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Il patient engagement è una delle principali condizioni perché possa svilupparsi in modo soddisfacente il Piano nazionale per la cronicità voluto dal Ministero della salute. Ma non può compiersi senza che il personale sanitario si senta anch’esso coinvolto, partecipe, “ingaggiato” (anche se questa è parola poco gradita ai curatori della conferenza di consenso pubblicata in questo numero di Recenti progressi in medicina) in una sfida difficile da vincere.

Le resistenze all’engagement, infatti, non sono poche. Ostacoli di tipo culturale, dovuti in primo luogo ad una health literacy inadeguata in un Paese in cui la competenza in tema di salute è determinata quasi esclusivamente da un’informazione sciatta, condizionata da interessi industriali, generalmente poco curata. Barriere dovute a un’organizzazione perennemente imperfetta, anche nelle Regioni teoricamente più virtuose: servizi mai abbastanza vicini alle esigenze dei cittadini, risorse umane mai sufficienti per soddisfare una domanda di conoscenza e di “cura” che va oltre la richiesta di prestazioni sanitarie, “tempari” che scandiscono il ritmo di visita riducendo l’assistenza a un’incombenza prevalentemente burocratica.

L’engagement dovrebbe abbandonare il riferimento esclusivo al malato, come sottolineano in premessa gli autori delle “raccomandazioni”: a distanza di 40 anni dalla legge che ha istituito il servizio sanitario nazionale è dunque necessario ripensarlo in un’ottica sistemica. Può voler dire molte cose, per esempio dare maggiore valore – e finanziamenti – al supporto sociale indispensabile al sostegno e all’accompagnamento delle persone che soffrono di malattie croniche.

La solitudine caratterizza la vita di almeno il 30% degli anziani che vivono negli Stati Uniti e l’impatto sulla salute di questa terribile condizione di vita è paragonabile al fumo di 15 sigarette al giorno1. L’isolamento è un grave fattore di rischio cardiovascolare2 se è vero che una recente revisione sistematica della letteratura ha determinato un rischio aumentato del 29% di malattia coronarica e del 32% di ictus nelle persone anziane con scarse relazioni sociali. Preoccupanti e prevedibili anche gli effetti sul decadimento cognitivo3.

Così, l’engagement non può prescindere dalla connessione, dalla costruzione paziente di reti che sostengano la persona malata ma anche i familiari, i caregiver e i professionisti sanitari quotidianamente impegnati in un’attività stressante e raramente gratificante. È certamente vero quello che scrive Domenico Ribatti nella sua preziosa testimonianza: «La solitudine resta però un farmaco essenziale per la cura dell’anima. Essa è il luogo della riflessione, dell’incontro con sé stessi, del ritrovamento e del rinnovamento di ciò che dà significato. Praticare la solitudine è tornare a casa». Ma la solitudine dev’essere una scelta, l’esito di una decisione consapevole, forse la difesa di uno spazio privato in una vita comunque condivisa.

Bibliografia

1. Holt-Lunstad J, Smith TB, Baker M, Harris T, Stephenson D. Loneliness and social isolation as risk factors for mortality: a meta-analytic review. Perspect Psychol Sci 2015; 10: 227-37.

2. Valtorta NK, Kanaan M, Gilbody S, Ronzi S, Hanratty B. Loneliness and social isolation as risk factors for coronary heart disease and stroke: systematic review and meta-analysis of longitudinal observational studies. Heart 2016; 102: 1009-16.

3. Kuiper JS, Zuidersma M, Voshaar RC, et al. Social relationships and risk of dementia: a systematic review and meta-analysis of longitudinal cohort studies. Ageing Res Rev 2015; 22: 39-57.

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