Libri: recensioni




La circolarità del soffrire
“Non è in noi,
ma è in lui che soffriamo”
J. J. Rousseau
C’è una crescente produzione di letteratura “laica” sulla malattia e sulla sofferenza e questa rivista non ha mancato di segnalarla e commentarla. Fra le motivazioni potrebbe esserci il desiderio – consapevole o meno – di esorcizzare la vulnerabilità della nostra natura. Perché, come ha di recente rilevato Philippe Forest, la società occidentale è, oggi, tendenzialmente allergica al dolore: nei modi espliciti di una spettacolarizzazione non di rado stentorea, oppure con meccanismi più criptici, stemperandone la drammaticità in esiti consolatorii. Non è il caso, quest’ultimo, di un romanzo che è da poco venuto ad aggiungersi allo stuolo sopra accennato: Chiedo scusa, di Francesco Abate e Valerio Mastrofranco (pagine 230, Einaudi, euro 17,50) che pur in clima di misurata speranza – ci lascia un finale “aperto”, un interrogativo sulla nostra sorte, come su quella del protagonista («Sono qui. Insegno a rimanere a galla», pag. 230).
Il romanzo è nato da una storia vera, quella di un trapianto di fegato, raccontata senza eccessive concessioni sentimentali e persino con un tocco lieve di ironia, calibrata tra fiducia e trepidazione.
L’odissea di Valter, cronista di nera,  comincia senza preavviso, durante una riunione di lavoro. «Una goccia rossa, prepotente, si è infranta sul tavolo di cristallo. Poi si è espansa, densa come ceralacca». I colleghi della Redazione lo soccorrono, ignari di ciò che lo attende. Valter vive in perenne slancio verso l’avvenire con il disincanto di chi non si lascia intimidire facilmente dalle difficoltà: fino al sopraggiungere della malattia – l’epatite irreversibile – che metterà a repentaglio l’esistenza stessa del suo domani.
In attesa del trapianto, giorno dopo giorno egli si riapproprierà del suo passato («Ho sfogliato e risfogliato il mio album delle fotografie d’infanzia… C’erano annotate tutte le mie piccole tappe… E nell’ultima riga: “Due anni, ricovero di Valter. Epatite”»); imparando a convivere con un presente di ansia ed un futuro che si prospetta come un grande forse. Ma soprattutto, Valter imparerà a chiedere scusa, perché è una necessità d’ognuno “chiedere scusa” del male che, a tutti, la natura infligge. [«Mi sono alzato. Mi sono diretto verso mia sorella… Le ho dato un bacio sul collo. E ho detto: - Scusa, Anna, scusa –. Lei mi ha guardato stupita… – Ma perché? – ha balbettato. Perché prima o poi qualcuno doveva iniziare a chiederti scusa. Perché la natura è crudele, perché si accanisce sempre con gli stessi e perché prima che le scuse ti arrivino dal cielo bisogna che almeno in terra qualcuno inizi a chiederti perdono» (pagine 143-144)].
È in questo richiamo/invito alla condivisione – là dove, troppo sovente, v’è soltanto rancore per la mortificazione d’un corpo sfidato dalla propria impotenza – è qui che risalta la virtù del libro: efficace a negare il riduzionismo biologico entro cui l’esperienza del soffrire viene solitamente circoscritta, così derubricando ad episodio del singolo la valenza di comune destino. Qui diviene davvero cruciale la critica mossa da Heidegger all’assimilazione della scienza medica dell’ homo patiens al quadro epistemologico della moderna scienza della natura. Allorché non si tenga conto di questa diversità e quindi la soggettivazione del vissuto di malattia da parte del malato venga considerata dalla cultura medica soltanto una componente variabile della malattia organica, può accadere che la pratica clinica riduca l’inquietudine dell’“io sono un corpo” alla ingannevole rassicurazione “tu hai un corpo”.
A tali convinzioni della medicina biologica si è indirizzata già da alcuni anni l’analisi critica di studiosi come il Laplantine e Byron J. Good. La tesi di quest’ultimo è che la clinica non possa darci – da sola – fondamenti per un’antropologia medica che si occupi dell’esperienza dell’uomo e della comparazione tra culture. È necessario che all’intervento biologico venga associato un altro che riconosca come il linguaggio della medicina sia un linguaggio culturale ed una costruzione storica, in tal modo ridimensionando le conseguenze che lamentiamo ogni giorno: la persona (l’insieme) subordinata all’organo (la parte), l’ospedale come normalizzazione invece che come esperienza esistenziale, il referto (documento) che si sostituisce alla comunicazione (confronto). Conseguenze che limitano il rapporto medico-paziente, perché, secondo Good, al pari del significato di un testo, quello della narrazione di una malattia non risiede soltanto né nel testo stesso né nel lettore/ascoltatore, ma è piuttosto un prodotto sociale che appartiene ai fatti della storia. Come si concilierebbe, ad esempio, il sentimento di solidarietà con la crudeltà della chirurgia dell’era pre-analgesica, èra protrattasi sino alla metà del secolo XIX? La causa del ritardo non fu l’indisponibilità di un efficace agente analgesico; essa è piuttosto da ricondurre a pregiudizi di carattere storico-culturale: alla falsa coscienza, ereditata dalla tradizione greco-romana, secondo la quale il dolore dell’eroe è associato a nobiltà di spirito; ed al successivo, altrettanto artificioso, fideismo giudeo-cristiano che considerò il dolore come punizione divina ed espiazione umana del peccato originale. A tali pregiudizi si opposero, fra altri, grandi spiriti della letteratura: umanisti, poeti. Nel “Prometeo liberato” di Percy Shelley, ad esempio, leggiamo uno dei presagi dei balsami analgesici, l’intuizione di ciò che un secolo più tardi sarà l’anestesia. Asia si rivolge alla sorella Pantea e la esorta a guardarla «prima che la nebbia le offuschi il cervello»; le predice esattamente gli effetti di un anestetico: «la testa gira vorticosamente, ogni forma appare avvolta da nubi».
Non è dunque vero, ancora una volta, che la buona letteratura può nutrire la medicina e viceversa?

Si esortino dunque i medici all’alleanza con la nuova Arianna (il romanzo) per liberarsi dal minotauro dei nostri giorni (la tecnolatria) e si solleciti in loro il recupero di “narrazioni” immortali. La presenza di grandi temi della condizione umana – la vulnerabilità, la malattia, la morte – in alcuni capolavori dell’arte può costituire non solo uno stimolo alla autoidentificazione del lettore, ma può contribuire ad avvicinarlo all’altro per comprenderne ed alleviarne la sofferenza. E anche le pagine di Abate e Mastrofranco (nom de plume dell’attore Mastandrea) concorrono a tali meritevoli finalità.

Benedetta Marra