Dalla letteratura

La buona educazione del medico in Rete

Buone maniere e rispetto sono merce rara, di questi tempi: prevalgono insulti e panze nude. Nei parlamenti improvvisati sulla spiaggia e in Rete.

Tra le tante cose belle regalate – o quasi – da internet c’è l’opportunità di imparare da persone lontane, talvolta sconosciute oppure talmente note da apparire irragiungibili. Una di queste persone “di un altro pianeta” è Eric Topol, noto da qualche decina di anni come “principale ricercatore” in studi molto importanti in campo cardiovascolare e poi diventato “evangelista” dell’innovazione utile. Topol è una persona di rara signorilità, capace di trovare sempre il tempo per rispondere alle domande che timidamente gli vengono rivolte. Il suo garbo traspare dalla sua presenza su Twitter, il social media che usa con più assiduità, con l’obiettivo principale di migliorare come medico e come persona, grazie allo studio a cui personalmente si dedica e grazie all’impegno e alla buona volontà di altri che fanno lo stesso e condividono letture e riflessioni. Topol ha riepilogato in dieci punti il perché e il come della sua presenza in Rete.

Ha scritto Topol in una serie di tweet: “As I approach a decade on @twitter, some things I’ve learned for it’s utility for science and medicine:

1. By using allmytweets.net (exported as a PDF format), I can usually find any article I’ve cited, searching a word or hashtag. So tweeting became my 1° archival method.

2. In contrast to concerns about copyright infringement, journals like to have their article contents posted @twitter. It’s equivalent to @readcube, since it doesn’t provide the PDF. And it really helps people who don’t have access, dealing w/ the paywalls.

3. Live @twitter feedback makes your presentations better. You learn what points resonate, and those which engender confusion or consternation. A lot more specific and useful than the generic, customary “enjoyed your talk”.

4. As people scroll thru their twitter feed, they want to go quickly. One method often used is to highlight a single sentence. I like to highlight the whole or major portions of a piece to preserve its context, and useful when I refer back to it.

5. I probably tweet too much (“twitterorhea”), but I’m just sharing what I read and it’s the best way I have to archive stuff. And if we all shared what we read (that was interesting), we’d get smarter faster.

6. Can never underestimate the value of humor. I curate cartoons and it never ceases to amaze me how popular they can be compared to what I think is a really important science contribution.

7. Every one of the >20K tweets I’ve posted comes from me. I view any ghost-tweeting as similar to ghost-writing—unacceptable.

8. A few more to add:

9. When linking a paper, it’s worth the time to find & cite the author(s) or journalist twitter handles. They’re doing the heavy lifting and ought to be acknowledged. And @twitter should make it easier to find people in #sciencetwitter #medtwitter.

10. A key driver of @altmetric is @twitter, and this metric of how much attention a paper attracts is increasingly being recognized as important in academics. The case for authors to be on @twitter, post threads of their work, respond to #SoMe critique, is gaining traction.

11. If you’re on @Twitter and posting, your identity is shaped by what you write. Critique and exchange of ideas are vital. This can and should always be done collegially, with respect. Otherwise you get muted, look bad, or both.




A partire da questo genere di decalogo si può arrivare a conclusioni diverse. Spesso il nostro bias di conferma può addirittura spingerci a travisare il pensiero di chi scrive per riaffermare le proprie convinzioni. Traspare dai punti di Topol una sete di conoscenza che raramente troviamo in una persona del suo livello di competenza e di notorietà. Ancora, si vede una grande considerazione nei confronti di chi produce conoscenze cui attingere (vedi la cautela con cui considera i problemi di copyright) e la gratitudine nei confronti di chi in ogni modo partecipa all’atto di condivisione in Rete con commenti e riflessioni (bella la considerazione sull’apprendimento attraverso l’analisi dei riscontri alle proprie presentazioni). Ancora, l’attenzione per l’interazione con chi legge e, a sua volta, è letto. Il tutto prendendosi sul serio ma non rinunciando alla leggerezza che un cartoon può regalare.

Scrivendo, leggendo e rispondendo sempre in prima persona e senza aiutanti: i fantasmi su Twitter fanno gli stessi danni di quelli che scrivono per gli autori sulle riviste scientifiche per le industrie farmaceutiche. Infine, specificando che se proprio fosse necessaria una metrica per approssimare un “valore” alla produzione accademica, ebbene lo strumento sarebbe Altmetric e non, per esempio, lo h-index o – forse ancora più improprio – l’impact factor personale costruito a partire da quello delle riviste sulle quali vengono pubblicati gli articoli.

