Dalla letteratura

In collaborazione con l’Associazione Alessandro Liberati – Network Italiano Cochrane
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Sistemi sanitari e innovazione: report dall’incontro annuale 2017 dell’Associazione Alessandro Liberati

A cura di Giulio Formoso

Quale innovazione tecnologica può andare incontro alle aspettative dei cittadini?

Giorgio Mazzi (Direttore sanitario dell’Azienda Ospedaliera-IRCCS di Reggio Emilia) ha evidenziato il contesto del quale è necessario tenere conto nell’organizzazione dell’offerta sanitaria: l’aumento dell’età media (e quindi della necessità di gestione delle patologie croniche) e la disponibilità di nuove tecnologie curative e diagnostiche (vere o presunte innovazioni che siano) richiedono una gestione attenta delle risorse disponibili. È necessario quindi un particolare sforzo di valutazione del valore aggiunto delle tecnologie e di prioritizzazione degli interventi, considerando la loro applicabilità e il loro impatto clinico, al fine di riallocare le risorse verso gli interventi con profilo più favorevole sia per il rapporto tra benefici e rischi, sia per quello tra costo ed efficacia.

Da Mazzi è arrivato un invito a considerare l’importanza di raccogliere dati sull’utilizzo delle tecnologie e sui relativi esiti e, più in generale, un invito a usare in modo accorto le conoscenze già disponibili. Proprio su questo concetto, Mazzi ha concluso il suo intervento citando Muir Gray: «L’applicazione di ciò che già conosciamo avrà un impatto sulla salute e sulla malattia superiore a quello che ogni farmaco o tecnologia introdotti nel prossimo decennio potranno probabilmente avere».

Investimenti in ricerca biomedica in Italia e in altri Paesi: quanto, come e con quale ritorno

Claudio Jommi (dell’Università Bocconi di Milano e dell’Università del Piemonte Orientale) ha evidenziato come il quadro che emerge sull’entità degli investimenti nella ricerca biomedica, sia nel settore pubblico sia in quello privato, offra alcuni spunti di massima, ma non consenta una mappatura esatta delle risorse impiegate, poiché i dati disponibili sono incompleti e disomogenei. Quando si citano questi dati, l’uso del condizionale è quindi d’obbligo.

Per avere un’idea orientativa, la stima degli investimenti lordi a livello globale è di circa 270 miliardi di dollari, di cui circa i due terzi sarebbero investiti da aziende private. Gli Stati Uniti sono al primo posto con una stima del 45% degli investimenti totali (e del 45% di investimenti pubblici), seguiti dall’Europa con il 31% (28% degli investimenti pubblici) e dal Giappone con il 14% (10% degli investimenti pubblici). Il Paese che investe di più rispetto al proprio PIL sarebbe la Svizzera (con circa l’1,2% del PIL), mentre per l’Italia gli investimenti sarebbero molto inferiori (poco più dello 0,2% del PIL).

Con riferimento nello specifico al comparto farmaceutico e all’investimento in ricerca e sviluppo (R&S) delle imprese, i dati mostrano come l’Italia raccoglierebbe il 4,6% rispetto al totale degli investimenti in Europa, contro valori compresi tra il 15 e il 20% di Germania, Svizzera, Regno Unito e Francia. Il ruolo dell’Italia negli studi sperimentali è leggermente calato nel tempo: l’incidenza degli studi rilevati dall’Osservatorio sulle Sperimentazioni Cliniche dell’AIFA sul totale a livello europeo è passata infatti dal 18,5% nel 2008 al 17,2% nel 2015. Le analisi percettive condotte a livello internazionale evidenziano come l’Italia, a fronte di un riconosciuto vantaggio competitivo sui clinici sperimentatori, mostri maggiori problemi negli aspetti regolatori e organizzativi, con tempi di autorizzazione mediamente lunghi e carenza di informazioni sulle competenze dei centri sperimentali. La presenza di studi sperimentali in Italia andrebbe invece fortemente valorizzata, considerando l’impatto su competenze e risorse che possono essere in parte reinvestite, nonché i risparmi legati alla fornitura dei farmaci sperimentali (ed eventuali comparatori attivi).




