Dalla letteratura

I nostri smartphone
al servizio della ricerca

Sentirsi utili non è mai stato così semplice. Basta ricordarsi di avviare un’app prima di andare a dormire, mentre lo smartphone è in carica. Al vostro risveglio sarete attraversati da un notevole senso di compiacimento perché, senza fare il minimo sforzo, la schermata del vostro cellulare vi informerà che avete contribuito a completare 45 calcoli per l’Imperial College di Londra, supportando la fase II della sua ricerca “di combinazioni sinergiche di farmaci e molecole alimentari” contro la CoViD-19, o la fase II della Ricerca sul Cancro della Fondazione AIRC all’interno del Progetto Genoma in 3D.

L’app che attualmente rende possibile tutto questo è DreamLab di Fondazione Vodafone1: come tutti i progetti di calcolo distribuito combina l’intelligenza artificiale e la potenza di elaborazione dei dispositivi di calcolo inattivi (sì, il vostro smartphone è un dispositivo di calcolo) per creare una sorta di super computer collettivo in grado di eseguire una quantità di operazioni attualmente eseguibili solo dai più potenti calcolatori esistenti. Chi vuole, quindi, può mettere a disposizione il proprio pc (e, nel caso di DreamLab, anche il proprio smartphone) per portare a termine un determinato compito per cui è richiesta una grande potenza computazionale.




Il più famoso progetto di calcolo distribuito in passato è stato sicuramente Seti@home2, per la ricerca di segnali-radio extraterrestri, sospeso quasi un anno fa «per l’impossibilità, da parte dei ricercatori, di gestire la fase di analisi dei dati generati dal calcolo distribuito». Ed è proprio dai ricercatori dello Space Sciences Laboratory della University of California Berkeley da cui era nato Seti@home che ha preso vita la più famosa piattaforma per il calcolo distribuito esistente: BOINC, ovvero Berkeley Open Infrastructure for Network Computing3 (per scoprire tutti i progetti attualmente in corso a cui è possibile “prestare” le risorse del vostro pc potete consultare il link della voce BOINC su Wikipedia)4.

Nel campo della medicina computazionale, i progetti più partecipati sono sicuramente Rosetta@home5 e Folding@home6 dell’Università di Stanford sulla struttura tridimensionale e il ripiegamento delle proteine. Con la chiamata alle armi successiva alla pandemia da CoViD-19 Folding@home ad aprile dello scorso anno annunciava dal suo account Twitter di aver superato la potenza computazionale di 2,4 exaFLOPS potenziali7. I Flops (FLoating point Operations Per Second) sono il numero di operazioni in virgola mobile (sistema che permette di rappresentare in maniera compatta numeri molto grandi, o molto piccoli, positivi o negativi) eseguite in un secondo dal processore di un computer. Un petaFLOP equivale a un milione di miliardi di operazioni. Un exaFLOP equivale a un miliardo di miliardi di operazioni. Quello che è considerato il supercomputer più potente del mondo, Fugaku esegue 415,5 petaFLOPS flops al secondo, ovvero 415,5 milioni di miliardi di operazioni al secondo.

«La collaborazione tra Fondazione Vodafone e Fondazione AIRC, attraverso la app DreamLab, sta supportando il progetto di ricerca “Genoma in 3D”, condotto con il sostegno di AIRC presso IFOM, l’Istituto FIRC di Oncologia Molecolare», ci spiega Francesco Ferrari, ricercatore AIRC responsabile del laboratorio di genomica computazionale di IFOM. «Grazie alla partecipazione di 115.000 dreamers, è stato possibile effettuare 70 milioni di calcoli e terminare all’inizio di ottobre la Fase 1 del progetto. Da qualche settimana è iniziata la Fase 2, per cui saranno necessari 134 milioni di calcoli. Questa aumentata potenza di calcolo viene utilizzata per analizzare e caratterizzare in modo accurato la struttura tridimensionale del DNA delle cellule tumorali e, in particolare, delle sue regioni “non codificanti”, con l’obiettivo di comprendere meglio il loro funzionamento e come loro eventuali mutazioni influiscono sull’insorgenza e la progressione del cancro».

