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Se leggiamo il Piano nazionale della cronicità pubblicato di recente dal Ministero della salute, scopriremo che il Servizio sanitario nazionale del nostro Paese sta vivendo una rivoluzione. Il cittadino è al centro del sistema sociale e sanitario, il paziente è il soggetto della cura e attore principale dell’assistenza e dell’assunzione delle scelte di salute che lo riguardano. Vivendo “nel” Servizio sanitario l’impressione è diversa: l’empowerment del malato è cosa rara e il suo engagement nelle dinamiche assistenziali è ancora meno frequente.

Al contrario, sembra che le politiche sanitarie cerchino in alcuni casi delle scorciatoie, con l’obiettivo di ridurre i tempi per arrivare alla soluzione di problemi complessi: l’obbligo di vaccinazione come condizione della frequenza scolastica è un esempio di come non si ritenga non solo utile ma inevitabile un dialogo capace di ridurre l’asimmetria informativa che è la causa principale della resistenza alle vaccinazioni. La promozione della health literacy dei cittadini è la premessa per sciogliere nodi come quello che ha monopolizzato il dibattito degli ultimi mesi.

Alla fretta di produrre una legge capace di superare le differenze regionali in ambito vaccinale fa da contraltare la lentezza del procedere delle norme che riguardano il fine vita. Nell’uno e nell’altro caso, l’impressione è che la politica ritenga superfluo il coinvolgimento dei cittadini nelle decisioni che li riguardano.

Ha scritto Piero Dominici sul Sole 24 Ore del 7 maggio: «I vecchi confini tra formazione scientifica e umanistica sono di fatto completamente saltati in presenza di dilemmi che ci richiedono, in primo luogo, di mettere in discussione saperi e pratiche consolidate, immaginari individuali e collettivi (rischi vs opportunità); è necessario avere anche il coraggio di rompere equilibri, spezzare le catene della tradizione, abbandonare il certo per l’incerto (epistemologia dell’incertezza e dell’indeterminatezza), scegliere, almeno provvisoriamente, di correre il rischio di essere vulnerabili». La politica non intende rischiare di sentirsi vulnerabile e, quando le condizioni sono tali da renderlo inevitabile, risponde facendo la voce grossa e tirando avanti per una strada già decisa, che non tiene conto delle evidenze.

Prosegue Dominici sollecitando «una nuova sensibilità etica per le problematiche riguardanti gli attori sociali, il sistema delle relazioni e lo spazio del sapere: occorre, cioè, una nuova cultura della comunicazione, orientata alla condivisione e all’intesa, in grado di incidere sui meccanismi sociali della fiducia e della cooperazione».

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