Ma gli investimenti in R&S giustificano i prezzi che i farmaci hanno sul mercato? Anche in questo caso è necessario usare con molta cautela i dati disponibili. Le stime più aggiornate fornite dal Tufts Center for the Study of Drug Development e riferite ai costi sostenuti prima della commercializzazione del farmaco evidenziano un costo per molecola lanciata sul mercato di 2,6 miliardi di dollari (la quota maggiore dei costi è rappresentata dallo sviluppo clinico). Di questi, il 45% non sarebbe rappresentato da risorse effettivamente impiegate ma dal costo-opportunità generato dal fatto di non aver impiegato le stesse risorse in investimenti alternativi con rendimenti più immediati. Inoltre, di tali studi viene stigmatizzata la focalizzazione sugli investimenti delle Big Pharma, la bassa rappresentatività nel campione di farmaci orfani (approvati con studi di fase II) e il fatto che vengono conteggiate le spese al lordo degli incentivi forniti alle imprese stesse. Il costo effettivo potrebbe essere quindi inferiore, ma non ci sono al momento stime alternative. È quindi molto azzardato dare una risposta alla domanda se i costi di R&S giustifichino in media i “prezzi” dei farmaci, considerando anche che tali investimenti sono costi fissi e sommersi (ovvero già sostenuti quando cominciano i ricavi) e che quindi il recupero di tali costi dipende non solo dai prezzi unitari, ma anche dai volumi di vendita, e che i prezzi dipendono anche dai costi di produzione e commercializzazione (nonché dal profitto atteso).

Investimenti dell’industria, partnership pubblico-privato e ricerca indipendente: esempi e proposte

Distinguendo tra ricerca fatta con il fine di sviluppare nuovi farmaci o nuove indicazioni – che rappresenta l’85% del totale della ricerca da sponsor non profit in Italia – e ricerca fatta con il fine di valutarne il valore terapeutico da parte di chi li utilizza nell’ambito dei sistemi sanitari – il restante 15% – Giuseppe Recchia (Direttore medico e scientifico di GSK Italia) ha sottolineato l’importanza di promuovere il trasferimento tecnologico dall’accademia (che ha competenze rilevanti nella ricerca di base) all’impresa (che ha le competenze per sviluppare i prodotti della ricerca e portarli sul mercato).

Il relatore ha fatto cenno a diverse esperienze virtuose di partnership, che hanno tratto giovamento anche da fondi di ricerca derivati da donazioni (per esempio Telethon). Queste partnership possono massimizzare la produttività della ricerca sfruttando al meglio le competenze dei partecipanti. L’accademia può anche partecipare agli utili derivati dai prodotti della ricerca attraverso la creazione di “spin off” (imprese che nascono su iniziativa di personale accademico).

Questo tipo di partnership permette all’Italia di essere all’avanguardia in Europa per quanto riguarda la ricerca e lo sviluppo di terapie avanzate: su un totale europeo di 5 terapie geniche e cellulari autorizzate in Europa, 3 sono state sviluppate in Italia.

Fattori che potrebbero favorire l’efficienza e il massimo sfruttamento delle attività di ricerca sono rappresentati dalla possibilità di utilizzare i dati individuali e di rivedere il D.M. 17.12.2004, che impedisce l’uso di dati da sperimentazioni non profit per lo sviluppo industriale dei farmaci, ferma restando la trasparenza nel ruolo delle aziende farmaceutiche nel finanziamento della ricerca da sponsor non profit.




Guido Bertolini (Responsabile del laboratorio di Epidemiologia Clinica dell’Istituto Mario Negri) ha brevemente illustrato la politica dell’Istituto alle attività di ricerca, evidenziando come l’obiettivo di tali attività debba sempre essere rappresentato dal beneficio per i pazienti e che l’indipendenza da politica, finanza, industria, ideologie o religioni rappresenti in tal senso un requisito fondamentale. In base a questi principi, l’Istituto rinuncia a brevettare i prodotti della propria ricerca e opera sulla base di diverse fonti di finanziamento, non accettando più del 10% del budget da ciascuna fonte. Inoltre accetta di collaborare con l’industria del farmaco in attività di ricerca solo se può condividerne la proprietà dei dati.

