Dalla letteratura

In collaborazione con l’Associazione Alessandro Liberati – Network Italiano Cochrane
www.associali.it

Proteggere la ricerca, non i confini

Ha vissuto tra il Friuli e la Toscana per 25 anni, poi il Québec della Université Laval e finalmente la chiamata della Harvard University: Luca Freschi, genetista, era pronto per prendere servizio in marzo ma, con il visto in mano, il trasferimento è stato bloccato dalla executive action del presidente degli Stati Uniti firmata il 27 gennaio 2017, perché Luca è sposato con Maryam, iraniana1. La firma sul documento Protecting the Nation from Foreign Terrorist Entry into the United States ha sovvertito la vita di moltissimi ricercatori di cui abbiamo letto le storie negli scorsi giorni: Kaneh Daneshvar, biologo molecolare a Harvard; Ali Shourideh, economista della Carnegie Mellon University di Pittsburg; Babak Seradjeh, fisico della Indiana University; Muhamad Alhaj Moustafa, medico specializzando all’ospedale di Washington2. Il divieto ha suscitato un dibattito intenso: la norma impediva per 90 giorni l’accesso negli Stati Uniti dei cittadini di una serie di Stati a maggioranza musulmana (Iran, Iraq, Libia, Somalia, Sudan, Yemen e Siria) – nel caso della Siria il blocco è a tempo indeterminato – e sospendeva l’accoglienza di rifugiati politici per 120 giorni. Oggi si attende una nuova versione delle regole, essendo la prima stata sospesa in seguito all’intervento del 9th Circuit federal appeals court.

Molte voci si sono levate contro la scelta politica di Donald Trump. Tra queste, anche quelle di importanti istituzioni accademiche e centri universitari. Oltre 65 mila scienziati, tra oltre 60 premi Nobel, si sono pronunciati contro la discriminazione prodotta dall’executive order. Così si è espresso il presidente della Harvard University: «In times of unsettling change, we look toward our deepest values and ideals. Among them is the recognition that drawing people together from across the nation and around the world is a paramount source of our University’s strength. Thousands of students and scholars and visitors come to Harvard each year from all over the globe to study, to teach, to propel our research enterprise, to join in conferences and colloquia, to share insights and abilities that transcend nationality»3.

Anche l’American Medical Association si è esplicitamente pronunciata in modo critico riguardo all’ordine esecutivo4, seguita da oltre 300 società scientifiche nordamericane, tra cui la quasi totalità delle associazioni di area oncologica. Nello statement a firma di American Society of Hematologists, American association for cancer res­earch, Association of American Cancer Institutes, American Society for Radiation Oncology, American society of pediatric hematology/oncology e LUNGevity Foundation leggiamo: «Molti dei progressi fatti dalla ricerca contro il cancro sono stati ottenuti grazie al lavoro di ricercatori provenienti da ogni angolo del mondo. Per far sì che questi progressi continuino ad arrivare servirà una collaborazione ancor più grande tra organizzazioni internazionali, governi, istituzioni pubbliche e private e singoli ricercatori devoti alla causa»5.

Anche l’American Society of Clinical Oncology (ASCO) e il Memorial Sloan Kettering Cancer Center hanno preso posizione netta, utilizzando canali ufficiali di comunicazione e social media: le decisioni dell’amministrazione Trump «potrebbero incidere negativamente sulla ricerca oncologica, l’assistenza ai malati e la collaborazione scientifica internazionale». Come sostiene l’ASCO, «gli Stati Uniti dipendono dal contributo delle più grandi menti di tutto il mondo per mantenere l’elevata qualità degli standard della ricerca biomedica e dell’assistenza sanitaria».

Con uno statement a firma del presidente, Richard A. Chazal, l’American College of Cardiology ha condannato con decisione le norme che limitano la libera circolazione dei cittadini del mondo: «The ability to share ideas and knowledge necessary to address this epidemic is imperative. Policies that impede this free-flow of ideas will have a detrimental impact on scientific discovery, as well as the lives of patients around the world. If we are to realize a future where cardiovascular disease is no longer the No. 1 killer of men and women worldwide we must ensure that our system of scientific exchange allows for healthcare professionals to learn from each other regardless of their nationality»6.




