Sentinella, a che punto è la notte?

Giuseppe Gristina1

1Medico intensivista

Pervenuto il 5 gennaio 2018.

«Oracolo contro Duma. Mi si grida da Seir: “Sentinella, a che punto è la notte? Sentinella a che punto è la notte?”

La sentinella risponde: “Viene la mattina, e viene anche la notte. Se volete interrogare interrogate pure; tornate e interrogate ancora”».

La Bibbia, Isaia 21: 11-12

«We have not succeeded in answering all our problems. The answers we have found only serve to raise a whole set of new questions. In some ways we feel we are as confused as ever, but we believe we are confused on a higher level and about more important things».

Bernt Øksendal, Stochastic Differential Equations.

Springer-Verlag, 1985

[citazione dalla Prefazione]

Il profeta ritrae, in una notte silenziosa e tiepida, una vedetta; un guardiano che sembra stia vegliando sulle mura di una città. Non si sa da quanto tempo è lì. Forse da secoli o forse da pochissimo. Aspetta che una voce umana, rabbiosa o animata dalla fede, sussurri la domanda: “Sentinella, a che punto è la notte?”.

La voce della sentinella pare spandersi come un’eco infinita, quasi fosse la voce stessa di Dio: “Alla notte segue sempre il mattino, ma io veglio sempre, perciò insistete, ridomandate, tornate ancora, ogni volta che lo vorrete, non vi stancate...”.

Isaia fa capire che quella domanda rimarrà senza risposta. Anzi, che la risposta sta proprio nel continuare a sentire quella voce che chiede incessante “a che punto è la notte?”, fino a quando domanda e risposta diverranno tutt’uno.

All’Istituto di matematica dell’Università di Oslo il professor Bernt Øksendal sta in piedi davanti alla grande lavagna dell’aula in cui tiene normalmente lezione. L’aula è deserta. È quasi mezzanotte. Il professore ha appena finito di scrivere l’ultima parte delle equazioni stocastiche, i modelli matematici adatti a studiare, secondo una legge deterministica, l’andamento dei fenomeni che seguono invece leggi casuali mentre evolvono nel tempo. È stanco, gli occhi gli bruciano, le dita sono disseccate dalla polvere del gesso. Si toglie gli occhiali, si siede. È confuso e insoddisfatto. Ha lavorato anni sulle sue equazioni e, adesso che la fatica è conclusa, gli sembra di aver soltanto avuto a che fare con un sistema di scatole cinesi. Gli torna in mente la targa appesa fuori della sala di lettura della biblioteca dell’Istituto di matematica alla Arctic University di Tromsø, in Norvegia.

Bernt Øksendal ora sorride, prende la penna e inizia a scrivere la prefazione al suo libro: “Non siamo riusciti a rispondere alle nostre domande. Le risposte che abbiamo trovato servono solo a sollevare un’intera serie di nuove domande. In qualche modo sentiamo di essere più confusi che mai, anche se crediamo di essere confusi a un livello superiore e su cose più importanti”.

Queste due frasi, scritte a millenni di distanza l’una dall’altra, da un profeta e da un matematico, affrontano lo stesso problema: spiegare il mistero dell’uomo nel contesto del mistero dell’universo che lo circonda. Lo fanno però da due punti di vista diversi.

Il profeta si rivolge a Dio, il matematico alla scienza.

Nessuno dei due sembra ottenere risposta.

È un sabato speciale: Shabbat Mevorchim. Il sabato che precede Rosh Chodesh, il nuovo mese nel calendario ebraico.

Isaiah ben Bezalel, un giovane rabbino, esce dalla sinagoga di Brooklyn Heights dopo aver recitato la Haftaràh per la funzione speciale del Mevorchim. Il clima è gradevole, il sole è ancora tiepido. Isaiah si avvia a percorrere il miglio che lo divide dal Brooklyn bridge park per sedersi, come ogni sabato, davanti all’East river a meditare. Percorre Remsen street, a Pierrepont place piega a nord sulla Columbia Heights. All’incrocio con Doughty street gira a sinistra verso Furman street, la attraversa ed entra nel parco. Superato l’attracco dei NYC Ferries, va a sedere su una delle lunghe panchine che guardano lo skyline di Manhattan e, a destra, il Brooklyn bridge.

