Medicina e letteratura: un’antologia
Ho sentito il fuoco e l’inferno



L’infezione ormai spadroneggiava e lentamente stava dando il colpo di grazia al mio fisico già fragile e provato. Un rene ingolfato, un polmone zoppicante, un fegato che non aveva neppure iniziato il rodaggio.

Mi ha soffiato la sua decisione all’orecchio. Ho tremato, e ancora una volta, prima che la mia mente si mettesse in movimento, la mia bocca ha avuto il coraggio di dire sì. – Un’altra anestesia potrebbe esserle fatale, Valter. Non possiamo farla. – Non ho detto nulla, non ne avrei avuto la forza. – Non abbiamo alternative, non possiamo farla –.
Si è diretto oltre le porte della Terapia Intensiva.

Con le mani che tremavano ho segnato uno scarabocchio sul foglio informativo che Vincenza la caposala mi porgeva. Poi ho guardato il soffitto bianco e ho atteso l’esecuzione. Che è arrivata puntuale.
Mi hanno caricato sulla lettiga e riportato in sala operatoria. Un po’ di lidocaina. Il primo bisturi ha lacerato la mia carne. Ho sentito il fuoco e l’inferno. E ho chiesto di morire. Subito.
Il secondo bisturi è andato in profondità nell’addome. A scovare e stanare il mio assassino. In un secondo ho perso tutte le lacrime, che sono evaporate sulle guance incandescenti. I capelli sono caduti e quelli che hanno resistito sono diventati bianchi. I denti hanno tremato e due si sono scheggiati. E ho chiesto pietà.
Ho iniziato a urlare, l’intero ospedale ha tremato. I ferri hanno ballato sui carrelli dei chirurghi. I neonati hanno pianto, tutti e insieme. Le partorienti hanno partorito. I moribondi sono morti sgranando per l’ultima volta gli occhi. La neve è scesa sugli schermi degli ecografi. I campioni di sangue nelle provette si sono coagulati. Il radioterapista ha smesso di baciare l’infermiera nello spogliatoio. E la macchina del caffè, al bar, si è rifiutata di sputare il suo liquido caldo.
Non mi è restato più fiato. L’ultimo urlo ha bucato i muri, dal secondo sottopiano alla terrazza. È uscito fuori e ha fatto volare via gli uccelli appollaiati sulle grondaie.
Il terzo bisturi ha fatto il resto.

Non mi sono mai mosso, sono rimasto fermo. Immobile. Mentre il dolore mi toglieva la ragione e mi traghettava verso il terrore. Ma il mio corpo non voleva morire e ha fatto quel che c’era da fare. Si è lasciato martirizzare per non soccombere.
Gli infermieri, pronti a bloccarmi se mi fossi dibattuto, sono rimasti impietriti intorno al tavolo operatorio e hanno iniziato a piangere. Qualcuno si è portato le mani alle orecchie per non sentire il mio urlo infinito che ancora echeggiava. Uno è fuggito via.

Hanno tagliato, frugato, aspirato, tamponato, ripulito, ma soprattutto debellato, mentre tenevo gli occhi stretti, mentre la voce si esauriva, le mie lacrime finivano e il dolore mi portava alla pazzia.

Poi la mia mente è esplosa.


Da: Chiedo scusa,
di Francesco Abate
e Saverio Mastrofranco.
Einaudi, Torino 2010.
Pagg. 163-165



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