Libri
«Essi mi chiamano ed io vado»
«I pick the hair from her eyes
and watch her misery
with compassion.»
William Carlos Williams: Complaint
Qualche settimana fa, la stampa ha informato dell’incriminazione di un operatore del sistema di emergenza sanitaria che non aveva tempestivamente assolto il dovere di un soccorso domiciliare.
A questo non esemplare protagonista avrebbe giovato la lettura di una breve ma assai toccante pubblicazione che raccoglie memorie, poesie e fotografie su e di William Carlos Williams, grande medico umanista del secolo scorso, perché, in particolare, esse riguardano le visite ai pazienti non ricoverati in ospedale, cioè gli interventi extra-ambulatoriali che l’illustre clinico americano non ha mai pensato di disertare. «Qualcuno ha bisogno del mio aiuto – diceva –: egli mi chiama ed io vado.» (House calls with William Carlos Williams, MD. A cura di Robert Coles. Pagine 108. Brooklyn, N.Y., powerHouse Books 2008. Dollari 29,95. ISBN – 13: 978-1-5768-7475-2). Il libro rende onore alla umanità e alla sapienza del terapeuta, ma è anche un tributo agli aspetti drammatici e nobili della medicina che sa farsi umile, che sa portare soccorso e solidarietà là dove e quando è necessario: anche negli spazi desolati e poveri di una periferia suburbana. E infatti, testo ed immagini rendono testimonianza dell’assidua disponibilità del dottor Williams alle esigenze dei malati e al suo andare e venire per curarli e confortarli, in quel di Paterson e Rutherford, due cittadine del New Jersey negli Stati Uniti, agli albori degli anni ’50, nell’immediato, secondo, dopoguerra.
Williams si laureò nel 1906, nell’Università di Pennsylvania, all’età di 23 anni. Dopo due anni di internato nel French Hospital di New York, si specializzò in pediatria, arricchendo le sue competenze durante viaggi e soggiorni in Centri di studio ed ospedali europei. Tornato in patria, scelse l’attività privata, nel suo paese natale, Rutherford. Successivamente divenne primario al Passaic General Hospital della vicina città di Paterson. Così egli stesso descrive la sua vita di medico e poeta nella autobiografia: «Appena posso, vado alla macchina per scrivere, nel mio studio; ma ecco che — proprio mentre mi è apparsa chiara una ispirazione e il verso vorrebbe essere “battuto”, e l’idea, infine, inverata — ecco che un paziente si affaccia sull’uscio ed io non sono più lo scrittore: sono di nuovo un medico. E lo sono fino a quando qualcuno ha bisogno del mio aiuto; non di rado posso tornare alla macchina per scrivere soltanto a notte inoltrata ed allora, nel silenzio, con la quiete dell’anima e in pace con la mia coscienza, riesco a buttar giù anche una dozzina di pagine... Ma il compito primo è quello di prendermi cura dei miei malati.» Non per caso il corpus della poesia di Williams coincide con i suoi due sabbatici (1924 e 1927), malgrado egli sia stato assiduamente a contatto — ed amico — con protagonisti della vita letteraria del tempo e non solo degli USA: Wallace Stevens, James Joyce, Marianne Moore, T.S. Eliot, Robert Lowell, Ernest Hemingway. Suo sodale fin dagli anni universitari fu Ezra Pound. Williams ci ha lasciato 600 liriche e uno (uno solo) articolo di argomento medico, apparso su Archives of Pediatrics del 1913.
Il volume curato da Robert Coles celebra dunque non tanto lo studioso e l’intellettuale, quanto — piuttosto — l’uomo e il benefattore. Colui che ha saputo dispensare, insieme a diagnosi e farmaci, anche solidarietà e compassione. Così come da lui stesso suggerito agli allievi: osservate, riflettete ma, soprattutto, ascoltate. L’ascolto è requisito indispensabile per una vera alleanza terapeutica. Ai nostri giorni, in epoca di pratica medica talvolta esasperatamente tecnologica, i protagonisti più avvertiti fanno, per fortuna, tesoro di tali precetti fondamentali.