Nello stesso momento il dottor Gunnar Øksendal di Stoccolma – una fellowship in medicina intensiva in corso al Mount Sinai Brooklyn Hospital – esce dalla sua abitazione all’angolo tra Flatbush avenue e Cortelyou road e inizia il suo jogging di cinque miglia verso nord sulla Flatbush. Supera il giardino botanico, la Grand Army plaza e, all’incrocio con Fulton street, piega a sinistra e a nord in direzione del Brooklyn Heights park, dove entra poco dopo. Prima di ripartire decide di fermarsi qualche minuto. Si siede sulla lunga panchina a guardare Manhattan.

A un paio di metri da Gunnar c’è Isaiah. Gunnar spegne il suo lettore MP3, toglie le cuffie. Osserva il panorama dal Brooklyn bridge a Battery park e oltre, fino a Liberty Island. Isaiah segue lentamente con lo sguardo la linea spezzata che nel cielo disegna la massa di cemento, vetro e granito dei grattacieli da Battery park verso il ponte. Ora i due sguardi s’incontrano.

G. È strana questa città; sembra un’isola e non lo è, mi ricorda Stoccolma.

I. Sei di origine svedese?

G. Sono svedese. Sono a New York temporaneamente, per lavoro.

I. Di cosa ti occupi?

G. Sono un medico. Sto svolgendo una fellowship in medicina intensiva al Mount Sinai di Brooklyn. Abito abbastanza vicino all’ospedale e vengo spesso qui quando faccio jogging. Mi chiamo Gunnar Øksendal.

I. Piacere di conoscerti. Il mio nome è Isaiah. Isaiah ben Bezalel. Sono rabbino. Anche io vengo spesso qui. Per pensare. Mi portava qui il sabato mio padre fin da quando ero bambino.

G. Il tuo non è un cognome anglosassone.

I. La mia famiglia è originaria della Galizia, un villaggio al confine tra Bioelorussia e Ucraina. Uno “shtetl”, come diciamo noi in yiddish. Mio padre, all’epoca un ragazzo, arrivò negli Stati Uniti nel 1940 con una delle due sorelle.

Isaiah e Gunnar si fissano in silenzio per alcuni istanti. Poi Isaiah inizia a parlare di nuovo.

I. Non hai occhi sereni, dottore.

G. Cosa vuoi dire precisamente?

I. Scusami, non volevo essere invadente.

G. Al contrario, parla pure liberamente.

I. Non so, per un momento mi è sembrato di leggere nel tuo sguardo un’ombra di fatica.

G. Questi ultimi quindici giorni di lavoro sono stati più impegnativi del solito. Un caso clinico particolarmente complesso che ha assorbito gran parte delle mie energie. E non solo le mie. Con implicazioni umane coinvolgenti.

I. Una storia allora, più che un caso. E la persona sta bene ora?

G. Forse sarebbe meglio dire una storia,, anche se, a ben vedere, non originale. No, il paziente è morto. Una leucemia insorta all’improvviso e una gravissima infezione che poi si è complicata con un’insufficienza cardiaca altrettanto grave. Un uomo di sessantacinque anni con una vita travagliata alle spalle. Recentemente aveva iniziato un rapporto affettivo molto intenso con una donna di poco più giovane. Anche lei una vita non semplice. Entrambi avevano deciso di puntare tutte le loro chance su questa unione pensando che fosse un’occasione insperata, una specie di ultima spiaggia. L’inizio era stato difficile ma, consapevoli dei propri limiti e dei precedenti fallimenti, alla fine erano riusciti a essere molto felici insieme. Poi la malattia e la morte. In uno degli ultimi colloqui la donna mi disse che quell’uomo era stato in grado di far emergere in lei un sentimento che non aveva mai provato prima, talmente profondo da riempirle completamente la vita rendendola così felice… esattamente così mi disse… così felice! Un sentimento che si dispiegava, per la prima volta, in modo sereno e senza riserve o paure perché fondato sulla consapevolezza di potersi abbandonare totalmente all’altra persona, con fiducia, anzi, sentendosene rassicurata e accudita. La certezza, intimamente maturata da entrambe, che nessuno dei due sarebbe stato più lasciato solo. Così, si erano sposati. Una cerimonia assai semplice che nel ricordo di lei fu piena di calore, affetto e partecipazione. Invece quest’uomo è morto, la strada percorsa da queste due persone si è interrotta all’improvviso. Le loro speranze, la loro ultima scommessa, ogni cosa irrimediabilmente perduta. Da giorni, per la prima volta nella mia carriera, mi sto chiedendo che senso ha tutto questo. Ma ti sto annoiando, scusami.