La medicina computazionale è alla base anche della ricerca dell’Imperial College di Londra, sempre supportata da DreamLab sulla CoViD-19. I coronavirus, come tutti i virus parassiti, hanno bisogno dei loro ospiti per sopravvivere e replicarsi. Gli serviamo vivi perché gli servono i nostri processi cellulari, che vengono sfruttati attraverso complesse interazioni tra le proteine del virus e quelle dell’ospite, chiamate “interattomi”. I farmaci antivirali esistenti sono in grado di bloccare solo una via di questo complesso interattoma, lasciando al virus la possibilità di mutare, aggirare il blocco e replicarsi ancora. Il farmaco ideale dovrebbe essere quindi capace di bloccare più parti della complessa rete interattiva. Da qui l’utilità di mappare il modo in cui combinazioni di molecole interagiscono con l’interattoma Sars-Cov2/uomo. Ma farlo in laboratorio sarebbe impossibile, e proprio per questo entrano in gioco l’intelligenza artificiale e la capacità computazionale dei computer (e dei nostri smartphone). Tra farmaci esistenti e molecole antivirali contenute negli alimenti, DreamLab permette di analizzare miliardi di combinazioni e interazioni genetiche, riducendo sostanzialmente il tempo necessario per scoprire terapie multi-farmaco e diete di supporto che possano aiutare i pazienti CoViD-19.

Nel 2014 il dizionario Oxford English inserì tra la liste delle nuove parole quella di citizen science dandogli questa definizione: «la raccolta e l’analisi di dati relativi al mondo naturale da parte di un pubblico, che prende parte a un progetto di collaborazione con scienziati professionisti».




Si può parlare di citizen science anche nel caso di DreamLab e del Progetto Genoma in 3D, ma quanto è diffusa la conoscenza del calcolo distribuito nella popolazione generale in Italia? «Non abbiamo a disposizione dati generali risultanti da un’indagine sistematica», ci risponde Francesco Ferrari. «Tuttavia nella nostra esperienza abbiamo riscontrato interesse verso questo tema sia in categorie con una formazione specifica scolastica o lavorativa (ad esempio ingegneri, informatici e studenti di queste discipline o insegnanti di scuole medie e superiori), sia in persone appassionate di tecnologia, che spesso hanno seguito le prime esperienze di calcolo distribuito e citizen science che hanno avuto una certa popolarità alla fine degli anni ’90, inizio 2000. La citizen science è parte integrante dell’identità di AIRC sin dalla sua fondazione, nel 1965, quando un gruppo di scienziati e cittadini decise di dare vita in Italia alla prima associazione non-profit per il finanziamento della ricerca oncologica, con l’obiettivo di creare una rete di supporto per l’avanzamento delle conoscenze e delle cure per tutti i tipi di tumore. Grazie alla fiducia di 4,5 milioni di sostenitori, all’impegno di 20.000 volontari e al lavoro di oltre 5000 ricercatori, oggi AIRC è il principale sostenitore della ricerca indipendente sul cancro nel nostro Paese, a cui ha destinato oltre 1 miliardo e 500 milioni di euro in 55 anni di attività. DreamLab rappresenta un’evoluzione digitale e tecnologica di questo approccio, perché consente a centinaia di migliaia di persone di sostenere concretamente il lavoro dei ricercatori mettendo a disposizione la potenza di calcolo dei propri smartphone. Insieme a Fondazione Vodafone prevediamo di proseguire questa collaborazione anche in futuro».