Preoccupa anche l’impatto sulla partecipazione ai congressi medico-scientifici che si svolgeranno in territorio statunitense, privati del contributo di migliaia di ricercatori di paesi emergenti. In un editoriale su Science, Rush Holt – presidente dell’American Association for the Advancement of Science (AAAS) – ha citato il caso del presidente della World Academy of Science che, essendo sudanese, ha dovuto cancellare la propria presenza al congresso annuale della AAAS previsto per la fine di febbraio 2017: «For science to be effective and provide its benefits to people, some fundamental principles must be observed and defended − among them, the freedoms of open communication, collaboration, and diversity of perspectives»7. «This is strange world – ha commentato privatamente via email una ricercatrice di nazionalità mediorientale, coinvolta nel lavoro di un gruppo Cochrane –. We were very glad that now our government is ruled by Moderates and we can collaborate more easily with our colleagues around the world».

Alle voci di tante società scientifiche si è aggiunta quella della Cochrane internazionale che si è espressa richiamando due valori essenziali: collaborazione e partecipazione8 ed è necessario pronunciarsi con chiarezza raccogliendo l’esortazione di Holt: «Taking action is the best course when science is threatened or when science can illuminate public issues». Servono ponti e non barriere: è semmai necessario moltiplicare le opportunità di contatto e di scambio, perché la ricerca vive e cresce nel confronto. Sono queste le ragioni che hanno suggerito all’Associazione Liberati e al network Cochrane italiano di farsi promotori di una lettera aperta delle società scientifiche italiane, già firmata da diverse associazioni alle quali speriamo se ne aggiungano molte altre: invitiamo a scrivere una email di adesione a: associazionealessandroliberati@gmail.com.

Associazione Alessandro Liberati – Network Italiano Cochrane

Associazione Culturale Pediatri

Associazione Italiana dei Registri Tumori

Associazione Italiana di Epidemiologia

Associazione Italiana di Oncologia Medica

Associazione “No grazie, pago io”

Federazione delle Associazioni dei Dirigenti Ospedalieri Internisti FADOI

Slow Medicine

Società Italiana di Pediatria

Bibliografia

1. Morello L, Reardon S. Meet the scientists hit by Trump’s immigration ban. Nature Magazine 2017; 30 gennaio.

2. Lewin L. these are the faces of Trump’s ban. CNN Politics 2017. http://edition.cnn.com/interactive/2017/01/politics/immigration-ban-stories/

3. Wieczner J. Read Harvard university President’s Trump full response to Donald Trump’s muslim ban. Fortune 2017; 30 giugno.

4. https://www.ama-assn.org/sites/default/files/media-browser/public/washington/ama-letter-to-kelly-homeland-security.pdf

5. http://www.hematology.org/Newsroom/Press-Releases/2017/7076.aspx

6. www.acc.org

7. Holt R. Act for science. Science 2017; 355: 551.

8. Cochrane statement on US travel restrictions. http://community.cochrane.org/news/cochrane-statement-us-travel-restrictions.




Se c’è conflitto di interessi occorre prudenza nella valutazione

Se il principal investigator di uno studio ha relazioni economiche con lo sponsor è assai più probabile che i risultati della ricerca siano favorevoli all’obiettivo di chi ha finanziato il progetto. Lo conferma un’indagine svolta sugli esiti di sperimentazioni controllate randomizzate su farmaci pubblicate nel 2013 sulle principali riviste internazionali di medicina generale1. Tra le righe, altre evidenze: il 58% dei principal investigator ha un rapporto finanziario con l’industria che prevede consulenze (39% dei casi) o compensi per conferenze (20%), fino all’essere veri e propri dipendenti (13%). Come ha fatto rilevare Richard Lehman nel suo blog sul sito del BMJ, il dato allarmante è nella pervasività dei legami personali, in quanto i rapporti, dunque, non si limitano ai finanziamenti percepiti dagli enti di appartenenza: «Financial bias on such a scale shows that a whole new system for independently testing new interventions is requie»2. Per alcuni aspetti si tratta di una novità solo parziale, in quanto l’associazione positiva tra sponsorizzazione e risultati positivi era già nota. Come fanno notare Lundh e Lisa Bero in un editoriale di accompagnamento, lo studio di Ahn et al.3 si segnala per aver considerato l’impatto dei conflitti di interesse individuali e non il finanziamento dello studio in sé.