I. Continua invece. M’interessa molto ascoltarti.

G. Vorrei aggiungere che la mia frustrazione è ulteriormente amplificata dal fatto che in questo caso abbiamo insistito con i trattamenti ben oltre il limite, prolungando l’agonia di quest’uomo per giorni, e, pur sapendo che non vi era più nulla da fare, abbiamo alimentato false speranze nella donna, per poi obbligarla addirittura a invocare la morte del suo compagno purché si concludesse lo strazio. Capisci cosa voglio dire? Dov’è il senso di tutto questo?

I. Dottore, non credi che “tutto questo”, come lo chiami tu, in realtà, non dovrebbe interessarti?

G. Probabilmente no, se la mia funzione di medico fosse solo curare, seppure molto bene, uno o più organi. Come d’altronde ho fatto finora. Oggi mi chiedo però se il nostro lavoro non dovrebbe invece servire a permettere alle persone di portare a termine il proprio progetto di vita, quando questo s’interrompe per via di una malattia. E se così è, com’è possibile allora, con il nostro lavoro, supportare il progetto di vita di una persona malata senza anche conoscere, ascoltare, entrare, sia pure con grande discrezione, nelle pieghe dell’esistenza di tutti coloro che, da malati, abbiamo conosciuto e conosceremo?

I. Dottore, tu credi in Dio?

G. Non ho la fede, se è questo che vuoi sapere.

I. Tuttavia, mi pare di capire che neppure la scienza è riuscita a fornirti aiuto in questa occasione.

G. La scienza? Nel mio caso preferisco parlare della medicina, che non è esattamente ciò che intendiamo per scienza, anche se credo che, in generale, l’utilità di entrambe coincida. Penso che la scienza serva a scoprire, per mezzo del ragionamento basato sull’osservazione, ciò che accade nel mondo, quindi le leggi che connettono questi accadimenti, e, in ultimo, le leggi che rendono possibile la previsione di altri, futuri accadimenti. Ecco, la medicina fa la stessa cosa. Cerca di comprendere la patogenesi, come ciò che accade nel corpo altera le leggi della fisiologia facendole funzionare in un modo diverso, quello della patologia. Quest’ultima, a sua volta, permette di dare un nome alla malattia: la diagnosi. Infine, riconosciuto il modo diverso in cui queste leggi hanno preso a operare e dato un nome alla malattia, definire quali potranno essere gli accadimenti futuri, gli esiti: ciò che noi chiamiamo “prognosi”. Con un approccio più teoretico, disvelare la verità, l’apparire o il manifestarsi delle cose – alètheia, come la definiva Aristotele; ma anche “ciò che non può stare altrimenti di come sta e si manifesta”. Questo “stare” in modo assoluto è l’epistème, appunto lo “stare” che s’impone “su” ogni forza che voglia negarlo: in sintesi, l’incontrovertibile, cioè come le cose stanno realmente. Parmenide dice che il cuore della verità non trema. Ma gli uomini, invece, tremano di fronte alla sofferenza e alla morte, perché l’essere esposti al poter essere altro da ciò che si è, rappresenta l’incertezza del pensiero. Platone e Aristotele chiamano thàuma questa incertezza e da essa, fanno nascere la filosofia: l’intelletto, per salvarsi, ricerca il “cuore non tremante della verità”. Tornando alla medicina, questo discorso trova un’applicazione efficace nella cosiddetta “medicina basata sulle evidenze”: ne hai mai sentito parlare?

I. Sì, me ne ha parlato qualche volta il dottor Sprung, il mio medico. Mi ero stupito esistesse un’espressione del genere…