Benedetta Ferrucci

Bibliografia

1. DreamLab. Fondazione Vodafone (https://bit.ly/3mKeWBw).

2. Seti@home (https://bit.ly/39OLp6i).

3. Berkeley Open Infrastructure for Network Computing (https://boinc.berkeley.edu/).

4. BOINC. Wikipedia (https://bit.ly/37CH5Es).

5. Rosetta@home (https://bit.ly/36Px7jy).

6. Folding@home (https://bit.ly/3ginOvF).

7. Twitter (https://bit.ly/37EVDn1).

Nuova luce dalla Exceptional Responders Initiative

Nella pratica clinica capita talvolta di imbattersi in quelle che vengono definite “risposte eccezionali” alla terapia. Si tratta, di solito, di pazienti con neoplasie avanzate che normalmente hanno tassi di risposte e durata mediana di risposte bassi che, al contrario, mostrano delle risposte complete di lunga durata.

Studiare le caratteristiche di tali pazienti potrebbe aiutarci nel comprendere più nel dettaglio quali sono i meccanismi molecolari che sottendono questo fenomeno e raggiungere in futuro un grado di precisione maggiore nei trattamenti oncologici. Questo è infatti lo scopo prefissato dall’NCI’s Exceptional Responders Initiative, un progetto avviato nel 2014 dai National Institutes of Health (NCI) per esplorare la fattibilità della raccolta e l’analisi dei dati e dei campioni biologici necessari per comprendere meglio le basi biologiche delle risposte eccezionali nel cancro. I risultati di tale programma sono stati recentemente pubblicati sulla rivista Cancer Cell1.

In totale sono state raccolte nel dettaglio le storie cliniche e i campioni tumorali di 110 pazienti con vari tipi di neoplasie ed eccezionali risposte al trattamento. Per tutti i casi è stata effettuata un’analisi dettagliata con approcci genomici multipli, inclusa l’analisi delle mutazioni del DNA, i livelli di espressione dell’RNA, le alterazioni del numero di copie del DNA e la metilazione del DNA, nonché l’analisi delle cellule immunitarie nel microambiente tumorale. Per 26 dei 111 pazienti (23,4%), i ricercatori sono stati in grado di identificare caratteristiche molecolari che potrebbero potenzialmente spiegare le risposte eccezionali al trattamento. I meccanismi d’azione proposti riguardano i meccanismi di riparazione del DNA, il signaling e la risposta del sistema immunitario al tumore. Infatti la risposta a un trattamento dipende in genere da una combinazione tra le caratteristiche del tumore, i polimorfismi germline e il microambiente tumorale. Risposte eccezionali di solito sono guidati da due categorie di eventi genetici: l’oncogene addiction e la synthetic lethality.

Nell’oncogene addiction una mutazione genica nella cellula tumorale rende la cellula eccezionalmente dipendente da una specifica proteina e, di conseguenza, molto sensibile a inibitori specifici in grado di inibire la proteina o la pathway a valle di essa. La synthetic lethality descrive invece la situazione in cui rare combinazioni di alterazioni genomiche provocano la morte di cellule tumorali durante il trattamento. Di solito infatti le funzioni cruciali di una cellula, come la proliferazione e la sopravvivenza, sono regolate da una serie di circuiti ridondanti. Se una neoplasia ha, per esempio, un’alterazione genica che blocca una delle due pathway parallele che regolano la sopravvivenza cellulare, un farmaco che blocca la pathway alternativa sarà eccezionalmente efficace. Il concetto alla base della synthetic lethality è che la cellula tumorale non ha un sistema totalmente anarchico e deve mantenere funzionanti alcuni meccanismi basilari per garantire la propria sopravvivenza. Individuare per ogni neoplasia quali sono i meccanismi essenziali per la sua sopravvivenza e andarli a colpire potrebbe essere la chiave di volta per curare il cancro.




