Dalla letteratura
In collaborazione con l’Associazione Alessandro Liberati – Network Italiano Cochrane
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Trasparenza e studi clinici
Apertura: è una parola chiave all’ordine del giorno anche in sanità. Negli ultimi mesi, la trasparenza dei risultati – ma anche dei metodi e del disegno – degli studi clinici è stata discussa nelle sale della European Medicines Agency senza purtroppo giungere a conclusioni favorevoli alla ricerca indipendente. Come spiega Eliana Ferroni in un commento in corso di pubblicazione sulla rivista CARE, “quando si parla di trasparenza dei dati di uno studio clinico è importante fare chiarezza sull’argomento onde evitare di confondere le idee e, di conseguenza, ostacolare qualunque forma di discussione in merito. La posta in gioco è rappresentata da quattro livelli di informazione (e relative fonti): (1) la conoscenza dell’esistenza dello studio (registro degli studi clinici); (2) una breve sintesi dei suoi risultati (articolo scientifico); (3) maggiori dettagli su metodi e risultati ( clinical study report, ove disponibile); (4) dati individuali dei pazienti” (Goldacre B. Are clinical trial data shared sufficiently today? No. BMJ 2013; 347: f1880). Uno dei momenti qualificanti del confronto sull’argomento è stato il lancio della campagna All-trials, sostenuta dal BMJ e da più di 50.000 persone e 250 organizzazioni (http://www.alltrials.net/). Proprio sulle pagine del settimanale della British Medical Association, il promotore di Alltrials, Ben Goldacre – ricercatore presso la London School of Hygiene and Tropical Medicine – ha sostenuto che lo status quo è chiaramente insoddisfacente. Una recente revisione sistematica ha dimostrato, infatti, come circa la metà di tutti gli studi clinici sui farmaci attualmente in uso non sia mai stata pubblicata. Inoltre, la ricerca ha messo in luce come gli studi con risultati negativi abbiano la metà delle probabilità di essere pubblicati (Song F, Parekh S, Hooper L, et al. Dissemination and publication of research findings: an updated review of related biases. Health Technol Assess 2010; 14: 1-193. www.hta.ac.uk/fullmono/mon1408.pdf). Questo publication bias affligge tanto gli studi sponsorizzati dall’industria farmaceutica quanto quelli accademici. “Alle buone intenzioni non è seguita nessuna azione concreta di cambiamento”, commenta Ferroni.
Le riviste scientifiche, soprattutto quelle a più alta diffusione e maggiore impatto, hanno non poche responsabilità. Nel 2005, i direttori delle riviste scientifiche si erano dati delle norme precise: avrebbero pubblicato solamente studi clinici registrati su database pubblicamente consultabili. Due anni dopo, negli Stati Uniti era stata approvata una legge che obbligava a pubblicare sul sito clinicaltrials.gov i risultati di tutti gli studi clinici entro un anno dal completamento. “In entrambi i casi le disposizioni sono state ampiamente ignorate”, commenta l’articolo di CARE (Mathieu S, Boutron I, Moher D, Altman DG, Ravaud P. Comparison of registered and published primary outcomes in randomized controlled trials. JAMA 2009; 302: 977-84; Prayle AP, Hurley MN, Smyth AR. Compliance with mandatory reporting of clinical trial results on ClinicalTrials.gov: cross sectional study. BMJ 2012; 344: d7373).
Che l’assenza di trasparenza dei risultati degli studi clinici costituisca un problema non è opinione condivisa dall’industria farmaceutica. John Castellani, presidente della Pharmaceutical Research and Manufacturers of America (PhRMA), sostiene che la situazione attuale sia decisamente accettabile: è sufficiente, nonché auspicabile, consentire l’accesso ai dati completi di uno studio clinico solamente alle autorità regolatorie (Castellani J. Are clinical trial data shared sufficiently today? Yes. BMJ 2013; 347: f1881). “A suo parere, nota Ferroni, rendere pubblicamente accessibili informazioni riservate e confidenziali presenti negli studi clinici potrebbe, da una parte, metterne a rischio la proprietà intellettuale, dall’altra consentire alla concorrenza di utilizzare tali informazioni per i propri prodotti in altri mercati o paesi”.
La richiesta da parte del BMJ, attraverso un recente editoriale, di rendere più largamente disponibili i dati dei singoli pazienti è del tutto condivisibile ed è una posizione fatta propria anche dalla Cochrane Collaboration: la condivisione di set di dati individuali è un fenomeno già largamente diffuso nella conduzione delle metanalisi, in grado di fornirci le migliori stime sull’efficacia e sicurezza di un farmaco (Godlee F, Groves T. The new BMJ policy on sharing data from drug and device trials. BMJ 2012; 345: e7888).
La ricerca biomedica ha un futuro?
Dalla Presidenza Clinton alla fine del secondo mandato di George W. Bush, il budget dei National Institutes of Health (NIH) è cresciuto da 8,9 a 29,6 miliari di dollari; nel complesso, negli ultimi 15 anni il governo federale ha investito nella ricerca scientifica oltre 385 miliardi di dollari. È comprensibile che i ricercatori – abituati ad una simile attenzione – reagiscano con preoccupazione alla prevista contrazione degli investimenti che ridurrà le risorse dei NIH in una misura di poco superiore al 5% del proprio budget. Già ora, il taglio di 1,7 miliardi di dollari ai NIH si è tradotto in 700 assegnazioni di fondi in meno. C’è chi si consola pensando che la riduzione non interessa solo la Sanità, se è vero che anche il Department of Defense, la NASA e di Department of Energy hanno subìto lo stesso trattamento.