G. Disvelare la verità (alètheia) – l’esperienza del medico. Poi, riconoscere ciò che s’impone su ogni forza che voglia negarlo, l’epistème, insomma, le evidenze scientifiche. In ultimo il thàuma, il tremito che coglie gli uomini di fronte al dolore e alla morte, la speciale lente attraverso la quale la persona malata guarda a sé stessa e al mondo che la circonda e lo interroga e sceglie, con “il cuore che trema”, ciò che spera sia il meglio commisurato a sé. Se la medicina potesse proporzionare caso per caso ciò che alètheia e epistème suggeriscono come la miglior scelta in assoluto sulla base di ciò che la persona malata invece sceglie come il meglio per sé ragionando a partire dal thàuma, allora potremmo dire che la proporzione stessa è il lògos della medicina. Legata a questo aspetto teoretico e metodologico della medicina, è andata sviluppandosi la tecnologia che però usa la conoscenza scientifica per spostare continuamente il confine tra la vita e la morte, permettendo all’uomo – cosa del tutto nuova – di intervenire sulla propria natura. È così che, in opposizione al principio della proporzione, si è sviluppato il lato in ombra, l’altro principio che abita l’animo umano: quello della forza. Il curare e il prendersi cura, entrambi espressione di una relazione umana di confine in cui una persona s’impegna intenzionalmente e chiaramente a promuovere il benessere di un’altra, si riducono all’esercizio della forza tramite il quale il termine “benessere” perde il senso profondo del legame alla misura del possibile, alla sua capacità di essere medio proporzionale tra altre grandezze, per spingersi alla ricerca di un assoluto impossibile. Così, nel caso che ti ho descritto, non soltanto la medicina, e con essa la tecnologia, non sono state in grado di garantire a una donna e a un uomo la continuazione del loro progetto di vita, ma hanno anche reificato il corpo dell’uomo essendo divenute preda di una forza cieca che è la vera e propria hybris della medicina moderna. Dunque non la proporzione mirata al vero progresso del genere umano, ma l’esplosione della forza contenuta nella técne finalizzata al suo semplice sviluppo: in una parola, garantire a oltranza la sopravvivenza.

Isaiah accenna un vago sorriso, inspira un po’ più profondamente e si toglie gli occhiali.

I. Mi sembra tu senta di aver fallito su un punto cruciale…

G. Forse. Avremmo dovuto fondare tutto il lavoro sulla consapevolezza che il nostro metodo non è né può essere completo e definitivo. Avremmo dovuto essere più umili e non pretendere di conoscere l’intera verità né pensare che la nostra conoscenza, inevitabilmente parziale, sia interamente vera. Solo dall’intreccio tra fallibilità e tolleranza verso l’incertezza può scaturire la capacità di ascolto necessaria a far emergere la voce dell’altro per includerla nel progetto di cura. È qui, sul confine delicato dove l’incompletezza della scienza smette di essere un concetto per concretizzarsi nell’agire un corpo malato, che abbiamo perso la nostra battaglia. Forse irrimediabilmente.

Quindi, a farla breve, oggi mi trovo in un prestigioso ospedale americano per una fellowship fondamentale per il mio lavoro e a considerare, nello stesso tempo, che non riesco a rispondere alle mie domande. Le risposte che ho trovato finora servono solo a sollevare un’intera serie di nuove domande. In qualche modo sento di essere più confuso che mai, anche se credo di essere confuso a un livello superiore e su cose più importanti.

Il rabbino estrae da una tasca un fazzoletto e inizia a pulire le lenti. Piano, con metodo. Prima il centro poi i bordi. Quindi, guardando le lenti in controluce, inizia a parlare.

I. Quando ero bambino e il sabato venivo qui con mio padre, ci mettevamo proprio su questa panchina. Lui si sedeva dove sono io ora e io al tuo posto. Mi raccontava dello shtetl di Davyd Haradok, il villaggio dove era nato e dove aveva trascorso tutta la sua vita fino all’adolescenza. Della scuola tenuta dal rabbino presso la sinagoga, dove ai bambini venivano impartiti i primi rudimenti del Talmud, dei bagni d’estate nel fiume Horyn, delle notti di Pesach con la tavola imbandita alla luce delle candele e il vento dolce della primavera che entrava dalla finestra. Agli inizi del 1940, quando gli ebrei capirono che bisognava solo rassegnarsi o fuggire, lo zio di mio padre, un sarto, venne a stare per alcuni giorni a casa nostra da Minsk, dove risiedeva con la moglie, ufficialmente per salutare il fratello e i vecchi genitori, che all’epoca vivevano insieme nella stessa casa. La vera ragione della sua visita era però connessa a un piano di fuga, messo poi in atto di lì a un mese, che lo zio volle proporre ai suoi parenti. I miei nonni non si sentirono di abbandonare la loro casa e i loro vecchi, e decisero di rimanere. Con loro rimase anche la sorella grande di mio padre, che non ne volle sentir parlare di abbandonare i genitori. Mio padre e la sorella più piccola, allora poco più che adolescenti, furono invece accompagnati a Minsk due giorni prima della partenza e definitivamente affidati agli zii. Da qui, i quattro – gli zii non avevano figli – riuscirono, a prezzo di quasi tutti i risparmi accumulati in una vita di lavoro, ad attraversare il territorio lituano con documenti falsi e arrivare in Svezia ospiti di amici nella sinagoga grande di Stoccolma assieme a altre centinaia di rifugiati, finché non riuscirono a passare in Inghilterra e di lì a New York.