Lo studio inoltre aggiunge ulteriori prove sulla capacità del sistema immunitario di aiutare a debellare i tumori. In alcuni pazienti dello studio, infatti, l’aumento dei livelli di linfociti B e di espressione del signaling pro-infiammatorio è stato associato a risposte eccezionali. Infine è importante sottolineare come per la maggior parte dei pazienti sono stati necessari più approcci genomici per caratterizzare i campioni di tumore. Concentrarsi solo sulle mutazioni del DNA non avrebbe fornito infatti gli indizi necessari ai ricercatori per sviluppare ipotesi sulle basi biologiche delle risposte. Naturalmente le ipotesi sviluppate durante questa analisi preliminare dovranno essere confermate da studi più ampi, ma se confermati, i risultati potrebbero fornire indizi per sviluppare nuovi trattamenti in grado di sfruttare in maniera intelligente le vulnerabilità delle cellule tumorali.

Marco Filetti

Bibliografia

1. Wheeler DA, Takebe N, Hinoue T, et al. Molecular features of cancers exhibiting exceptional responses to treatment. Cancer Cell 2020 Nov 16: S1535-6108(20)30546-8.

L’impatto di CoViD-19
sul lavoro delle donne

Partiamo da un dato, tra le conseguenze dei lockdown ai quali ci ha costretto la pandemia mettiamo in conto una recessione economica. CoViD-19 avrà un effetto sbilanciato su diversi tipi di lavoratori; inutile dirlo a pagare il prezzo più alto con buona probabilità saranno le donne. Non solo perché più esposte alla malattia, o perché più impiegate in lavori a rischio, perché maggiormente coinvolte anche nelle attività di cura, ma anche perché più interessate dalle conseguenze indirette del lockdown: una maggior esposizione a violenza e stress, un maggiore carico di lavoro a supporto dei figli, un maggiore rischio di perdere o lasciare il lavoro…

Il seminario SDA Insight Live – Gender effect of Covid-19, organizzato dalla SDA Bocconi, moderato da Francesco Daveri, docente di macroeconomia e direttore del Full-Time MBA presso SDA Bocconi School of Management, dà voce ad Alessandra Casarico, professore associato di Scienza delle finanze all’Università Bocconi ed esperta in Economia di genere, per definire una sorta di baseline sul divario di genere e profilare a partire da quel punto l’impatto di CoViD-19 sul lavoro delle donne.

Definiamo una baseline. Un modo possibile per provare a quantificare il divario di genere prima di CoViD-19 è guardare alle disparità presenti in diverse dimensioni che vanno dal mercato del lavoro alla politica, passando per la salute, fino ad arrivare ai livelli di istruzione.

Stando ai dati del World Economic Forum del 20201, che riguardano ben 150 Paesi nel mondo, vediamo che le differenze di genere esistono e sono piuttosto diffuse. «Non ci sono grandi differenze di genere quando guardiamo ai livelli di istruzione e alla salute, ma i gender gap nel mercato del lavoro e in politica sono piuttosto significativi», continua Casarico, commentando i dati. «Se guardiamo al mercato del lavoro ciò che vediamo è che le donne hanno il 58 per cento delle opportunità lavorative al confronto con quella a disposizione per gli uomini».

Se ci spostiamo a guardare i tassi di occupazione in Europa, secondo Eurostat 20202, nella fascia di età dai 15 ai 64 anni è il Sud del continente a presentare il maggiore divario di genere per tasso di occupazione. Tra i Paesi che hanno un minore tasso di occupazione femminile troviamo l’Italia al secondo posto, con solo una donne su due che lavora, subito dopo la Grecia.

In particolare, dati sul tasso di occupazione delle donne più giovani (30-34 anni) non sono così confortanti, a togliere ogni dubbio che potesse trattarsi del risultato di un retaggio culturale del passato. «A dire il vero, in tempi recenti, la posizione dell’Italia è addirittura peggiorata e il divario di genere si è allargato se ci si focalizza su lavoratori più giovani», sottolinea l’economista. «Non si tratta solo di aspettare che il tempo passi e gli atteggiamenti cambino». Sono i Paesi scandinavi e più in generale i Paesi del Nord Europa quelli in cui i tassi di occupazione femminile sono più alti.