Dunque, si inizia a parlare di fuga dei cervelli anche dagli States: ma per andare dove? Risposta difficile, a leggere la nota su The Scientist di Victoria Doronina (Doronina V. Should science be for sale? The Scientist, August 13. http://www.the-scientist.com/?articles.view/articleNo/37091/title/Opinion—Should-Science-Be-for-Sale-/): i governi sembrano avere a cuore solo la ricerca direttamente finalizzata allo sviluppo di attività industriali o commerciali: “Sadly – scrive la Doronina – there is an increased drive in Western science to commercialize discoveries - academics are encouraged to start spin-off companies, and applied research is actively promoted. It is very difficult to get funding for fundamental research, which may not show dividends for 10-20 years. Universities are run as for-profit companies, where students are paying customers, who get a ‘product’ (a degree) and academics have as much value as the grants they bring in. And the job market for postgraduate scientists is growing increasingly similar to that of factory workers in the 19th century: we are considered to be easily replaceable and therefore have few rights beyond a short-term contract”. Anche per quanto riguarda la ricerca, tutto il mondo è Paese e – commenta un lettore al post della Doronina – dovremmo iniziare a nutrire qualche dubbio anche sulla tanto elogiata “ricerca transazionale” che in troppi casi si rivela semplicemente una banalizzazione a fini commerciali.
Per Ezekiel Emanuel, del Dipartimento di Etica e Politica Sanitaria dell’Università di Pennsylvania a Filadelfia, il problema è sostanzialmente politico: in un commento uscito ad aprile sul JAMA (Emanuel EJ. The future of biomedical research. JAMA 2013; 309: 1589-90), sostiene che la comunità scientifica deve recuperare credibilità, superando i sospetti di conflitto di interesse che la affliggono da anni. Solo in questo modo il Parlamento statunitense potrà tornare a sostenere in maniera condivisa e bipartisan la ricerca. Infine, va spezzato il circolo vizioso che vede i NIH condurre e finanziare ricerche che portano a novità che si traducono in innovazioni cliniche molto costose che, una volta introdotte nella pratica clinica, innalzano i costi sanitari prosciugando le risorse teoricamente disponibili per l’avvio di nuove ricerche.
Tornando alla domanda iniziale (Quale futuro per la ricerca biomedica?) una risposta chiara viene proprio dallo stesso Emanuel, esperto molto ascoltato anche dalla amministrazione Obama: “The NIH and the larger biomedical research community need to direct their considerable talents and resources to developing biomedical technologies that are not just ‘incredibly exciting’ but also cost lowering and value enhancing”.
I cittadini: alleati vulnerabili?
Un’armata di gruppi di pazienti, mobilitata dalle aziende farmaceutiche, sembra essersi attivata per frenare i piani per pubblicare i documenti non pubblici sugli studi clinici con farmaci. La strategia è disegnata in una nota inviata ai direttori di molte aziende farmaceutiche e trafugata per essere resa pubblica. Due importanti gruppi − l’americano PhRMA (Pharmaceutical Research and Manufacturers of America) e l’europeo EFPIA (European Federation of Pharmaceutical Industries and Associations) − sono al centro di questa notizia pubblicata in un articolo su The Guardian (Ian Sample. Big pharma mobilising patients in battle over drugs trials data. The Guardian 2013, 21 luglio).
Possibile che associazioni di pazienti abbiano timore che la trasparenza dei dati e la disponibilità di tutti i dati – così come richiesto dalle agenzie regolatorie − possa portare più danni che benefici? Possibile che i legami tra industria e rappresentanze di cittadini siano così consolidati e forti da permettere influenze così significative e pericolose?
Possibile: già nel 1996 l’ABPI, associazione che raggruppa la maggior parte delle aziende farmaceutiche inglesi, aveva pubblicato l’opuscolo “Putting patients first” dove venivano presentate e discusse modalità di coinvolgimento di cittadini e loro rappresentanze. Da lì a qualche anno la maggior parte delle aziende si dotava di uffici dedicati ai rapporti con le associazioni organizzando raccolte dati, corsi di formazione o partecipazioni a convegni. Le aziende hanno capito che questo gruppo di stakeholders avrebbe potuto essere un importante alleato e si sono mobilitate. In Italia, nel 2012, il 76% delle case farmaceutiche dichiarava di sostenere una o più associazioni di pazienti, per un totale di 341 gruppi; la maggior parte delle quali non menzionava questo sostegno nei propri siti internet.
Nei paesi anglosassoni anche le istituzioni hanno però compreso la forza e l’importanza della collaborazione con le associazioni e con loro hanno iniziato un forte rapporto collaborativo ma anche di cambiamento. Dalle nostre parti il processo è molto meno rapido, incisivo e attento, a volte scarsamente trasparente nella scelta delle associazioni da inserire nei gruppi di lavoro. Quello dei cittadini/pazienti/ rappresentanze è un alleato in generale poco a conoscenza di metodi e principi della ricerca, con scarsi strumenti critici per valutare informazioni e conflitti di interesse, ma con l’entusiasmo e la necessità di chi si mette dalla parte di chi ha bisogno. È facile che qualcuno caschi in trappole come quelle descritte da The Guardian.