Fatte queste premesse, il relatore ha presentato un esempio di collaborazione con l’industria non andato a buon fine, analizzando così alcune possibili criticità di queste partnership per la ricerca. L’esempio si riferisce a una ricerca svolta nel contesto del progetto Innovative Medicines Initiative (IMI), co-finanziato dalla Commissione europea e dalla Federazione Europea dell’Industria Farmaceutica (EFPIA), che ha l’obiettivo di supportare ricerche su farmaci innovativi realizzate attraverso partnership tra industria e istituzioni pubbliche o non profit. Nell’ambito dell’IMI, l’Istituto Mario Negri aveva aderito al programma per lo sviluppo di un nuovo antibiotico prodotto dall’azienda Glaxo Smith Kline (GSK), ma ha dovuto successivamente ritirarsi perché il documento di “project agreement” rendeva chiara l’impossibilità di partecipare in modo realmente collaborativo all’impostazione dello studio (per es., per la scelta del gruppo di controllo) e, soprattutto, all’accesso ai dati dello studio stesso, impedendo di fatto il loro utilizzo indipendente nonostante GSK si fosse pubblicamente dichiarata favorevole alla trasparenza nella pubblicazione dei dati degli studi clinici. In pratica, si sarebbe trattato di uno studio interamente controllato da GSK più che di uno studio collaborativo.

Questo esempio è stato oggetto di un articolo pubblicato sul BMJ nel 2013 (Garattini S, Bertolini G. A failed attempt at collaboration. BMJ 2013; 347: f5354) e ha lo scopo di evidenziare quelli che dovrebbero essere alcuni elementi essenziali di una proficua partnership pubblico-privato nella ricerca clinica.




La relazione di Andrea Chiesi (Direttore R&D Portfolio Management di Chiesi Farmaceutici) ha offerto il punto di vista di un’azienda con attività di ricerca e sviluppo in forte espansione, in particolare per quanto riguarda le terapie cellulari avanzate (advanced therapy medicinal products - ATMP). Le principali barriere a una rapida introduzione degli ATMP in terapia sono rappresentati dalla complessità regolatoria (difficoltà di adattare normative nate per i composti chimici alle terapie cellulari), dai limiti nelle conoscenze disponibili sulle patologie, sui meccanismi di azione e sugli esiti, dalla rarità delle patologie stesse che determina anche difficoltà nel disegno degli studi clinici, dai costi di produzione elevati e dalle difficoltà nell’ottenere la rimborsabilità dei prodotti (anche per la limitata disponibilità di dati).

Occorrerebbe dunque affrontare ciascuno di questi determinanti attraverso evoluzioni metodologiche, normative e finanziarie, con l’obiettivo di poter trattare più pazienti e migliorare la qualità di vita. Alcune proposte:

completare la revisione delle cosiddette “good practice” per renderle più adatte agli ATMP;

considerare l’uso di disegni clinici e processi regolatori adattativi;

attribuire un maggior peso ai potenziali benefici clinici;

facilitare le collaborazioni pubblico-privato e attribuire maggiori sgravi fiscali per le attività di ricerca;

definire schemi di prezzi e rimborso più flessibili (risk sharing, prezzi flessibili in base alla generazione di nuovi dati).

Mattia Altini (Direttore sanitario dell’Istituto Scientifico Romagnolo per lo Studio e la Cura dei Tumori - IRST - di Meldola) ha illustrato alcune esperienze di partnership che hanno coinvolto l’IRST di Meldola, Istituto di Ricovero e Cura a Carattere Scientifico operante in ambito oncologico nato da un’alleanza tra pubblico e privato sociale (è partecipato al 70% da Regione, AUSL, Comune; per il resto da fondazioni bancarie del territorio e Istituto Oncologico Romagnolo onlus). Il relatore ha distinto le collaborazioni che riguardano aspetti strutturali delle attività IRST, la ricerca scientifica propriamente detta e le partnership con la società civile.