Il tasso di occupazione è solo una delle possibili dimensioni capaci di restituire le performance femminili nel mercato del lavoro. Un’altra dimensione da osservare è quella dei salari. «Se andiamo a guardare quanto donne e uomini sono pagati, emerge che non c’è solo un divario nel tasso di occupazione, ma anche un divario retributivo di genere». Più subdolo, apparentemente meno pesante, ma solo perché le donne partecipano meno al mondo del lavoro. C’è poi il confronto tra uomini e donne nelle posizioni gerarchiche. Per sintetizzare il dato: «Se guardiamo al 10 per cento delle posizioni al top, solo il 20 per cento di queste è occupato da donne: a fronte di otto uomini al comando ci sono due donne nella stessa posizione. E siamo fin qui nel contesto del lavoro retribuito». Quando ci spostiamo a guardare le evidenze che arrivano dal lavoro non pagato, ovvero il tempo dedicato alla cura della casa, dei bambini, ecc., si vede un’asimmetria tra uomini e donne: «gli uomini sono più impegnati nel lavoro retribuito, le donne sono più coinvolte nel lavoro non retribuito».

La cura in senso più ampio e spesso non retribuito è una sfera di attività ad appannaggio delle donne. «Sono le donne che svolgono i servizi essenziali, che si prendono cura della quotidianità dell’assistenza e della convivenza di uomini e donne, che hanno lavorato duro in questi mesi, quindi sono state più esposte al contagio. Insomma la cura è patrimonio prezioso di quella storia delle donne, che va riscritta, anche a partire dalla pandemia da CoViD-19», sottolinea Donatella Albini, ginecologa e consigliera comunale a Brescia, su Salute Internazionale4.

Va da sé che questo è un aspetto essenziale per comprendere e arginare l’impatto di CoViD-19 sulle disuguaglianze di genere: le donne sono più vulnerabili agli effetti economici CoViD-19 correlati a causa delle disparità di genere esistenti.

Anche la caratterizzazione dal punto di vista qualitativo delle recessioni economiche è un altro elemento per ragionare sull’impatto di CoViD-19 sulle disparità di genere e sul lavoro delle donne. La recessione che stiamo vivendo a seguito della pandemia, a differenza di quella del 2008 che aveva avuto un impatto soprattutto sull’industria, sta avendo conseguenze in particolare sul settore dei servizi. I dati ci dicono che tra le attività essenziali (non soggette al lockdown) rientrano alcuni settori dove è predominante la presenza femminile. Per esempio, la sanità o il lavoro domestico: fatto 100 il numero di donne che lavorano, 2/3 sono coinvolte in attività al momento definite essenziali4. Le donne che continuano a lavorare durante il lockdown svolgono mestieri che le espongono di più al rischio.




Arricchisce questa riflessione il punto di vista di Paola Michelozzi, del Dipartimento di epidemiologia, Servizio Sanitario Regionale del Lazio, Asl Roma 1: «Se analizziamo cosa è accaduto durante l’epidemia di Covid-19 possiamo osservare differenze di genere sotto un triplice aspetto: quello legato alle dinamiche della malattia, quello assistenziale e quello decisionale»5.

Se da un lato i dati osservazionali e clinici mostrano in Italia differenze di genere anche negli effetti del virus SARS-CoV-2, con un tasso di mortalità e una percentuale di letalità maggiori negli uomini6, dall’altro, sia in Italia sia in altri Paesi l’incidenza di contagi è maggiore tra le operatrici sanitarie. Si tratta di dati che rispecchiano l’ampia presenza di donne nell’assistenza sanitaria: le donne rappresentano quasi il 70 per cento degli operatori sanitari a livello globale e l’80 per cento degli infermieri nella maggior parte delle regioni, ruoli in cui hanno contatti particolarmente stretti e prolungati con i pazienti malati. Ma non solo l’83 per cento degli operatori delle Rsa è donna; il 70 per cento di chi si occupa di servizi come lavanderia, pulizia catering è donna7.