“La critica e lo scambio di idee sono essenziali”, scrive Topol, “e possono e devono sempre essere svolti con rispetto”. Parola che va davvero poco di moda nel nostro stanco Paese.

Rebecca De Fiore




Società e associazioni scientifiche: è possibile un modo diverso di stare insieme?

“In privato, i medici si mostrano davvero prostrati per le loro assurde condizioni di lavoro e la compromissione della relazione col malato. Ma non ci sono state manifestazioni a Washington, né picchetti, né campagne sui social media. Perché? Perché i medici non si fanno sentire a tutela propria e dei loro pazienti?”1.

È la prima volta che Eric Topol scrive sul New Yorker e ha scelto un argomento insidioso che, se non fosse per l’indiscusso credito di cui gode nel suo paese, avrebbe potuto provocargli qualche guaio: la medicina e la sanità, dice Topol, attraversano anni di grande cambiamento ma la voce dei medici si sente poco, nonostante il loro ruolo sia sempre più importante. Dopo tutto, il cambiamento climatico ha un impatto grave sulla salute, l’invecchiamento della popolazione e i flussi di migranti possono modificare il quadro epidemiologico delle nazioni del primo mondo, le questioni legate alla sanità hanno uno spazio importante nell’agenda della politica statunitense: eppure sembra che tutto questo riguardi solo una minoranza dei medici americani.

“In teoria, i medici potrebbero esprimere una forza potente. Ci sono più di un milione di medici negli Stati Uniti e circa novecentomila sono attivi nella professione. Ma la più grande organizzazione medica del paese, l’American Medical Association (AMA), ha solo circa duecentocinquantamila iscritti. La seconda, l’American College of Physicians, che rappresenta gli specialisti in medicina interna, ne ha circa centosessantamila. La maggior parte delle società più piccole rappresenta una sotto-specialità e ha un numero di iscritti proporzionalmente inferiore. Un tempo, l’AMA rappresentava i tre quarti di tutti i medici americani; la crescita delle società sub-specialistiche potrebbe aver contribuito al decremento di associati. In ogni caso, non esiste un’unica organizzazione che unifica tutti i medici. La professione è balcanizzata.”

Non solo, ma le priorità delle associazioni professionali mediche non solo non coincidono ma sono spesso in contrasto con quelle dei cittadini. Facendo riferimento all’esperienza avuta con l’American College of Cardiology, Topol sostiene che le società scientifiche statunitensi sono di fatto degli organismi a difesa degli interessi economici e corporativi dei medici che rappresentano.

Per mantenere gli onerosi carrozzoni organizzativi – dagli organismi centrali a quelli periferici, dalle sedi nazionali a quelle regionali, le attività congressuali e editoriali – le società scientifiche scendono a patti con il diavolo accettando di prestare nome e marchio per pubblicizzare prodotti di dubbio valore. Oltre a riflettere sugli esempi citati da Topol, possiamo guardare quel che accade nel nostro paese. Dalla Società italiana di urologia che premia i due migliori lavori originali e inediti che contribuiscano allo sviluppo delle conoscenze sull’efficacia di un prodotto nei sintomi dell’incontinenza da stress e da urgenza (parliamo di un integratore alimentare di vitamina C e vitamina D con glutammina, resveratrolo ed estratti vegetali di zucca e peperoncino) ad associazioni di cardiologi che sostengono i programmi di marketing di Philip Morris per promuovere anche nel nostro paese le sigarette a tabacco riscaldato.

La leggerezza con cui alcune organizzazioni professionali cedono alla tentazione di accettare denaro in cambio di prestazioni è solo uno degli aspetti critici. Quello forse più rilevante riguarda l’interpretazione del ruolo di rappresentanza nel confronto più generale sulle politiche sanitarie. Come ha fatto rilevare Jerry Kassirer ormai quasi quindici anni fa2, un organismo come l’AMA ha quasi sempre avuto una posizione conservatrice e attenta soprattutto “a mantenere il potere politico e i livello di reddito dei propri iscritti”. Dal 1920 in avanti, è sempre stata contraria alla copertura sanitaria universale e alla gestione pubblica dell’assistenza sanitaria, contrastando sistematicamente la “political medicine” e la “socialized medicine”, fino ad arrivare a opporsi prima al progetto Medicare e poi ai piani sanitari di Bill Clinton con un’intensa azione di lobbying.