Scrive Atul Gawande, giovane chirurgo emergente al Women’s Hospital di Boston, docente alla Harvard Medical School e anche lui scienziato-umanista:«Il primo consiglio per un buon medico è il seguente: fate una domanda fuori copione ai vostri malati. Il nostro lavoro è anche quello di parlare con persone sconosciute. Perché non imparare qualcosa su di loro?... Provate dunque, a un certo punto, a prendervi un momento con quel paziente. Fategli una domanda fuori copione ai vostri malati. “Dov’è cresciuto?” o «Come mai si è trasferito in questa città?” oppure: “Ha visto la partita ieri sera?” Non c’è bisogno che sia una domanda importante, c’è bisogno di stabilire un contatto con la persona.»

Alice Morgan




La morte, tra natura e cultura
«Momentum mortis vitae tribuitur»
Tertulliano
Nell’odierno, ampio, dibattito sulla bioetica di fine vita, si avverte, urgente, l’esigenza di una sintesi – consapevolmente responsabile – tra natura e cultura, sintesi che aiuti ad affrontare e superare la soglia di quella “zona grigia”, la quale – come è stato drammaticamente avvertito – «si sta sostituendo con frequenza sempre maggiore» alla radicalità dell’evento: «una zona intermedia, in cui si può essere allo stesso tempo vivi e morti, al di qua e al di là del vecchio confine, uomini e macchine integrati insieme.» (Schiavone). A suggerirlo (imporlo?) è il passo progressivamente accelerato delle società tecnologiche ad alta medicalizzazione, il cui traguardo, di continuo spostato in avanti, è difficile da prevedere (ed è, in ogni modo, inquietante). Perché vertiginosa si è fatta, ormai, la dialettica tra angoscia della finitudine e onnipotenza dell’artificio. Collusione nei tabù e accanimento terapeutico ne costituiscono gli inquinanti, a danno di un non eludibile nesso, i cui antipodi potrebbero (e dovrebbero) recuperare quella conciliazione che Philippe Ariès – nella sua “Storia della morte in Occidente” – arrivò a celebrare come un’arte: morte come evento, e rito, pubblico, al pari della nascita. Al contrario, questa sorta di esorcismo – qualcosa di sospeso tra clandestinità e sensazionalizzazione – che ai giorni nostri (ed almeno nella parte tecnologicamente avanzata del pianeta) caratterizza la fine della vita, contribuisce a rendere difficile la sintesi sopra auspicata. Ed a fondamentalizzare le posizioni. Là dove, piuttosto, le coscienze meno dottrinali rivendicherebbero legittimamente libertà di scelta a fronte di protesi tecnologiche che consentono risultati a prezzo di sofferenze a volte insopportabili.
Non ha dubbi in proposito il filosofo australiano autore di una cospicua monografia da poco pubblicata: Robert Young: Medically assisted death. Pagine 260. Cambridge University Press, New York 2007. Dollari 90,95. ISBN 13: 978-0-5218-8024-4. Young si interroga e interpella, ascolta e discute; ma è convinto e deciso, e pertanto difende con fermezza il suo punto di vista ed i comportamenti che ne conseguono. Una qualità della trattazione è, giustappunto, l’integrazione assidua tra teoria e pratica. Così avviene quando affronta il tema della terapia futile in polemica con gli oppositori del diritto al rifiuto di cure da parte del malato il quale, con l’aiuto del medico, decide di porre fine ad inutili sofferenze; e così quando, conseguentemente, scrive che lo stesso medico, allorché giudica – oltre ogni ragionevole dubbio – che tutte le possibilità, sia di guarigione sia di trattamento palliativo quoad vitam, sono divenute vane, egli, il medico, d’intesa col paziente, non solo può, ma deve interrompere inutili interventi e/o non intraprenderli (pagina 29). Un simile comportamento – afferma Young – non tradisce il giuramento di Ippocrate, anzi lo onora.