Inoltre, gli effetti del lockdown per le donne durano di più. Le scuole hanno chiuso, senza mai riaprire, le donne restano a casa di più durante la fase due. L’equazione è semplice e vede come risultato un aumento dell’asimmetria già esistente nella suddivisione delle incombenze domestiche. Le donne stanno già pagando un prezzo maggiore e sono bastati pochi mesi di lockdown per fare un balzo indietro di 50 anni e rafforzare una suddivisione dei ruoli all’interno della famiglia di stampo patriarcale.

Non possiamo dimenticare i diritti violati anche in minoranze per le quali il divario di genere è ancora più ampio. «Sono le donne migranti spaventate, perse in contesti culturali e sociali in cui semplicemente non esistono, perché immerse in un patriarcato oscuro e violento, senza tutela», ricorda la Albino. «Ma anche le nostre vicine, conterranee, concittadine, anch’esse sole troppo sole in casa, isolate con chi le disprezza, le umilia, le picchia, le uccide: l’Oms parla di un aumento delle violenze domestiche del 60 per cento durante il periodo del distanziamento sociale, distanziamento dalla rete contro la violenza, dalla rete della solidarietà, ma nei Dpcm governativi e nelle Dgr regionali nulla su questo dolore». L’emergenza ha disvelato tutto il nostro essere impreparati e indifferenti di fronte ai sintomi e alle cause di una diffusa malattia sociale, che riguarda il ruolo delle donne, ma anche le condizioni delle minoranze, il modo in cui abbiamo ridotto la Sanità e la Scuola, per fare alcuni esempi.

Infine, c’è un divario nella narrazione. A fronte di moltissime le donne impegnate in prima linea, sono davvero poche quelle che hanno raccontato la pandemia, come sottolinea Michelozzi: «Gli esperti donna hanno avuto pochissima visibilità e a parte pochissime eccezioni, il punto di vista riportato dai media è stato solo quello maschile».

Per uscire dalla pandemia servirebbero diversi ingredienti dal rigore della scienza all’intelligenza della medicina, fino alla cura della politica. «Serve uno spazio per disegnare un’utopia, allargando i diritti, espandendosi solo così ci salveremo tutte e tutti», è l’auspicio della Albini.

Ma questa è un’utopia che rischia di restare tale se chi prende le decisioni continua a essere di sesso maschile. «In un recente report delle Nazioni Unite, Anita Bhatia, UN women deputy executive director, ha dichiarato che “mentre molte voci hanno sottolineato l’impatto della pandemia sulle donne, questa preoccupazione non sembra essere stata presa in considerazione nelle decisioni che stanno assumendo prevalentemente gli uomini”8. Dal report infatti emerge che, nel mondo, le donne impegnate in prima linea nell’assistenza ai malati di Covid-19 sono il 67 per cento, mentre rappresentano solo il 25 per cento dei parlamentari e il 10 per cento dei capi di stato o di governo», scrive Marina Davoli, Direttrice Dipartimento di epidemiologia, Servizio sanitario regionale del Lazio, Asl Roma 15.

Norina Di Blasio

Bibliografia

1. World Economic Forum. Global Gender Gap Report 2020. Disponibile su: https://bit.ly/3qxJ2dR [ultimo accesso 4 dicembre 2020].

2. Eurostat 2020 (https://bit.ly/3giX4eP).

3. Albini D. Covid-19: che genere di pandemia. Salute Internazionale 2020; 15 luglio.

4. Casarico A, Lattanzio S. La demografia del lockdown. lavoce.info 2020; 7 aprile.

5. Michelozzi P, Davoli M, Camposeragna A, Lapucci E, Pasqualini F. Donne a distanza. Recenti Prog Med 2020; Suppl Forward 18; S40-S41.

6. ISTAT. Impatto dell’epidemia covid-19 sulla mortalità totale della popolazione residente periodo gennaio-maggio 2020. Istituto Superiore di Sanità, luglio 2020. Disponibile su: https://bit.ly/33P0XTC [ultimo accesso 4 dicembre 2020].

