Vincenzo Ziparo: un moderno uomo di altri tempi

Emilio di Giulio1

1IDI - Istituto Dermopatico dell’Immacolata, Roma.




Il professor Vincenzo Ziparo ha fatto parte di una generazione che ha vissuto numerose e improvvise innovazioni tecnologiche e grandi cambiamenti culturali, organizzativi e relazionali in ambito sanitario; trasformazioni che ha saputo gestire con successo, passione ed equilibrio.

Chirurghi come lui, formatosi all’autorevole e storica scuola chirurgica di Pietro Valdoni, Paolo Biocca e Sergio Stipa, ha dovuto misurarsi con l’introduzione di nuove tecniche chirurgiche, meno invasive, e con tecniche alternative non chirurgiche. Ma i grandi cambiamenti di questi anni hanno comportato anche un nuovo assetto dell’organizzazione sanitaria – che ha attribuito al medico responsabilità amministrative ed economiche –, una nuova cultura medica – che ha imposto maggiore aderenza alle evidenze della letteratura scientifica – e una più attiva partecipazione del paziente al proprio percorso di salute. Con questa indubbia “rivoluzione” tecnica e culturale Vincenzo si è confrontato con entusiasmo, convinzione, serenità, fiducia e umanità.

Ho incontrato per la prima volta Vincenzo sul finire degli anni ’70 quando rientrava dagli Stati Uniti dove aveva trascorso, a seguito della vincita di un concorso bandito dal National Institute of Health, un intenso periodo di ricerca durato tre anni. Presentava in quell’occasione i dati dei suoi studi sull’encefalopatia epatica e sulle sue basi biochimiche, studi condotti insieme a Josef Fischer, pubblicati anche su The Lancet. Mi colpì all’epoca che un chirurgo presentasse, con stile che potremmo definire “anglosassone”, studi e trial clinici, piuttosto che casistiche chirurgiche o accorgimenti personali di tecnica chirurgica, come frequentemente avveniva all’epoca, prefigurando, invece, quello che sarebbe diventato in seguito il “mantra” della “evidence-based medicine”.

Questi suoi interessi sulla fisiopatologia delle complicanze delle malattie epatiche lo misero da subito in contatto con i maggiori esperti di malattie del fegato sia nazionali che internazionali, i quali, tutti, gli espressero sempre grande stima; ricordo in particolare il professor Capocaccia o il professor Pagliaro – epatologo di fama internazionale, ma anche grande esperto di metodologia della ricerca clinica – con i quali la sua collaborazione fu intensa e duratura.

Questi suoi interessi un po’ trasversali, a cavallo tra la chirurgia e la medicina, gli hanno permesso nel tempo di avere una visione sempre aperta, mai partigiana sulle varie competenze specialistiche e professionali. È grazie a questa apertura mentale che l’arrivo di nuove tecniche non chirurgiche endoscopiche (la sclerosi/legature delle varici esofagee, i trattamenti endoscopici delle patologie bilio-pancreatiche, etc) o radiologiche (la TIPSS, i drenaggi, etc) furono sempre accolte da lui tempestivamente con favore e non osteggiate, come talvolta pure avveniva in altri ambienti. E ancora, rientra in questo approccio unitario l’esperienza in collaborazione con il professor Torsoli, gastroenterologo della Sapienza, del corso integrato di malattie dell’apparato digerente, in cui le varie specialità concorrevano nella gestione di un programma di didattica unitaria, secondo le indicazioni di Guilbert dell’Organizzazione Mondiale della Sanità (il sapere, il saper fare, il saper essere).

Negli ultimi venti anni Vincenzo si è dedicato molto alla nascita e alla crescita del nuovo Ospedale Sant’Andrea, sede di una Azienda Sanitaria e dell’Università Sapienza. Lì ha dovuto e saputo gestire con equilibrio, anche da Preside, le diverse esigenze di una facoltà di Medicina e Psicologia, composta appunto sia da medici che da psicologi, con personale sanitario sia universitario che ospedaliero. Tutto questo mai abbandonando la sua attività chirurgica, perseguita sempre con passione, con equilibrio e al massimo livello.

La sua credibilità professionale, la sua conoscenza del mondo sanitario e la sua capacità di trovare soluzioni e mediazioni credo siano state alla base dell’incarico ricevuto in anni recenti dalla Regione Lazio di presiedere una commissione incaricata di prefigurare gli sviluppi della sanità regionale.

Spesso Vincenzo ci comunicava esplicitamente la soddisfazione per aver avuto l’opportunità di fare il medico, in particolare il chirurgo, la branca che più lo appassionava, in un contesto universitario, cosa che gli permetteva di fare attività clinica, didattica e di ricerca, vivendo relazioni umane e professionali intense coi pazienti, con gli studenti e con i colleghi.

La curiosità di Vincenzo lo spingeva spesso fuori dalla sfera strettamente professionale a percorrere letture e studi sugli argomenti più diversi, soprattutto di storia; curiosità questa testimoniata dalle immense raccolte di libri che invadono ancor oggi la sua casa di Roma e, a quanto mi raccontava, anche quella di famiglia in Calabria. Spesso diceva che se non avesse fatto il chirurgo avrebbe fatto lo storico e molto recentemente non a caso aveva partecipato con piacere a un programma televisivo di Rai Storia sulla storia della chirurgia.

Tutti i ricordi di una persona si basano sempre su passaggi molto personali e soggettivi di chi li racconta. Si sceglie quello che più ci rimane nella memoria. Quanto ho raccontato fa certamente parte della mia storia personale e della mia relazione con lui, e me ne scuso, ma credo che questo ricordo “personale” sia anche una storia comune a tutti coloro che hanno avuto l’opportunità di conoscere Vincenzo Ziparo, di lavorarci insieme, di parlare con lui anche d’altro, oltre che di tutto ciò che attiene a quell’impegnativo lavoro del medico, ancor più del chirurgo. Vincenzo diceva che questo impegnativo lavoro molto aveva richiesto in termini di sacrificio a lui e alla sua grande famiglia, ma molto gli aveva anche dato in termini di soddisfazioni. La relazione con Vincenzo, anche senza parole esplicite, ti induceva costantemente ad apprezzare questo lavoro, a far tesoro dei contatti umani con pazienti, colleghi, maestri e allievi, e a conservare affetto e rispetto per i propri legami e le proprie radici. Un moderno uomo di altri tempi.