Il 10 agosto 1941, unità di Einsatzgruppen entrarono in Davyd Haradok. All’epoca più di un terzo della popolazione totale era costituito da ebrei, circa 4500 persone. Tremila di essi furono assassinati nello stesso giorno in un’esecuzione di massa. Tutti gli anziani furono uccisi subito mentre i miei nonni e la loro figlia più grande, rimasta con loro, furono imprigionati in un ghetto e adibiti ai lavori forzati. Il 10 settembre 1942, gli abitanti del ghetto, in gran maggioranza donne e bambini, furono definitivamente eliminati.

Isaiah smette di parlare. Senza accorgersene, si è irrigidito. Guarda le sue mani raccolte in grembo e poste una nell’altra. Solleva la testa ora, la gira lentamente verso Gunnar e ricomincia a parlare.

I. La Shoah riguarda certamente la coscienza di tutti gli uomini occidentali, ma in particolare quella di noi ebrei perché secondo la religione dei patriarchi e dei profeti, Dio, stipulando l’Alleanza con Abramo, riconobbe nel popolo ebraico il “popolo eletto”. Così, dopo la Shoah, molti hanno cercato di dare una risposta alle domande tremende che questo evento indicibile ha suscitato. Dov’era il Dio che promise di proteggere Israele e non la protesse? Cosa ha fatto Israele per meritare una simile tragedia e a cosa sono servite le sue preghiere? Queste due questioni, relative al rapporto tra Dio e l’uomo, mettono in discussione il significato più intimo della cultura ebraica, ma si allargano a coinvolgere e interpellare tutti gli uomini. Generano dubbi che squassano la natura stessa della fede, di qualsiasi fede, dubbi potenti sulla possibilità di alzare ancora lo sguardo verso il Cielo per benedire il nome del Signore. Il Male che nella Bibbia si accanisce su una singola figura, quella di Giobbe, è divenuto, con la Shoah, banale e di massa, come disse Hannah Arendt, riguardando sei milioni di esseri umani e ponendo la necessità di trovare risposte soddisfacenti al “silenzio di Dio” e all’assurdità di tutto ciò che la Shoah ha rappresentato. Conosci Hans Jonas?

G. Sì, dimmi.

I. Per spiegare la Shoah, Hans Jonas concepì l’atto originario e creativo di Dio come ritrazione dal mondo stesso, come rinuncia alla sua onnipotenza, lasciando che l’uomo potesse agire e sviluppare la sua esistenza in maniera libera, indipendente e responsabile. Dio non ha più nulla da dare: ora tocca all’uomo dare. Questa interpretazione fornisce una lettura non solo della Shoah, ma anche di tutta la storia dell’uomo percorsa dalle sofferenze, dal male, dall’ingiustizia. Dio, di fronte alla Shoah è muto, e non è intervenuto a impedire la tragedia perché si aprisse la strada alla responsabilità umana nei confronti del male. Emerge, così, una nuova idea di un Dio “debole”, che smette di essere Padre o Alleato per divenire “compagno” dell’uomo. La questione della Shoah si sposta allora dal cielo alla terra, da Dio, e dal suo silenzio, agli uomini e al loro vociare, da quanto accaduto ieri a quanto accade oggi. È una questione di responsabilità che riguarda direttamente la libertà umana. Perché responsabile è ogni azione compiuta volontariamente e in piena coscienza in una condizione che consenta di passare liberamente dall’intenzione all’atto. Ma responsabilità è anche la possibilità di prevedere gli effetti delle nostre azioni modificandole in base alle nostre previsioni. Esiste quindi una responsabilità che riguarda le parole che usiamo, i gesti che compiamo e su, su fino alla responsabilità del male che scegliamo o non scegliamo di compiere prevedendone gli effetti. In questa nuova visione di un Dio debole perché compagno dell’uomo e di un uomo debole perché non solo alberga in sé il male ma lo sceglie consapevolmente, viene però meno la possibilità di un discorso sulla giustizia in grado di rendere conto del male del mondo che, nelle coscienze degli uomini occidentali, ha operato instillando non il dubbio, ma l’incredulità, non la negazione, ma il distacco. Cosa infatti è rimasto oggi di questa discussione sul silenzio di Dio? Cosa è rimasto dei nostri morti? A giudicare da ciò che si vede nel mondo, ben poco. E non si può certo dire che il male del mondo ancora oggi non sia scelto consapevolmente. Mi riferisco qui non solo all’incessante susseguirsi di guerre e genocidi, ma anche alle scelte economiche, politiche o ecologiche così tanto focalizzate sul “qui e ora” e così poco orientate alla costruzione di una speranza per un mondo migliore. Un ebreo italiano di ritorno da Auschwitz scrisse: “Meditate che questo è stato: Vi comando queste parole. Scolpitele nel vostro cuore…”. Non mi pare che della memoria della Shoah sia rimasto molto, né che quanto rimasto sia di qualche utilità per gli uomini. Inoltre, Gunnar, considerata sul piano sociale, la religione è un fenomeno molto più complesso e antico della tua scienza. Ciascuna delle grandi religioni ha tre aspetti fondamentali: una struttura gerarchica; una fede; un codice di etica individuale. Temo che proprio questa architettura così complessa, ancora fortemente ancorata a una visione temporale che sembra irrinunciabile per giustificare una convinzione teologica, finisca per contribuire a generare due gravi problemi. Da un lato essa svia la riflessione dalla grande novità che la Shoah ha posto agli occhi degli uomini riguardo all’esistenza di Dio e alla nuova visione che almeno noi credenti dovremmo avere di Lui o che dovremmo continuare a ricercare, dall’altro lato indebolisce il nesso che esiste tra responsabilità e speranza. Perché solo la speranza apre al futuro e ci obbliga concretamente a pensare alle conseguenze attuali e future delle nostre azioni e a ricercare quello che oggi sembra impossibile. La responsabilità dovrebbe allora essere anche quella non solo di non spegnere in noi la speranza, ma anche quella di non spegnerla negli altri. Perché la speranza vive di comunione, che è a sua volta fragile ed esposta alla banalità della vita e del male.

