Medicina e letteratura: un’antologia




Una crudele eleganza

Era un bene che mi estraniassi spesso dalle scene e dai suoni che avevo intorno, perché in quell’ospedale i pazienti soffrivano di malattie nervose, e molti di loro si comportavano in modo sconcertante.
Perfino le donne di servizio erano epilettiche. Talvolta, mentre spolveravano e spazzavano, il loro sguardo si faceva vitreo, distante, apocalittico; le loro mani erano scosse dai tremiti, scopa e paletta cadevano a terra fragorosamente. L’istante successivo, se la caposala o un’infermiera non erano riuscite a portarle fuori dalla corsia in tempo, dalla loro gola uscivano rantoli da lupo, poi si dibattevano per terra in una specie di estasi. C’era un che di sessuale e religioso in quegli orribili tremori e in quei sobbalzi; mi sentivo ammesso ad assistere a un rituale antico e le fissavo ammaliato e attonito.
Quando vidi la prima di queste crisi fui certo che non mi sarei mai scordato l’orrore vibrante in cui mi sprofondò; ma ebbi presto modo di vedere che altri potevano almeno  prendere la cosa con calma.
Un giorno mentre uno specialista esaminava un paziente, questi gli cadde ai piedi in preda alle convulsioni. Il paziente era un uomo grasso di mezza età; strideva e fremeva e si rotolava per terra, come se sguazzasse nel fango caldo. Era una scena penosa e grottesca, ma lo specialista la osservava con un sorriso. Non sollevò il paziente, né cercò di evitare che si ferisse la testa contro lo spigolo dell’armadietto.
Quando infine le convulsioni cessarono e il paziente, con la testa insanguinata, alzò lo sguardo frastornato, il sorriso dello specialista si fece ancora più buddista e blando, poi disse con voce flautata, in modo che tutti potessero sentire: «Bene, devo dire che questa settimana un miglioramento c’è stato... Ora lei cade con molta più grazia».
Emise un risolino leggero e beneducato, che nella mia testa evocò istantaneamente l’immagine di una donna con un petto enorme, inguainato a fatica in velluti rossi. Sembrava deliziarsi della propria arguzia, così spassionata e urbana, e intuii che in quel momento si sarebbe autodefinito d’una «crudele eleganza». Sembrava che per un momento stesse davvero incarnando la propria visione di una marchesa del Settecento nel suo brillante salotto.
Da: Voce da una nube,
di Delton Welch.
Traduzione di Vanni Bianconi.
Edizioni Casagrande, Bellinzona, 2006 Pagg. 71-72.