Proprio per effetto delle ricerche degli ultimi anni è andata crescendo la domanda di trasparenza, così che molte riviste hanno ormai adottato un format standardizzato per la dichiarazione di relazioni economiche, seguendo le indicazioni dell’International committee of medical journal editors: tutti gli studi dovrebbero essere registrati preventivamente nella banca dati clinicaltrials.gov per minimizzare il publication bias e migliorare l’accessibilità a ogni tipo di informazione sul trial che sia considerata rilevante per un giudizio di qualità. Ci si interroga però sull’efficacia di strumenti come la disclosure dei finanziamenti, quasi o sempre abbastanza nascosta sul sito delle riviste o comunque poco evidente agli occhi dei lettori.

Se la ricerca primaria soffre l’influenza di chi finanzia gli studi, non molto diversa è la condizione in cui si trova la produzione di revisioni sistematiche: analizzando quanto di recente è stato prodotto nell’ambito della psoriasi, un gruppo di ricercatori spagnoli ha dimostrato un’associazione positiva tra la presenza di autori in situazione di potenziale conflitto di interesse e modesta qualità metodologica della revisione sistematica4. In generale, sapere che meno di una su cinque tra le revisioni è di alta qualità è sconfortante. Prevalgono revisioni di medio livello qualitativo (55%) e preoccupa il 27% di lavori di basso profilo. Il finanziamento di revisioni da parte di istituzioni pubbliche è un fattore protettivo della qualità.

Bibliografia

1. Ahn R, Woodbridge A, Abraham A, et al. Financial ties of principal investigators and randomized controlled trial outcomes: cross sectional study. BMJ 2017; 356: i6770.

2. Lehman R. Journal review. http://blogs.bmj.com/bmj/2017/01/23/richard-lehmans-journal-review-23-january-2017/

3. Lundh A, Bero L. The ties that bind. BMJ 2017; 356: j176.

4. Gómez‐García F, Ruano J, Aguilar‐Luque M, et al. Systematic reviews and meta‐analyses on psoriasis: role of funding sources, conflict of interest, and bibliometric indices as predictors of methodological quality. Br J Dermatol 2017; Feb 13. doi: 10.1111/bjd.15380.

Un manifesto per la riproducibilità

È necessario e urgente ottimizzare gli elementi chiave del processo scientifico: metodi, reporting e diffusione, riproducibilità, valutazione. Quali sono le misure da adottare a tale scopo? Ecco le proposte di un team di ricercatori coordinato da John P.A. Ioannidis dello Stanford Prevention Research Center del Department of Medicine and Department of Health Research and Policy della Stanford University School of Medicine, che ha pubblicato un editoriale sull’argomento sulla rivista Nature – Human Behaviour1.

«Si tratta di una serie di misure che crediamo possano contribuire ad aumentare l’efficienza e la robustezza dei dati della ricerca scientifica semplicemente mettendo nel mirino specifiche criticità, vere e proprie minacce alla riproducibilità degli studi scientifici», scrivono gli autori. «Non si tratta di fornire un approccio esaustivo, ma di mettere a disposizione degli addetti ai lavori un set evidence-based di procedure che possono essere implementate da ricercatori, istituzioni, riviste e finanziatori».
Volendo schematizzare in breve le misure proposte da Ioannidis e dal suo team – che nell’editoriale sono lungamente approfondite e discusse – possiamo elencarle così:

protezione contro i bias cognitivi;

miglioramento del training metodologico;

supporto metodologico indipendente;

collaborazione e lavoro di team;

promozione della registrazione preliminare degli studi clinici;

miglioramento della qualità del reporting;

misure di protezione dai conflitti di interesse;

promozione della trasparenza e della scienza “open”;

diversificazione dei processi di peer review;

incentivi economici alle pratiche “open” e riproducibili.

Le sfide che la cosiddetta “scienza riproducibile” ci lancia sono sistemiche e di natura culturale: molto ardue quindi, ma non per questo insuperabili. Le misure proposte da Ioannidis e dal suo team potrebbero rappresentare passi avanti concreti verso il rigore e la credibilità, e non vanno quindi trascurate.

