Cinema e medicina

a cura di Luciano De Fiore

L’orgoglio di essere cittadino: Io, Daniel Blake

Sono passati dieci anni dalla prima Palma d’Oro a Cannes, e quest’anno Ken Loach ha incassato un meritato bis con l’asciutto e spietato Io, Daniel Blake.

Daniel (Dave Johns) è un carpentiere vicino ai sessanta. Ha perso la moglie da qualche anno, dopo averne accudito la lunga malattia psichiatrica. Adesso è solo ed alle prese con l’insensatezza della burocrazia anglosassone: l’universo britannico dei sussidi statali è complesso e mutevole, soprattutto a causa dell’introduzione del nuovo sistema denominato “Universal Credit”. Lo stato di salute di Daniel, infatti, non gli consente di lavorare, dopo aver patito un evento cardiaco maggiore. Mentre attende il giudizio che potrebbe assegnargli l’indennità di malattia, vive col sussidio che gli viene concesso però soltanto se continua a iscriversi alle liste di disoccupazione e se cerca pervicacemente un impiego, per almeno 35 ore la settimana. Un lavoro che, se mai lo ottenesse, non potrebbe svolgere, pena il decadere del suo diritto all’invalidità. Un cane rabbioso che si morde la coda e che tuttavia non piega Dan, sempre pronto ad aiutare il prossimo, in una livida Newcastle messa in ginocchio dalla crisi economica.




Un giorno Daniel incontra Katie (Hayley Squires), una giovane madre single di due figli piccoli, che non riesce a trovare lavoro e che non ha alcuna fonte di sostentamento. Le due solitudini si attraggono, nel segno di una solidarietà vera. Nonostante le attenzioni di Dan, Katie però non riesce a sottrarsi ad un giro di prostituzione che le garantisce almeno le sterline sufficienti a sfamare e vestire i bambini. Per Daniel è un colpo tremendo. Ma supera anche questo, accettando l’ineluttabilità della situazione.




Giunge il giorno del verdetto: una Commissione dovrà riconoscere o meno il diritto all’indennità di malattia. Katie accompagna Daniel che, nell’attesa del proprio turno, spia quei commissari che fino ad allora hanno dimostrato solo un ottuso rispetto delle procedure. Eppure, Daniel deve riconoscere che proprio «loro hanno in mano la mia vita».

Ebbene, in un ultimo soprassalto di dignità, è come se Dan decidesse di non lasciar disporre del suo destino da quei burocrati di uno Stato affetto da una sorta di paradossale bullismo nei confronti dei più deboli. Si sente affaticato, esce dalla sala d’attesa e raggiunge i servizi, dove si bagna il viso, appena prima che un nuovo infarto lo abbatta.

Improbabile, inutilmente drammatico? Non si direbbe. Paul Laverty, sceneggiatore del film di Loach, ha ricordato che nel documentarsi per il film ha incontrato un giovane medico che gli ha raccontato di un suo paziente, malato terminale di tumore, che camminava a malapena e ciò nondimeno dichiarato “abile al lavoro”. Un giorno era caduto, rompendosi la testa. Chiamata l’ambulanza non vi era voluto salire perché il giorno dopo doveva andare a firmare all’ufficio di collocamento e temeva di perdere il sussidio a causa di una sanzione. È morto tre mesi dopo.




Alle esequie di Daniel, un funerale mattutino da poveri, Katie legge alcune scarne righe che l’amico aveva addosso quando si è sentito male. Con le quali il carpentiere rivendica con orgoglio il proprio diritto ad essere considerato per quello che si è sempre impegnato ad essere: un cittadino, niente di più e niente di meno, di uno Stato che ha invece dimenticato la propria ispirazione nel Welfare, riducendo gli individui a pratiche da evadere. Ma il cuore malato di Dan stavolta lo ha anticipato, consegnandolo al rispetto di pochi, veri amici.