G. Quindi, a te sembra che tra la mia storia e la tua, tra scienza e fede, vi sia qualcosa in comune?

I. Io credo che fede e scienza, se volessero davvero aiutare ancora l’uomo, dovrebbero rinunciare alla loro supposta onnipotenza, come Jonas dice che Dio fece nel momento della creazione. La fede non dovrebbe avere la pretesa di incarnare una verità eterna e assolutamente certa né ritenere di avere il monopolio del riscatto dalle sofferenze dell’umanità, fondando contraddittoriamente questi assunti da un lato su una visione ancorata al potere temporale e dall’altro definendo ancora in modo dogmatico gli scopi della vita umana. La scienza, per parte sua, se volesse definirsi davvero progredita, dovrebbe riconoscere una volta per tutte che il suo metodo è logicamente incapace di portare a dimostrazioni complete, esaustive e definitive, resistendo sia alla tentazione di spiegare l’universo e l’uomo soltanto attraverso sé stessa, sia a trasformarsi in pura tecnica ed essere così asservita al potere dei più forti. Ecco, se anche fede e scienza denunciassero i loro conflitti di interesse e si accordassero per fare spazio all’uomo dichiarandosene “compagne” e non Madri sante o Alleate, allora gli esseri umani imparerebbero che nulla è mai veramente al riparo dalla sorte, comprenderebbero l’importanza del senso della proporzione e forse non sarebbero più affascinati dalla forza. Ma per dirla con Simone Weil: “È dubbio che ciò sia prossimo ad accadere”.

Così, caro Gunnar, come vedi, anche io sono confuso e non posso fare altro che chiedere alla sentinella che è in me: “Sentinella, a che punto è la notte?”, ma la risposta è sempre la stessa: “Viene la mattina, e viene anche la notte. Se vuoi interroga pure e torna a interrogare ancora”.

Isaiah e Gunnar si alzano, si avvicinano alla ringhiera davanti alla panchina. Guardano ancora una volta Manhattan. Prima di salutarsi, Isaiah si aggiusta il Tallit sulle spalle e, rivolto al cielo, recita un passo della Bereshit Rabbà:

Il chiasso di tre cose

va per il mondo sopra oceani, nevi,

terre di siccità e risaie:

e nessuna membrana dell’udito

lo cattura, il chiasso di tre cose.

Il chiasso del sole che va per il cielo,

il chiasso della pioggia

quando il vento la stacca dalle nuvole,

il chiasso dell’anima

da un corpo che la sputa.