David Frati

Bibliografia

1. Munafò MR, Nosek BA, Bishop DVM, et al. A manifesto for reproducible science. Nature Human Behaviour 2017; 1: 0021 doi:10.1038/s41562-016-0021.

Trasparenza e ragionevolezza per ridurre i prezzi dei farmaci

«L’impossibilità di accedere ai medicinali è un problema di gravità paragonabile al cambiamento climatico», scrive Suerie Moon sul New England Journal of Medicine del 9 febbraio 2017. «Richiede nuove politiche sanitarie e la collaborazione internazionale»1. La spesa per i farmaci è cresciuta di circa il 9% nel 2014 e nel 2015, superando la crescita economica mondiale. Le cifre iperboliche raggiunte dal prezzo di alcuni prodotti hanno attratto l’attenzione di molti media internazionali, anche perché terapie così costose si legano a indicazioni tali da suscitare una forte onda emotiva: patologie rare o orfane, malattie oncologiche, condizioni gravi per le quali i farmaci promettono di essere una soluzione quasi definitiva, come nel caso dell’epatite C.




Come risolvere il problema dei costi delle terapie? «At the moment, the only effective tool is public shaming», scrive David Lazarus sul Los Angeles Times, dopo aver premesso però che il sistema sanitario statunitense avrebbe indubbio beneficio se il programma di assicurazione Medicare fosse autorizzato a negoziare i prezzi con le industrie2. Ma c’è un altro elemento che contribuisce a rendere tutto più complicato: l’industria preferisce lavorare nell’ombra, agendo in un sistema caratterizzato da assoluta opacità. «It’s awfully hard to see much value in this opaque approach to real drug pricing», sostiene Nicholson Price, docente di Giurisprudenza della University of Michigan citato nell’articolo. «Especially if we want to have patients be more cost-conscious to keep costs down, opaque pricing does us no favors».

Proprio sulla trasparenza si sofferma Moon, nella “Perspective” sul NEJM. La docente di Harvard scrive: «Reliable, thorough public information is not generally available on the safety, efficacy, prices, patent status, sources of investment, and costs of developing lifesaving medicines. Given its profound implications for the public interest, the drug-development system is shrouded in a disproportionate degree of secrecy». La trasparenza, spiega, potrebbe introdurre una misura di ragionevolezza e di rispetto di evidenza nell’infuocato dibattito sul prezzo dei farmaci. Potrebbe rivelarsi anche la chiave per mettere i cittadini nella condizione di comprendere alcune delle dinamiche che informano la ricerca clinica e che, se adeguatamente conosciute, permetterebbero di inquadrare correttamente i rapporti tra i centri di ricerca pubblici e le industrie private.

E invece? Invece proliferano intermediari come l’agenzia Precision Health Economics (PHE)3, aziende che propongono “alleati strategici” che possano supportare le industrie nel sostenere le politiche di accesso e posizionamento sul mercato: «To persuade payers and the public, the industry has deployed a potent new ally, a company whose marquee figures are leading economists and health care experts at the nation’s top universities», spiega Annie Waldman sul sito ProPublica4. Citando Eric G. Campbell, docente della Harvard Medical School, l’articolo prosegue: «This is just an extension of the way that the drug industry has been involved in every phase of medical education and medical research. They are using this group of economists it appears to provide data in high-profile journals to have a positive impact on policy».

Le vie nuove del marketing farmaceutico hanno da tempo scelto i propri interlocutori privilegiati nei decisori di sanità pubblica: di conseguenza sono radicalmente diminuiti gli investimenti che premiavano l’attenzione dei medici di medicina generale ma anche dei clinici ospedalieri, dal momento che le scelte che incidono realmente sull’impiego dei medicinali sono molto spesso compiute in una sede diversa dal setting assistenziale. Tutto ruota intorno all’economia dell’innovazione: l’industria chiede consulenze qualificate e intelligenti nella misura in cui si rivelano capaci di anticipare obiezioni e riserve delle istituzioni. Le università vedono riconosciuta la propria competenza e cercano una gratifica anche economica, utile a integrare compensi spesso ritenuti incongrui. «To be sure, collaboration with industry supplements our income through consulting fees. But no matter who funds our research − foundations, government, or companies − we apply the same template to our work», afferma Dana Goldman, chairman e cofondatore di PHE.




