Medicinema


USA e sanità pubblica: 50 anni trascorsi invano?
Nella neghittosa parsimonia della televisione “fuori orario”, può accadere di imbattersi in semi-obliati reperti cinematografici, la cui riproposta, seppure di non aureo valore intrinseco, ci ricorda il giudizioso consiglio di Marziale, secondo cui «saper rivivere con interesse il passato è vivere due volte». È questo il caso di un antico “medical classic” – Nessuno resta solo (titolo originale: Not as a stranger) – esordio nella regia (1955) del big produttore Stanley Kramer, film di accettabile fattura, anche in virtù di un cast sapientemente assortito tra veterani e giovani promesse dell’epoca: Olivia de Havilland e Robert Mitchum a fianco di un Sinatra alle prime armi, e poi Charles Bickford, Lon Chaney, Lee Marvin, Broderick Crawford ed una quasi debuttante ma già predestinata “femme fatale” Gloria Grahame.



Ma più che per la sua compostezza artigianale, il film merita ancor oggi una certa attenzione  per la testimonianza che riesce a fornirci (al di là delle intenzioni?) su medici, medicina, salute e malattia in quello che allora appariva (ed era) agli occhi del mondo il paese leader della libertà e delle opportunità civili e politiche.
Ed infatti è la storia della scalata sociale da parte di un ambizioso ed altrettanto spregiudicato giovanotto di umili origini che, prima per amore della medicina, ma poi per cupidigia di successo e di denaro, tutto sacrifica alla carriera: famiglia, affetti e amicizie. Il suo itinerario umano e professionale attraversa – temerario e spavaldo – tempi e luoghi diversi: università esclusive e supponenti, diseredati ospedali pubblici ed opulenti ambulatori privati, alta società e maldicente provincia suburbana. A tutto, sempre, presiede la corporazione: l’appartenenza al clan, l’onnipotenza dello stetoscopio e del bisturi e il diuturno confronto/sfida tra camici bianchi: più che colleghi, concorrenti; mercanti più che missionari. Professionisti di collaudato cinismo che beffano colleghi idealisti, incompetenze boriose protette da connivenze politiche, privilegi di interessi singoli a danno della solidarietà condivisa, ridondanze terapeutiche foriere di parcelle d’oro a fronte di negligenze deontologiche fatali a poveri e deboli. Sino alla catarsi: all’errore che, sul tavolo operatorio, priva il nostro tracotante protagonista del suo mentore e amico ed, a un tempo, delle proprie arroganti sicurezze.

Questo fondale sociopolitico è abilmente metabolizzato da sceneggiatura e regia, mercè un esperto missaggio di scaltrezza narrativa e – perché no? – di una misura di coraggio anticonformistico, così da ottenere un plot che, pur tracimando, a volte, per una certa goffaggine melodrammatica, risulta non privo di notazioni pungenti e battute spregiudicate; caratteristiche che, in parte, riscattano i limiti anagrafici dello specifico filmico. Limiti sottolineati da troppe ambizioni metaforiche; come se Kramer volesse racchiudere nel racconto forme e momenti cardinali nell’esistenza: l’amore e l’amicizia, l’apparenza e la realtà, il destino, la fortuna e la virtus, il senso della prova come momento di purificazione morale e di palingenesi.




L’impressione riguardo a medicina, salute e sanità pubblica statunitense che, alla fine, ricava lo spettatore, è di duplice natura.
Da una parte, è la constatazione che la diseguaglianza supportata da interessi tanto iniqui quanto potenti riesce a sopravvivere a decenni ed a generazioni, così che un film di oltre mezzo secolo fa sembra ricordare alle nostre coscienze che poco è cambiato e che, ancor oggi, quasi cinquanta milioni di cittadini USA, se non hanno mezzi per pagare un’assicurazione, non godranno né di diagnosi né di cure e, nel caso di una patologia grave, correranno fondato rischio di non cavarsela. Dall’altra parte, è la grande speranza che si è profilata all’orizzonte con la nuova leadership: il riconoscimento, per ciascuno, del diritto alla salute. Una svolta epocale – l’estensione della assistenza sanitaria pubblica all’intera popolazione – perseguita quale finalità primaria dall’amministrazione Obama, anche a costo della credibilità del Presidente stesso. Un traguardo di civiltà il cui raggiungimento – assai ostacolato, molto difficile – dovrebbe sfidare la buona volontà di ogni cittadino del mondo.

Cecilia Bruno