Fantachirurgia
«E dirsi così con un sonno
che noi mettiamo fine
al crepacuore ed alle mille ingiurie
naturali, retaggio della carne!».
Shakespeare: Amleto, III, 1
I lanci pubblicitari di Awake, film di quasi un’ora e mezza diretto da Joby Harold e da poco giunto nelle sale italiane, lo definiscono “thriller psicologico”; imperniato su una situazione – a loro parere – non infrequente: quella di una anestesia cosciente, l’evenienza per cui un malcapitato paziente sul tavolo operatorio, nonostante l’analgesico, resta sveglio durante l’intervento, con conseguenze non particolarmente gradevoli. A tale enfasi pubblicitaria sarebbe da consigliare una maggiore prudenza: il fenomeno può, infatti, verificarsi – e si verifica – ma è assai raro; su ventidue milioni di malati che in un anno, negli USA, si sottopongono ad anestesia, a trentamila accade di non beneficiare dei suoi effetti. Trentamila non sono pochi; pur tuttavia, si tratta dello 0,14%.
Il film ce ne presenta un caso: mentre il malato aspetta un cuore di ricambio, avverte tutto quello che gli si agita intorno, soffre tutto quel che non avrebbe dovuto e, in più, non può farci niente, perché le sue reazioni risultano paralizzate (allo spettatore, peraltro, non viene chiarito il perché).



Se il film fosse un buon film, persino queste esagerazioni potrebbero essergli perdonate, ma il guaio è che il film non è buono. Esso ci racconta di un ricco giovanotto, Clay Beresford, che, per un trapianto di cuore, cade nelle mani – è proprio il caso di dirlo – di una équipe chirurgica corrotta che più corrotta non si può, interessata al suo patrimonio post-mortem: il movente non è detto (l’équipe si è, forse, venduta per rifarsi di un risarcimento da danno professionale?). Architetto del diabolico piano è, comunque, Sam, la seconda moglie di Clay, che apprendiamo essere stata, in precedenza, un’infermiera collega della gang. Il complotto è dunque posto in atto, ma, nel momento finale, “arrivano i nostri”. Il piano viene sventato, perché un altro chirurgo, amico della madre di Clay, sospetta l’intrigo, irrompe appena in tempo in ospedale insieme al proprio team, trova la povera donna suicida (perché, dolosamente ingannata sull’esito dell’intervento, ella non ha voluto sopravvivere al figlio), in men che non si dica le preleva il cuore e lo trapianta in quello di Clay (al quale l’happy end garantisce, invece, una invidiabile capacità vitale!)
Anche se inverosimile al limite del ridicolo, una storia può essere accettabile, a patto che fili bene. E, qui, invece, la storia fila tutt’altro che bene.
Si comincia con una scena di sesso tra Sam e Clay nella vasca da bagno, scena nella quale il giovane si gode a lungo, nell’amplesso, una acrobatica posizione di partner subacqueo, posizione assai improbabile per un cuore scompensato: e lo spettatore dovrebbe crederci? Così come dovrebbe prender per buona la sequenza-clou del dramma, quella in cui la “amabile” mogliettina passeggia e si agita indisturbata in sala operatoria per decidere all’omicidio il suo complice chirurgo, colto da alquanto tardiva resipiscenza! Infine, approssimativa e artificiale risulta la scenografia fondamentale: proprio la sala chirurgica, che pur rappresenta – o, meglio, dovrebbe rappresentare – il luogo focale della tragedia: vediamo l’operatore, l’assistente, un infermiere; e gli altri dove sono finiti? Ultima “perla” è la comunicazione dell’ exitus (invece, come si è detto, scongiurato) alla madre del malato: la notizia è data con poche parole, in piedi, in una comune sala d’attesa. Troppe improbabilità.
A questo punto, un sospetto potrebbe funzionare da salvagente (o almeno da attenuante) per il regista e suoi collaboratori: che essi abbiano inteso realizzare un film di fantascienza. L’anestesia, e lo scenario tutto, sarebbero – in tal caso – non più che un pretesto: Clay deve essere cosciente sul tavolo operatorio, in quanto la sceneggiatura vuol farci assistere alla progressiva consapevolezza del complotto per mezzo di un flash-back soggettivo: lo vediamo, infatti, urlare di dolore, scrutare angosciosamente i monitor, scorgiamo le sue lagrime, leggiamo i suoi pensieri e i suoi ricordi, ma poi lo vediamo entrare ed uscire dalla sala, andare su e giù tra passato e presente, mettendo a fuoco, tassello per tassello, il tradimento a suo danno.
Infine, il salvatore gli trapianta il cuore materno: il buon Clay sembra salvo. Non ancora: asistolia. Defibrillatore (immediato, nemmeno un tentativo di massaggio cardiaco). L’asistolia perdura. Non per un deficit organico, bensì perché lo spirito (?) di Clay – un’entità non meglio identificata, sospesa tra la vita e la morte [ecco di nuovo la fantascienza] – desidera ricongiungersi a quello della madre (lei, unica vittima, nel frattempo, è arrivata nell’al di là). Donde il conflitto drammatico tra due “spiriti”: uno già dall’altra parte, il secondo sulla soglia. Ma ancora una volta, l’happy end deve risultare vincitore: la mamma convince il figlio, il defibrillatore riparte e Clay se la cava per il rotto della cuffia. Chi se la cava meno bene è, però, lo spettatore il quale resta con un inquietante interrogativo: perché al povero Clay e ad altri 29.999 sfortunati l’anestesia non fa effetto?

Cecilia Bruno