In particolare, Altini ha illustrato il modus IRST attraverso alcuni esempi, quali:

la collaborazione con una ditta privata, selezionata attraverso una gara europea, per la produzione e la gestione di radiofarmaci; aspetto che determina, tra le altre cose, maggiore sicurezza per i pazienti e un contenimento dei costi di gestione;

il progetto, reso possibile grazie al supporto di un Fondo etico immobiliare, Cassa depositi e prestiti e Fondazione Cassa dei risparmi di Forlì, di una foresteria dove possono alloggiare pazienti, familiari e personale IRST;

l’attività di ricerca – sia “indipendente” sia “sponsorizzata” – che ha visto un costante incremento nel corso degli ultimi anni per quanto riguarda la raccolta di fondi, il numero di studi e di pubblicazioni, e ha riguardato sia l’ambito clinico sia quello organizzativo. Quest’ultimo ha permesso di individuare percorsi potenzialmente inappropriati e di rielaborare risorse in attività ad alta redditività in termini di esito per i pazienti;

il coinvolgimento e la sensibilizzazione della cittadinanza attraverso diverse iniziative che hanno permesso la raccolta di fondi da utilizzare in progetti di ricerca indipendente.

Nella relazione che ha chiuso la sessione mattutina, Giuseppe Traversa (Centro Nazionale Ricerca e Valutazione Preclinica e Clinica dei Farmaci dell’Istituto Superiore di Sanità) ha fatto il punto su cosa ragionevolmente ci si possa aspettare dalle partnership pubblico-privato e quali strumenti potrebbero essere adottati per facilitare le attività di ricerca e la disponibilità di informazioni.




Premesso che gli investimenti pubblici hanno un impatto rilevante sullo sviluppo di farmaci e tecnologie sanitarie – soprattutto indirettamente, attraverso ricerche successivamente utilizzate per brevettare i prodotti – esistono evidenti tensioni tra pubblico e privato nella valutazione di innovatività e del giusto prezzo da assegnare ai prodotti della ricerca, oltre che nella stessa definizione del livello di evidenze necessario per la registrazione dei prodotti (cosa che a volte si traduce in decisioni controverse all’interno degli stessi enti regolatori).

Riconoscendo le differenze negli obiettivi di sanità pubblica e industria, bisognerebbe tenere alta la guardia rispetto ai rischi di conflitti di interesse, che possono snaturare gli obiettivi di sanità pubblica creando dei meccanismi di partnership certamente non virtuosi. In generale, non bisognerebbe pretendere dalle partnership pubblico-privato ciò che potrebbe confliggere con i rispettivi obiettivi (per es., promuovere ricerca che porti all’uso di farmaci efficaci ma con bassa redditività – vedi bevacizumab nell’edema maculare).

Il pubblico potrebbe aiutare la ricerca, sia privata sia pubblica, attraverso modifiche normative: per es., con il rimborso del SSN dei farmaci fuori indicazione negli studi indipendenti; abolendo assicurazioni aggiuntive per gli studi a basso rischio; dando continuità ai bandi di ricerca indipendente AIFA; utilizzando i risultati della ricerca indipendente anche per richiedere nuove indicazioni). Un importante contributo alla ricerca potrebbe anche venire dalla disponibilità dei dati prodotti all’interno del SSN sull’uso dei farmaci e sugli esiti clinici in modo da favorire, oltre all’appropriatezza d’uso, una maggiore comprensione sui bisogni inevasi per indirizzare la ricerca.

Dalla ricerca alla scelta e introduzione delle innovazioni: iniziative europee di HTA

Luciana Ballini (dell’Azienda USL di Reggio Emilia - Agenzia Sanitaria e Sociale Emilia-Romagna) ha introdotto la sua relazione descrivendo gli obiettivi e i determinanti di efficacia dell’health technology assessment (HTA) che, sulla base di un’analisi trasparente, rigorosa e possibilmente tempestiva delle informazioni scientifiche disponibili, dovrebbe informare le decisioni cliniche e di politica sanitaria valutando il potenziale impatto sanitario, economico e sociale dell’utilizzo delle tecnologie e contribuendo di conseguenza a elevati standard di protezione della salute.

La rilevanza dell’HTA come strumento di supporto alle decisioni ha determinato lo sviluppo di una normativa europea che prevede la promozione della cooperazione tra le agenzie di HTA per produrre informazioni affidabili ed evitare duplicazioni. Su queste basi a partire dal 2006 è stato creato, con finanziamenti UE, lo European network for Health Technology Assessment (EUnetHTA), le cui attività si sono sviluppate attraverso varie fasi. L’obiettivo della “Joint Action 3” attualmente in corso (periodo 2016-2020) è quello di mettere a regime questa attività di cooperazione in modo da renderla indipendente da finanziamenti UE ad hoc.