I legami delle società scientifiche con le industrie sono noti e il primo passo dovrebbe essere interrompere il flusso di denaro dalle aziende alle associazioni3. Ma il problema è più generale. “È possibile immaginare una nuova organizzazione di medici che non abbia nulla a che fare con il business della medicina e che abbia a cuore la promozione della salute dei pazienti, affrontando con intelligenza le sfide che attendono la professione. Un’associazione che non avrebbe una funzione di protezione corporativa di interessi ma che sarebbe dedicata ai pazienti. La sua massima priorità potrebbe essere il recupero del fattore umano – l’essenza della medicina – che è andato perduto, portando con sé la relazione tra il malato e il medico. Potrebbe opporsi alle posizioni degli anti vaccinisti, contrastare i prezzi dei farmaci e le pubblicità dirette al consumatore, denunciare le strutture che propongono terapie con cellule staminali non regolamentate, promuovere la consapevolezza dei rischi per la salute che comportano i cambiamenti climatici e denunciare i messaggi fraudolenti di celebrità come Gwyneth Paltrow e Mehmet Oz. È un elenco parziale ma dà un’idea di quante questioni importanti non siano state affrontate dalle organizzazioni che rappresentano i medici”1.

Il panorama delineato da Topol è forse troppo negativo: in Italia non sono mancate iniziative importanti da parte di società scientifiche, ordini professionali e gruppi di lavoro sia per condurre attività di ricerca indipendente (per esempio la Fondazione GIMEMA in ematologia o il GIVITI in terapia intensiva), sia di advocacy politico-sanitaria [a questo riguardo, FNOMCeO è costantemente attenta a richiamare l’attenzione sull’imperativo etico e deontologico di tutelare i diritti dei migranti in viaggio verso l’Itala e ha incluso nel proprio programma formative anche il corso a distanza gratuito “Salute e migrazione: curare e prendersi cura”, realizzato in collaborazione con l’Osservatorio nazionale per la salute]. Appaiono però come episodi isolati in un contesto prevalentemente orientato a incentivare la medicina industriale. Cosa fare? Serve un cambiamento radicale, una “rivoluzione”, come sostiene Victor Montori4. Se è vero che i determinanti di salute e malattia sono soprattutto di ordine non sanitario (reddito, lavoro, stress, trasporti, supporto sociale, ecc.), sarebbe giustificato che l’attenzione dei medici – come degli altri professionisti sanitari – si rivolgesse anche agli aspetti economici, affettivi, relazionali, ambientali che segnano la vita delle persone che hanno in cura. Potrebbero farlo unendo le forze in organizzazioni trasversali alle discipline mediche o agli interessi specialistici, che non siano finalizzate ad accomodare i risultati dei concorsi o ad assecondare le ambizioni di carriera degli iscritti.




Saranno le nuove generazioni di medici a innescare il cambiamento? “Il futuro secondo @EricTopol – scrive Salvo Fedele in un post che ha provato a stimolare l’attenzione italiana su questi argomenti – è della nuova generazione di medici? Certamente è vero, ma sono davvero diversi da noi? Più disposti alla rivolta? E il cambiamento è nella mani della loro padronanza delle piattaforme digitali? O anche in questo la nostra realtà è molto diversa?”5.

Quello della medicina è un ambiente strano, in cui non vale quella famosa legge per la quale si è rivoluzionari a 18 o 20 anni e poi si diventa via via liberali, conservatori e reazionari. Anzi, è il contrario, e in molti si scoprono radicali al momento di andare in pensione, dopo essersi serviti dell’industria per farsi la villa al mare e delle amicizie accademiche giuste per garantirsi il progresso di carriera. Tanto più la rivoluzione serve, eccome se serve, iniziando da un capovolgimento dei valori che motivano alla scelta professionale. E sarebbe meglio, oltre che bello, se a ribellarsi tornassero ad essere i più giovani.

