In questo numero

«Presentando la Commissione Lancet sul valore della morte in un recente incontro alla Royal Society of Medicine, ho detto allegramente che nessuno sembrava non essere d’accordo con il nostro punto di partenza: abbiamo un rapporto malsano con la morte e il morire»1. Una nota di Richard Smith sul BMJ torna su un argomento che meriterebbe di essere discusso più spesso. La cronaca di Smith prosegue: «Anjana Ahuja, una giornalista che ha scritto in modo brillante sui ricchi che cercano ad ogni costo di allungare la durata della vita, ha detto che la scienza sarà in grado di estendere la vita per alcuni e che è giusto che lo faccia. La ricerca medica, ha chiesto, non ha lo stesso scopo anche se non è esplicito? (Ha citato il filosofo Ingemar Patrick Linden scrivendo che “morire è una delle cose peggiori che possano capitare. La morte è una cosa orribile e niente è più importante che impedire alle persone buone di morire. Sono un abolizionista della morte e un prolungatore della vita”)».

Il fatto è – osserva l’ex direttore del BMJ – che la maggiore durata della vita non è stata accompagnata dall’estensione della vita sana. Piuttosto, come mostra il rapporto della Lancet Commission, il tempo in cui si finisce col vivere male alla fine della vita è aumentato. L’idea della “compressione della morbilità” – per cui la durata della vita non sarebbe aumentata molto oltre gli 85 anni e il periodo di cattiva salute alla fine della vita si sarebbe progressivamente abbreviato – era stata annunciata negli anni Ottanta ma purtroppo non si è realizzata. Anzi. La sintesi dello studio di Samuel e degli altri ricercatori della Queen’s university in Canada uscito su JAMA Oncology (vedi pag. 295) mostra quanto sia difficile accettare (e successivamente comunicare) che buona parte dei nuovi farmaci oncologici non solo non aumenti la sopravvivenza ma non giovi (o peggiori) anche alla qualità di vita del malato. «Sapere quando fermarsi nel prescrivere medicinali» è una cosa difficile da comprendere e anche da insegnare (vedi pag. 292): è diventato un tema tra quelli più sostenuti dall’Istituto superiore di sanità e dall’Agenzia italiana del farmaco, ma forse proprio per l’insistenza istituzionale molti medici finiscono col ritenerla una questione di politica sanitaria utile al contenimento della spesa e non un’urgenza clinico-assistenziale nell’interesse del paziente.

Infine: alcuni passaggi della scheda sulla conclusione della pandemia (vedi pag. 336) hanno meritato un’attenzione particolare, un’attenta riscrittura per evitare di urtare qualche suscettibilità spiegando – come fanno molti ricercatori anglosassoni in questi mesi – che la pandemia potrà dirsi conclusa quando le persone più vulnerabili saranno decedute e i sopravvissuti avranno sviluppato un’immunità sufficientemente protettiva. Ha ragione Smith: abbiamo un rapporto malsano con la morte e il morire.




Bibliografia

1. Smith R. Pushing back on the arguments of the Lancet Commission on the Value of Death. BMJ 2022; 376: o782.