La relatrice ha sottolineato come il ruolo dell’HTA sia centrale non solo rispetto alle attività di scelta e introduzione delle innovazioni, ma anche rispetto allo sviluppo della ricerca di tecnologie innovative. Le aziende produttrici hanno infatti tutto l’interesse a sviluppare ricerche che, una volta giunte a termine, possano determinare decisioni favorevoli all’introduzione dei loro prodotti da parte degli enti regolatori. Non a caso una delle principali attività in ambito EUnetHTA è rappresentata dai cosiddetti “early dialogues” con le ditte produttrici per ottenere suggerimenti/critiche costruttive sui protocolli di studio, al fine di favorire la produzione di ricerca che sia più aderente alle necessità dei pazienti e della pratica clinica. Dal punto di vista delle ditte, l’obiettivo è favorire lo sviluppo di prodotti con maggior probabilità di ricevere l’autorizzazione per la loro commercializzazione. In questo senso, l’HTA può offrire un importante contributo nel mediare le inevitabili tensioni che scaturiscono per via degli interessi − spesso in conflitto tra loro − di cittadini, sistemi sanitari, clinici e industria.




Introdurre le innovazioni nella pratica assistenziale e organizzativa

Carmine Pinto (Direttore del Dipartimento Oncologico e Tecnologie Avanzate, AOSP di Reggio Emilia e presidente della Associazione Italiana di Oncologia Medica), sottolineando l’elevato impatto dei tumori in Italia, ha evidenziato i passi in avanti fatti grazie alla ricerca sul fronte dell’efficacia delle terapie oncologiche e dell’aumento medio della sopravvivenza. La disponibilità di risorse è tuttavia il principale fattore di ostacolo all’introduzione dei farmaci oncologici innovativi, considerando la tendenza a mantenere costante o ridurre il finanziamento del SSN (in rapporto al PIL) e quindi ad aumentare la competizione nell’allocazione delle risorse tra le diverse aree terapeutiche. Per quanto riguarda l’oncologia, si osserva comunque un aumento costante della spesa per i farmaci antitumorali principalmente legato alle crescenti opportunità terapeutiche (immunoterapie, terapie mirate in base alla presenza di biomarker, ecc.) e all’aumento dei costi delle terapie stesse. La disponibilità di un fondo ad hoc di 500 milioni di euro per il 2017 per i farmaci innovativi in oncologia rappresenta un tentativo per migliorare l’accesso a queste terapie.

Considerando l’obiettivo di garantire equità di accesso e qualità di cura per tutti i pazienti in tutto il nostro Paese e i limiti nelle risorse disponibili, l’introduzione di nuovi farmaci e la definizione di ciò che è innovativo nell’ambito delle strategie terapeutiche dovrebbero considerare la rilevanza delle patologie, i vantaggi clinici in termini assoluti e in termini di indicatori rilevanti rispetto alle alternative terapeutiche (valutati attraverso studi qualitativamente affidabili) insieme ai costi e alla sostenibilità per il SSN.

Per quanto riguarda i costi dei farmaci, il relatore ha evidenziato come l’implementazione di gare di acquisto centralizzate su base almeno regionale, l’introduzione dei biosimilari di anticorpi monoclonali, la rivalutazione del costo dei farmaci già rimborsati sulla base dei dati dei registri AIFA e una maggiore trasparenza degli accordi prezzo-volume potrebbero permettere una loro riduzione.

Va infine considerata nel suo complesso l’organizzazione dell’assistenza ai malati oncologici, che può fortemente influenzare l’uso appropriato dei farmaci e la stessa ricerca. L’implementazione delle reti oncologiche regionali può in particolare favorire l’accesso a uguale qualità e standard assistenziali, l’appropriatezza diagnostica e terapeutica, la razionalizzazione di servizi, tecnologie e risorse e la realizzazione di studi clinici. Le linee-guida AIOM possono essere uno degli strumenti utili per standardizzare la pratica clinica sulla base di prove di efficacia e per favorire l’aggiornamento e la multidisciplinarietà delle strategie di cura.