7. BMJ GH Blogs. Sex, gender and COVID-19: disaggregated data and health disparities. Blog BMJ Global Health 2020; March 24.

8. Bhatia A. Women and COVID-19: fi ve things governments can do now. UN Women 2020; March 26. Disponibile su: https://bit.ly/3lME6hK [ultimo accesso 4 dicembre 2020].

Ebola: il racconto dei medici tornati dal Congo

«È ora che il mondo prenda atto e raddoppi l’impegno. Dobbiamo lavorare insieme in solidarietà con la Repubblica Democratica del Congo per porre fine a questo focolaio e costruire un sistema sanitario migliore»1. Con queste parole, lo scorso 17 luglio, Tedros Adhanom Ghebreyesus, direttore generale dell’Organizzazione Mondiale della Sanità (OMS), ha dichiarato emergenza internazionale l’epidemia di Ebola scoppiata a maggio 2018 in Repubblica Democratica del Congo che, dal suo inizio nell’agosto 2018 a oggi, ha colpito quasi 2500 persone, di cui 1665 sono morte.

La situazione era stata giudicata particolarmente allarmante già nei giorni precedenti dopo il primo contagio avvenuto a Goma, grande città nell’Est del Congo. Anche l’Unicef ha lanciato l’allarme dopo che 750 bambini, la maggior parte dei quali sotto i cinque anni, sono stati colpiti dal virus.

Si tratta dell’epidemia peggiore mai registrata nel Paese, la seconda peggiore nella storia della malattia e la prima in un’area di conflitto. «Si vive una situazione di tensione per ragioni anche anteriori ed esterne all’epidemia di Ebola, e che però complicano la risposta. C’è un rischio oggettivo a causa degli attacchi armati, della guerriglia, che comportano una serie di limitazioni al nostro intervento», ci racconta Chiara Montaldo, coordinatrice medica per la risposta a Ebola per Medici Senza Frontiere (MSF) in Nord Kivu e parte dello staff dell’Istituto Nazionale Malattie Infettive “Lazzaro Spallanzani” di Roma2.




Aggressività, sfiducia e violenza che con l’evolvere dell’epidemia sono state dirette anche contro gli stessi operatori sanitari. La sera del 24 e del 27 febbraio sono stati attaccati e dati alle fiamme i centri di trattamento Ebola di MSF a Katwa e Butembo, in Nord Kivu, epicentro dell’epidemia. Qui, negli ultimi sette mesi, sono stati registrati 879 casi confermati e 553 persone sono morte.

«Con Ebola», continua la dottoressa Montaldo, «ho avuto un’esperienza personale importante perché ho lavorato nell’epidemia del West Africa e nell’attuale epidemia in Congo e mi sembra di aver lavorato in due epidemie diverse. Tra i tanti fattori di diversità forse quello principale è stato proprio la paura che ho avuto mille volte di più adesso che in Guinea nel 2014. E questo non è legato ovviamente alla malattia che è la stessa, ma al contesto. Nel 2014, certo, quando entravi nel centro ci entravi con tutte le preoccupazioni, un minimo di paura c’era ma neanche tanta perché noi sappiamo come prevenire e come gestire la nostra preoccupazione per la malattia. Quello che fa la differenza nell’attuale epidemia è proprio il contesto di guerra. Io l’unica volta nella mia professione che ho avuto paura è stato lì, perché eravamo nel centro la notte che è stato bruciato, con i pazienti dentro, quindi con tutte le difficoltà di evacuare pazienti Ebola».

MSF ha dovuto interrompere immediatamente ogni attività medica nelle province colpite, ma continua a gestire attività legate all’epidemia di Ebola anche a Kayna e Lubéru, in Nord Kivu, e in due centri di isolamento a Bwanasura e Bunia, in provincia di Ituri. La decisione di sospendere le attività non è stata dettata dalla paura, ma dal non voler accettare una protezione armata. Avere dei centri sanitari protetti da gruppi armati, infatti, è controproducente dal momento che allontana le persone dai centri creando ancora di più sfiducia e una scarsa comprensione della malattia.