Analoghe radicali considerazioni, l’A. giunge ad esporre a proposito del dibattito su eutanasia attiva e suicidio assistito. Il nostro non “gira attorno” al problema e, a pagina 97, non esita a riconoscere che, sì, siffatte decisioni sono – nella fattispecie – assimilabili alla soppressione di una vita ma subito si chiede: di quale vita? Non è, piuttosto, un dovere morale del medico “alleato” quello di aiutare la cessazione di un’esistenza vegetativa, disperata e dolente? L’Autore sottolinea la indispensabilità di tale alleanza tra medico e malato; così che la figura del primo assume connotati più alti di quelli di un “curante” di organi, divenendo il fiduciario “che si prende cura” della persona. E dunque conclude: allorché un malato terminale – cosciente, informato e consenziente – viene sedato per sospendere l’alimentazione e l’idratazione artificiale al fine di accompagnarne l’ exitus senza ulteriori pene, chi potrebbe condannare una sì pietosa, seppure omissiva, determinazione?
Tuttavia, in queste pagine, s’avverte qualche forzatura. È, infatti, assai vivo ed attuale il dibattito sull’argomento. La Società italiana di nutrizione artificiale afferma che tale idro-alimentazione non è una terapia eziologica (non cura nessuna causa di malattia), né una terapia sintomatica (non cura nessun sintomo in particolare), né una terapia palliativa, anche se allevia dolore e sofferenze del paziente. Essa è un sostegno vitale e quindi esiste un obbligo naturale di prendersi cura delle persone a cominciare dalla loro necessità di nutrirsi.
Un lungo capitolo (il decimo) è dedicato da Young alla discussione e alla critica della teoria del “piano inclinato”. Replica, punto per punto, ai tre argomenti fondamentali contro la legalizzazione dell’eutanasia. Primo: che essa rischi di trasformarsi da decisione condivisa in arbitrio; secondo: che divenga un estremo acting-out, un disperato gesto di fuga da depressione e disagio psichico; terzo: che possa essere strumentalizzata per negligenza o per fini criminali. Sulla scorta delle esperienze dell’Olanda e dell’Oregon, il nostro nega attualità significativamente statistica a tali ipotesi eventuali. Afferma testualmente: «There is no conceptual basis, no basis in precedence, and no causal psychological basis for endorsing such an inference» (pagg. 184-193).
L’undicesimo capitolo, conclusivo, è forse quello maggiormente controversiale. In esso, Young fa ricorso a tutte le sue risorse dialettiche e persuasive per rappresentare il caso di chi, non possedendo la capacità giuridica di richiedere una morte medicalmente assistita, è costretto dalla “formalità normativa”, ad una sostanziale situazione di diseguaglianza, costituita dalla subordinazione ad una inutile sofferenza. E ancora una volta pone la più inquietante delle interpellanze etiche: perché altri non possono interrompere una tale vanamente infelice sopravvivenza? Tuttavia, ad un così audace quesito sarebbe lecito rispondere con un’altra domanda egualmente capitale: donde discenderebbe il mio diritto di surrogare l’altrui libertà di scelta?
Da qui la necessità di promulgare, finalmente, anche nel nostro paese, una legge che istituisca il testamento biologico, normativa di disposizioni, non soltanto economiche, di fine vita (www.appellotestamentobiologico.it). Dovrebbero essere regole (si veda la proposta di legge del senatore Marino) che garantiscano il diritto costituzionale all’autodeterminazione, presupposto del diritto alla libertà di cura (sancito dall’articolo 32 della Costituzione).
In conclusione, si può convenire che – quantunque la visione etica di Young, fondata su una fede messianica nella compassione, rischi di apparire unilaterale (è, sì, vero che noi abbiamo libertà di scelta, ma qualunque libertà non è mai assoluta) – non meno sbilanciate, in tempi così tumultuosi come quelli che il nostro mondo sta attraversando, risultano le teorie di chi fa dell’indisponibilità della vita (e della morte) un valore assoluto e indefettibile.
E dunque, un libro che ci offre un’opportunità di riflettere su tali temi merita certamente di essere accolto con interesse.

Caterina Roghi