando la battaglia si fa atroce, il fango impasta i passi, la fame incalza, i rastrellamenti dei nazifascisti portano morte e devastazione nelle cascine. Bellissima è la scena – originale nel film – di un’aia contadina nella quale la morte ha lasciato tutti a terra. Ma da terra si alza una bimba dalle lunghe trecce bionde, per bere sorsi di acqua e di vita, e poi accoccolarsi di nuovo contro il corpo esanime della madre.

Questo mondo di azioni e reazioni violente e primarie non sana però la ferita narcisistica di Milton, quel bruciore insopportabile per aver sentito intaccato l’amor proprio e visto sgretolarsi l’opinione di sé. Una ferita che si incista e suppura. Trema e soffre al pensiero che Fulvia abbia potuto preferirgli l’amico. Anche se per quell’amico è disposto a dare una vita, pur di riconquistare la propria autostima, offrendo in scambio ai nemici il frutto di una caccia feroce: un sergente dei Fascisti, un assassino di partigiani, che riesce a catturare mentre lascia la casa della maestra del paese, Canelli, con la quale aveva una relazione. Ma il fascista prova a scappare e Milton è costretto a sparare. Niente più merce di scambio. A quel punto, sul piatto resta soltanto la sua, di vita. E piange, Milton, sulla propria pochezza, scopertosi vulnerabile ed esposto, sull’abisso spalancato dalla mancanza di certezze. Milton vuole liberare l’amico perché solo così Fulvia potrà sceglierlo. La ragione “privata” del suo gesto eroico è dunque egoistica. Salvato l’amico, la sua azione – in apparenza motivata solo da altruismo – lo avrebbe posto su di un piedistallo agli occhi di lei. Senza Giorgio, la sua ferita narcisistica è destinata a non esser sanata.




Ossessionato dal ricordo di Fulvia e dal dubbio, cerca risposta nella fisicità della villa che almeno gli media il riparo dei ricordi. Roso dall’angoscia, perde di lucidità: «Il fatto è che più niente m’importa. Di colpo, più niente. La guerra, la libertà, i compagni, i nemici. Solo quella verità». Che non trova, ovviamente. Nella nebbia che ammorba il bel paesaggio dell’Alta Langa trova solo i nazifascisti. Si getta allora a perdifiato giù dalla collina: «Correva, con gli occhi sgranati, vedendo pochissimo della terra e nulla del cielo. Era perfettamente conscio della solitudine, del silenzio, della pace, ma ancora correva, facilmente, irresistibilmente. Poi gli si parò davanti un bosco e Milton vi puntò dritto. Come entrò sotto gli alberi, questi parvero serrare e far muro e a un metro da quel muro crollò».

Così si chiude il libro di Fenoglio: Milton, fedele al proprio nome di battaglia preso dall’autore del Paradiso perduto, è un perdente inquieto, reso cieco dal sentimento e dalla paura della solitudine, più che dalla nebbia langarola. La sua privatissima questione, la sua personale ferita, non gli lasciano scampo.

Il film dei Taviani, invece, lascia dischiuso uno spiraglio di vita. E va bene così.