«In questi momenti emerge anche la paura di aver sbagliato qualcosa come mondo scientifico perché in questa epidemia paradossalmente abbiamo più armi: abbiamo il vaccino, abbiamo dei farmaci anche se sperimentali, la gestione dei pazienti è migliorata enormemente. Eppure questo non corrisponde a una migliore gestione dell’epidemia. La gente muore, non viene da noi, addirittura ci brucia un centro di trattamento. Ci vorrebbe è un approccio che coinvolga la popolazione nella risposta stessa e non che imponga qualcosa che non viene capito», afferma Montaldo.

Questa situazione, però, ha tirato fuori anche molto coraggio. Dai pazienti guariti che, nonostante abbiano subito tanto da un punto di vista fisico e psicologico per la malattia, hanno accettato di lavorare nei centri di trattamento, fino allo staff medico congolese.

«Durante il secondo attacco al nostro centro di Butembo», ricorda il medico, «sono entrate diverse persone armate. Tutto lo staff aveva paura, ma soprattutto noi bianchi perché giravano voci che l’aggressività fosse diretta proprio a noi. Allora i medici locali hanno circondato tutto il personale bianco, come a proteggerlo».

Mariana Cortesi, infermiera di MSF, invece, ricorda particolarmente il coraggio di Augustine, una bimba di 4 anni sopravvissuta a Ebola: «La cosa che mi ha stupito è stato il suo sguardo incuriosito che ci guardava e cercava di analizzare i nostri movimenti. È stata molto coraggiosa perché durante le settimane di degenza ha visto morire la metà dei pazienti che erano nel centro, compresi il papà e il fratello, ma ci faceva un sorriso e cercava di rimanere forte. E quando è uscita dal centro i suoi occhi sono stati veramente la nostra forza»2.

Non tutti i bambini sono sopravvissuti e l’infermiera ha dovuto fare i conti anche con questo. Se a volte capitava di trarre la forza da uno sguardo, altre capitava di vederci la paura. «Non riesco a dimenticarmi un bambino arrivato nel centro in condizioni molto critiche. Ho visto la sua paura di morire e mi sono sentita veramente impotente. Questa paura, io sì, l’ho vista negli occhi di molti pazienti. Sono occhi che ti guardano e sanno che è una malattia terribile e non possono fare altro che affidarsi completamente a sconosciuti con delle tutone gialle di protezione dove il contatto non è un contatto normale. E allo stesso tempo ho provato la stessa paura loro ma per loro, perché puoi fare di tutto ma a volte si perdono anche 6 pazienti in un giorno».

Quando ci sono stati gli attacchi nei centri di Katwa e Butembo, Mariana Cortesi non era lì. Quando lo ha saputo è stata invasa da una grande tristezza, ma poi è prevalso il coraggio. «Prima di partire ero terrorizzata perché Ebola l’avevo solo studiata nel mio corso di perfezionamento di medicina tropicale. Il primo giorno, quando entri e cerchi di mettere la tuta, hai paura perché basta un movimento sbagliato, basta che il guanto si sposti durante la svestizione, e rischi la contaminazione. Ma tra due settimane ritorno in Repubblica Democratica del Congo per Ebola perché non posso accettare di non fare nulla, non posso accettare di stare con le mani in mano».

Rebecca De Fiore

Bibliografia

1. Ghebreyesus TA. IHR Emergency Committee on EVD DRC North Kivu. WHO 2019; 17 July. Disponibile su: https://bit.ly/3ovbfQM [ultimo accesso 4 dicembre 2020].

2. Montaldo C, Capelli B, Cortesi M. Il coraggio di affrontare le difficoltà. Recenti Prog Med 2019; Suppl Forward 15; S9-S10.