Il conflitto di interessi è una preoccupazione costante, risolta però – fa notare ProPublica – in modo non sempre coerente. «Indosso due cappelli», ammette Goldman, «quello di consulente industriale e quello di docente e ricercatore della University of Southern California». Perdere di credibilità, però, sarebbe per lui un danno sia dal punto di vista accademico, sia da quello squisitamente – come dire? – commerciale. Il lavoro degli economisti della PHE è nel mirino dei colleghi indipendenti e questa attenzione non lascia tranquilli gli esperti che collaborano con le industrie.

Forse ha ragione Suerie Moon e i dibattiti sul costo delle cure e sul riscaldamento globale si somigliano molto: si dice tutto e il contrario di tutto. Il discrimine è sull’autorevolezza e l’indipendenza di chi sostiene l’una o l’altra posizione.

Bibliografia

1. Moon S. Powerful Ideas for Global Access to Medicines. N Engl J Med 2017; 376(6): 505-7.

2. Lazarus D. Big Pharma really, really doesn’t want you to know the true value of its drugs. Los Angeles Times 2017; 17 febbraio. http://www.latimes.com/business/lazarus/la-fi-lazarus-drug-pricing-evzio-20170217-story.html

3. http://www.precisionhealtheconomics.com/

4. Waldman A. Big Pharma Quietly Enlists Leading Professors to Justify $1,000-Per-Day Drugs. ProPublica 2017; 23 febbraio. https://www.propublica.org/article/big-pharma-quietly-enlists-leading-professors-to-justify-1000-per-day-drugs

Le linee-guida non ammettono l’incertezza?

In assenza di evidenze robuste a favore di un intervento sanitario, che posizione dovrebbero prendere le linee-guida? È questa la domanda sottintesa in un articolo uscito su The BMJ a firma di Jeanne Lenzer, che considera le posizioni assunte negli ultimi anni dalla US Preventive Services Task Force in merito a diverse strategie di screening1.

A seguito di alcuni pronunciamenti improntati a prudenza, in merito allo screening mammografico nelle donne tra i 40 e i 49 anni e allo screening di routine del cancro della prostata, la USPSTF ha ricevuto nel 2015 un warning dal Congresso statunitense e una riduzione dell’8% dei finanziamenti. Lenzer attribuisce a questa pressione istituzionale volta a un maggiore interventismo la tendenza recente della task force a raccomandare controlli più serrati: TC a basse dosi del polmone per i fumatori, screening per la depressione negli adulti, terapia con statine per la prevenzione primaria cardiovascolare e così via.

Le linee-guida prodotte da un ente di primo piano influenzano fortemente le decisioni dei clinici e per questa ragione dovrebbero essere improntate al massimo rigore, condizione che sembra non essere rispettata in alcuni dei documenti prodotti. Per esempio, le raccomandazioni sull’utilità di uno screening per i disturbi dell’umore non poggiano sui risultati di alcuni studi randomizzato controllato. Ci si avvale troppo stesse di evidenze indirette e non di confronti espliciti tra strategie alternative.

Altro problema aperto è quello della mancata considerazione degli studi non pubblicati. Per esempio, la USPSTF non fa richiesta alla Food and Drug Administration della documentazione regolatoria depositata dalle aziende (peraltro anch’essa spesso carente e lacunosa). Ma è una questione – oltre che di complesso inquadramento – anche difficile da risolvere: già la valutazione della documentazione pubblicata è impegnativa e molto dispendiosa, così che estendere il processo anche agli unpublished result o ai dati grezzi rischierebbe di compromettere la capacità dell’istituzione di produrre linee-guida.

Ancora: la USPSTF affida lo svolgimento delle revisioni a centri esterni (evidence-based practice centers - EBPC) che in diversi casi ricevono finanziamenti da industrie. Questo potrebbe determinare una situazione di conflitto di interessi se le aziende sponsor decidessero di condizionare il proprio supporto, offrendolo in misura ridotta ai centri che adottassero un stile più conservativo.