Bibliografia

1. Topol E. Why doctors should organize. The Newyorker 2019; 5 agosto.

2. Kassirer J. On the take. New York: Oxford University Press, 2005.

3. Angell M. The truth about the drug companies. New York: Random House, 2004.

4. Montori V. Perché ci ribelliamo. Roma: Il Pensiero Scientifico Editore, 2018.

5. Fedele S. Riflessioni su un saggio di Eric Topol. Medium 2019; 10 agosto.

Fabio Ambrosino

Psicologi e conflitti di interesse

Ogni anno in Italia si svolgono più di 1.200 festival culturali: c’è quello della letteratura a Mantova e delle letterature a Roma e quello della filosofia, della mente e della complessità. Del giornalismo, del giornalismo tv e dei nuovi media e di quello alimentare. Ci sono festival legati a progetti culturali espliciti come le giornate del settimanale Internazionale a Ferrara. Ma anche occasioni ancora più originali come il prolungato Popsophia, in diverse località delle Marche che precede di poco quello della filosofia.

Non è chiaro come si regga, economicamente, questo genere di imprese, ma può rivelarsi un investimento per le amministrazioni locali e per gli sponsor. Chi di sicuro può guadagnare sono i relatori invitati, perché quasi sempre partecipano senza percepire un compenso ma la visibilità ottenuta sostiene le vendite dei loro libri e non solo. Nessuno dichiara conflitti d’interessi di natura economica anche se c’è una correlazione diretta tra la capacità di seduzione dei loro interventi e i guadagni da diritti d’autore. Ma c’è un’altra questione, ancora più intrigante, che inizia ad attrarre l’attenzione.

Money is the opposite of the weather. Nobody talks about it, but everybody does something about it. Rebecca Johnson

Immaginiamo che uno studioso di psicologia inizi ad interessarsi di un fenomeno nuovo, per esempio la fissazione di molti ragazzini di produrre e pubblicare dei video su TikTok. C’è chi la considera una moda passeggera ma qualche genitore inizia a preoccuparsi. Mettiamo allora che quello stesso psicologo decida di andare oltre l’attività di ricerca e immaginiamo non lavori nel servizio sanitario pubblico ma in un istituto privato, una struttura sanitaria convenzionata per esempio. Niente di più facile di aprire un ambulatorio per “curare” i ragazzini fissati col TikTok: con un ufficio pubbliche relazioni efficiente ne parlerebbero tutti i media e in breve la domanda di consulenze e prestazioni sarebbe altissima. Seguirebbero libri sulla “sindrome da TikTok”, conferenze in giro per l’Italia, comparsate televisive e – a chiudere il cerchio – serate ai festival a raccontare quella che è stata definita “la piattaforma del narcisismo a oltranza”.

Il confine tra disease mongering e capacità di prevedere il potenziale di rischio di nuove mode è molto sottile.

Se da noi non ne parla nessuno, per fortuna ci sono riviste come Nature che tirano fuori il problema1, a iniziare da quello che è avvenuto con la iGeneration (o iGen): così sono stati definiti i post-millennial da Jean Twenge, psicologa alla San Diego State University in California, che studia chi è nato dopo la metà degli anni ’90, la smartphone generation ossessionata da YouTube e che trascorre gran parte del proprio tempo su Instagram, Snapchat e altre piattaforme di social media. Grazie agli smartphone e alle app di condivisione, la iGen pare sia diventata più narcisista, ansiosa e depressa rispetto alle generazioni più anziane, sostiene. “E nel 2010 – spiega l’articolo su Nature – ha avviato un’attività, iGen Consulting, per consigliare le aziende e le organizzazioni in merito alle differenze generazionali in base alla propria esperienza e ricerca sull’argomento”. Twenge ha fatto consulenze a PepsiCo, McGraw-Hill, Genera, Nielsen Media e Bain Consulting, con un’offerta che va dai briefing di 20 minuti ai seminari di mezza giornata. “Disponibile a parlare con gruppi di genitori, organizzazioni no profit e istituti scolastici.”

Sugli articoli scientifici pubblicati a firma di Twenge non c’è traccia di queste attività, nonostante tutte le linee guida editoriali sui conflitti di interessi raccomandino di segnalare qualsiasi collaborazione o consulenza svolta. Paradossalmente, anche le collaborazioni prestate a titolo gratuito dovrebbero essere segnalate, in quanto pure in assenza di un compenso economico potrebbero innescarsi delle dinamiche di riconoscenza. Secondo gli autori dell’articolo uscito su Nature è un’abitudine comune nel campo della psicologia, al punto che c’è chi sostiene che le regole (peraltro molto spesso disattese) sui conflitti di interesse in medicina non dovrebbero valere per chi si occupa di psicologia: non è scontato che ricevendo incarichi o consulenze da aziende determini un conflitto di interessi, dice Steven Pinker, noto autore e docente della Harvard University di Cambridge, nel Massachusetts, anche lui a disposizione per conferenze e consulenze. A pagamento, s’intende.