Antonio Addis (del Dipartimento di Epidemiologia del SSR del Lazio e della Commissione Tecnico-Scientifica AIFA) ha affrontato il tema delle evidenze necessarie per la registrazione dei farmaci, la negoziazione del prezzo e la valutazione del grado di innovatività, cosa che influenza la loro introduzione nella pratica clinica. In particolare, il relatore ha evidenziato le tensioni tra la richiesta di rapidità nella produzione dei dati e nella loro valutazione (richiesta che viene soprattutto dal mondo industriale, anche indirettamente attraverso le associazioni dei pazienti) e la necessità di avere dati affidabili sulla sicurezza e sul valore aggiunto dei prodotti della ricerca.

Per velocizzare l’introduzione dei nuovi farmaci si spinge verso strategie “adattative”, che riducono la richiesta di evidenze su rischi e benefici al momento della registrazione, limitando inizialmente le indicazioni che possono essere via via allargate in base a evidenze generate attraverso i dati di utilizzo. Questo tipo di approccio, che non prevede come requisito un miglioramento importante rispetto alle terapie disponibili, si accompagna alla possibilità che effetti negativi vengano scoperti tardi esponendo i pazienti a rischi evitabili, e che ai benefici inizialmente stimati attraverso “esiti surrogati” non corrisponda effettivamente un valore aggiunto nella pratica su esiti clinicamente rilevanti (come dimostrato da alcuni studi).




Se da un lato si lavora per accelerare l’introduzione dei nuovi farmaci, il loro prezzo rappresenta spesso un elemento di ostacolo rispetto a tale obiettivo. Le evidenze disponibili, che spesso non permettono di definire adeguatamente il valore aggiunto dei farmaci rispetto alle terapie già disponibili, spesso non giustificano le richieste delle ditte e rendono insostenibile l’accesso alle terapie per tutti i pazienti che ne potrebbero trarre beneficio. Gli attuali modelli di definizione dei prezzi sembrano riflettere ciò che i mercati possono sostenere più che l’effettivo valore aggiunto dei farmaci.

La definizione di innovatività in base alle evidenze disponibili è un altro elemento molto dibattuto in quanto può influenzare favorevolmente l’introduzione dei nuovi farmaci. Recentemente l’AIFA ha adottato a questo riguardo criteri che, pur permettendo di mantenere la necessaria discrezionalità di giudizio, valutano l’innovatività in modo trasparente (anche perché le valutazioni saranno disponibili sul portale dell’AIFA) utilizzando il metodo GRADE e quindi assegnando un peso rilevante alla qualità delle prove, al bisogno terapeutico e al valore terapeutico aggiunto.

La relazione di Claudio Castegnaro (della Fondazione Paracelso) ha fornito il punto di vista di un’associazione di pazienti emofilici per quanto riguarda la ricerca e l’introduzione delle innovazioni nella pratica clinica. La Fondazione è impegnata a elaborare e promuovere progetti scientifici e sociali per l’emofilia e i deficit ereditari della coagulazione, a fornire assistenza diretta ai pazienti e alle famiglie e, in ultima analisi, ad aumentare la visibilità sociale e la conoscenza della malattia e a elevare i livelli clinici assistenziali attraverso la ricerca e la collaborazione con le istituzioni.

Utilizzando alcuni esempi di progetti promossi dalla Fondazione, il relatore ha sottolineato l’importanza del dialogo tra tutti i soggetti interessati e di riconoscere il ruolo di ciascuna categoria (pazienti, familiari, professionisti, associazioni, ecc.) per favorire l’introduzione delle innovazioni e il miglioramento dell’assistenza. In particolare, occorrerebbe un coinvolgimento dei pazienti fin dalle prime fasi dei processi di ricerca, sperimentazione, valutazione e introduzione nel sistema sanitario di farmaci e tecnologie, anche per definire i percorsi diagnostico-terapeutici assistenziali (PDTA). A tal fine, sarebbe necessario prevedere luoghi/momenti di confronto istituzionale a livello locale e nazionale, nello spirito della riforma SSN degli anni ’70.

Proposte alternative per facilitare l’introduzione delle tecnologie innovative: è possibile un sistema “open source” nella ricerca biomedica?