Il rischio che una politica sanitaria generalmente più favorevole agli screening produca troppa medicina esiste. «Molti centri darebbero un migliore contributo se preparassero meno raccomandazioni, riflettendo maggiormente in questo modo la situazione di incertezza tra trattamenti», ha commentato su Twitter il cardiologo toscano Raffaele Rasoini. È molto importante, infatti, che siano considerate e ammesse le aree di indecisione che, nonostante i risultati della migliore ricerca, continuano a restare tali.

Bibliografia

1. Lenzer J. Is the United States Preventive Services Task Force still a voice of caution? BMJ 2017; 356: j743.

Raffreddamento del cuoio capelluto contro l’alopecia da chemioterapia

L’impiego di un dispositivo (cuffia) per il raffreddamento del cuoio capelluto riduce la perdita di capelli in pazienti sottoposte a trattamenti chemioterapici per un carcinoma della mammella. Recentemente, due studi pubblicati sul Journal of American Medical Association (JAMA) hanno evidenziato come questa procedura risulti efficace nel diminuire l’alopecia in questa specifica classe di pazienti.

Il primo, realizzato presso il Baylor College of Medicine di Houston, ha preso in considerazione 182 donne affette da carcinoma della mammella e sottoposte a ciclo chemioterapico1. Di queste, 119 sono state assegnate al gruppo “raffreddamento del cuoio capelluto” e 63 al gruppo di controllo. Il trattamento è stato applicato 30 minuti prima, durante e 90 minuti dopo ogni seduta di chemioterapia. Alla fine del quarto ciclo è stato possibile valutare gli effetti del raffreddamento del cuoio capelluto sulla perdita di capelli in 142 pazienti. Dai risultati è emersa, per le donne sottoposte alla procedura, una maggiore probabilità di perdere una percentuale inferiore al 50% dei capelli (con il 51% di queste che ha persino potuto evitare la rasatura, contro lo 0% delle pazienti del gruppo di controllo). Al contrario, non sono emerse differenze per nessuno dei parametri di valutazione relativi alla qualità della vita. ٥٤ eventi avversi sono stati invece registrati nel gruppo sottoposto al raffreddamento del cuoio capelluto, nessuno dei quali grave.

Il secondo studio invece, realizzato dall’University of California in collaborazione con altri centri di ricerca statunitensi, ha analizzato la perdita di capelli in 106 donne affette da carcinoma della mammella e sottoposte a raffreddamento del cuoio capelluto e 16 pazienti del gruppo di controllo, 14 delle quali accoppiate per età e regime di trattamento chemioterapico ad altrettante pazienti del gruppo sperimentale2. La percentuale di donne che è andata incontro a una perdita di capelli pari o inferiore al 50% è risultata essere del 66% nel gruppo sottoposto alla procedura e dello 0% nel gruppo di controllo. Inoltre, dopo un mese dalla fine della chemioterapia le pazienti del gruppo sperimentale hanno riportato un miglioramento in ٣/٥ dei parametri relativi alla qualità della vita. Per esempio, solo il 27% di queste ha riportato di sentirsi meno attraente fisicamente, rispetto al 56% delle pazienti del gruppo di controllo. Infine, solo quattro donne (3,8%) hanno manifestato degli eventi avversi (moderato mal di testa) associati alla procedura mentre tre (2,8%) hanno interrotto il trattamento a causa del troppo freddo percepito.

L’alopecia è considerata come uno degli effetti collaterali più impattanti dalle donne sottoposte a trattamenti chemioterapici. Si è ipotizzato che i sistemi di raffreddamento del cuoio capelluto possano ridurre l’afflusso di sangue ai follicoli piliferi, impedendo così l’assorbimento degli agenti chemioterapici, ma questo effetto non era ancora stato valutato in un trial randomizzato. Tuttavia, gli autori di entrambe le ricerche sono concordi nel ritenere che studi ulteriori siano necessari per valutare l’efficacia a lungo termine della procedura e gli eventi avversi associati.

Fabio Ambrosino

Bibliografia

1. Nangia J, Wang T, Osborne C, et al. Effect of a scalp cooling device on alopecia in women undergoing chemotherapy for breast cancer. The SCALP randomized cloinical trial. JAMA 2017; 317: 596-605.

2. Rugo HS, Klein P, Melin SA, et al. Association between use of a scalp cooling device and alopecia after chemotherapy for breast cancer. JAMA 2017; 317: 606-14.