L’aumento della spesa sanitaria e in particolare della spesa farmaceutica – dovuto in parte all’invecchiamento della popolazione, in parte all’aumento medio dei costi dei farmaci, in alcuni casi estremamente elevati − determina disparità nell’accesso all’assistenza. Partendo da questa premessa, James Love (Direttore della Knowledge Ecology International) ha evidenziato la necessità di considerare sistemi alternativi per il finanziamento di R&S di nuovi farmaci, poiché il sistema attuale basato sui brevetti (che garantiscono alle ditte detentrici un prolungato monopolio commerciale su ciascun farmaco e il mantenimento di prezzi elevati, con ampi introiti in parte reinvestiti in ricerca) di fatto non rende gli stessi farmaci accessibili a tutti.

Alcuni sistemi alternativi sono in teoria possibili. Il denominatore comune è lo sviluppo di fondi di ricerca a livello globale, con il contributo dei governi, integrando in varia misura:

il finanziamento a priori di ricerche finalizzate;

premi legati all’ottenimento di risultati intermedi (come, per es., l’identificazione di biomarker o il progresso verso studi di fase I o II);

premi legati alla dimostrazione di un effettivo valore aggiunto del farmaco, alla fine del processo di sviluppo e anche nel corso del suo utilizzo nella pratica clinica (le evidenze necessarie sono simili a quelle usate nelle decisioni sulla rimborsabilità);

dividendi che premino la capacità di mettere in comune i risultati delle proprie ricerche, quando di queste sia riconosciuta l’importanza per la realizzazione dei prodotti finali (open-source dividend).




Questi sistemi premianti dovrebbero sostituire o quanto meno limitare la copertura brevettuale come incentivo alle attività di R&S. Naturalmente, i principali elementi da affrontare per la realizzazione di questi sistemi di finanziamento sono rappresentati dalle decisioni sulle quote che ciascuno stato dovrebbe mettere a disposizione, dalle modalità di governo delle risorse (in particolare i criteri premianti alla base delle decisioni di finanziamento) e dagli ostacoli costituiti dalle norme commerciali esistenti (per es., accordo TRIPS).

È attualmente in via di definizione la proposta di un fondo globale di ricerca per il cancro (Cancer Research Fund) che potrà rappresentare un test di fattibilità di queste modalità alternative per il finanziamento della ricerca biomedica.

Il clinico tra bisogni dei pazienti, informazioni incomplete e sostenibilità del sistema

Nella relazione di chiusura del convegno, Martin Langer (del Dipartimento di Anestesia, Rianimazione e Cure Palliative dell’Istituto Nazionale Tumori di Milano) ha portato il suo punto di vista di clinico rispetto ai vari elementi di cui deve tener conto nel suo operare quotidiano per garantire il diritto alla salute. Per le scelte sugli approcci da adottare non basta considerare i bisogni oggettivi dei pazienti alla luce delle informazioni disponibili su efficacia e sicurezza delle possibili strategie di cura, come poteva essere alcuni decenni fa – la domanda che ci si poneva era semplice: “come possiamo curare questa malattia/questo paziente?”.




Il ruolo sempre più attivo dei pazienti (con la necessità di coinvolgerli e di considerare i loro bisogni soggettivi), l’evoluzione delle opportunità di cura e i rischi per la sostenibilità del sistema rendono il quadro abbastanza più complesso, per cui al clinico si pone un ulteriore quesito: “che senso ha quello che possiamo fare?”. Il successo della Medicina crea nuova domanda di Medicina, ma ciò che è tecnicamente possibile è anche eticamente corretto? è economicamente sostenibile? è necessario limitare l’accesso solo ad alcune categorie di pazienti? chi può o deve deciderlo?

Il relatore ha evidenziato come, in un sistema sanitario universalistico come il nostro, «oggi una delle grandissime soddisfazioni è non dover chiedere se il paziente può pagare la cura». Il problema di mantenere la sostenibilità del sistema e di garantire il diritto alla salute riguarda tutti gli attori del sistema stesso. I clinici in particolare dovrebbero integrare le competenze mancanti o insufficienti come consapevolezza, etica e comunicazione: è necessario capire, ed essere in grado di trasmettere ai propri pazienti, che non tutto quello che si può fare si deve fare perché si può fare, e che “non fare” non vuol dire “non curare”. Una presa di coscienza da parte dei cittadini su questi temi è comunque fondamentale e anche in questo senso il clinico può offrire un importante contributo.