Non che la ricerca accademica nel campo della psicologia sia immune da problemi: alcuni dei casi più clamorosi di frode o falsificazione hanno visto protagonisti ricercatori di importanti facoltà di psicologia e neuroscienze, e spesso l’obiettivo era proprio quello di enfatizzare risultati modesti (o inesistenti) trasformando gli “studiosi” in autori e conferenzieri di successo, ambìti – oltre che da festival ed editori – anche da aziende private. Conferenzieri come Adam Grant, magari, citato da Nature, che sul proprio sito web dichiara essere il “professore più votato” alla Wharton Business School di Filadelfia in Pennsylvania, e noto soprattutto per gli studi sulla psicologia delle organizzazioni e aziendale, enfant prodige dell’accademia statunitense e relatore presso centinaia di aziende, dalla Credit Suisse alla Goldman Sachs, dalla Merck a Facebook.

Girano bei soldi: tra i ١٠ e i ٢٠ mila dollari di compenso per parlare nelle università e fino a ٤٠ mila per una conferenza in un’azienda. Consultando il web, Nature ha trovato il cachet richiesto dalla Twenge (dai 20 ai 30 mila) e da Grant (ben più alto, beato lui, variando da 100 mila dollari a un milione: ma con quel cognome c’era da aspettarselo). Tutto questo non viene dichiarato o se lo si esplicita – magari in pagine un po’ nascoste dei siti delle riviste online – si sottolinea come i compensi (generici) per conferenze ad aziende (non meglio specificate) non sarebbero correlati all’argomento dei paper pubblicati. Se per raccontare i risultati della tua ricerca ti danno così tanti soldi, possibile tu non abbia neanche la tentazione di enfatizzare qualcosa rendendola – come dire… – più sexy?

Qualunque cifra tu guadagni dovresti dichiararla, dice a Nature Alan Carson, neuropsichiatra dell’Università di Edimburgo, associate editor del Journal of Neurology, Neurosurgery and Psychiatry e componente del comitato editoriale della rivista Brain Injury. Dello stesso parere sono il caporedattore di PLoS OneJoerg Heber (“Tutto ciò che può essere percepito come un conflitto d’interesse dovrebbe essere dichiarato”, compresi i compensi per le conferenze.) e Adam Dunn della Macquarie University di Sidney in Australia, che (giustamente) non si spiega perché le norme dell’International Committee of Journal Medical Editors non possano essere applicate anche all’ambito della ricerca in psicologia, che è davvero un terreno minato.

Sarà anche poco elegante parlare di soldi, ma il rischio è che diventi ancor meno elegante nasconderli.

Bibliografia

1. Stoevenbelt AH, Nuijten MB, Pauli BE, Wicherts J. Avoiding conflicts of interest in awards: assessing the availability of conflicts of interest statements of psychological societies. Nature 2019; 571: 20-3.

Rebecca De Fiore

Revisioni sistematiche in aumento: buone notizie?

Poche cose come la “piramide delle evidenze” sono state rimaneggiate, corrette e integrate negli ultimi vent’anni. Di cosa parliamo? Della gerarchia delle prove che derivano dalla ricerca scientifica: in cima, puntualmente, troviamo le revisioni sistematiche e le meta-analisi (SRMA), sintesi degli studi controllati randomizzati (RCT). Il “gold standard”, come si suol dire, della ricerca e della letteratura scientifica, i documenti sui quali basare la pratica clinica. Un tempo, tanto preziose quanto rare, al punto che molti ricercatori – su tutti chi gravita intorno o all’interno della collaborazione Cochrane – non hanno perso occasione di caldeggiare un aumento del numero di questo tipo di documento1. Sono stati accontentati: il numero delle revisioni e delle meta-analisi è aumentato notevolmente negli ultimi 22 anni, dice uno studio da poco pubblicato su JAMA Internal Medicine2. Risultati che confermano e aggiornano quelli di studi precedenti, coerenti con l’osservazione dell’andamento dell’indicizzazione di documenti in banche dati come Medline/PubMed3.

A cosa è dovuta quella che, a prima vista, appare solo come una “buona notizia”? Probabilmente, dal momento che gli studi controllati randomizzati non sono aumentati con lo stesso ritmo, uno dei motivi può risiedere nell’aver accettato la comunità scientifica di includere nelle revisioni sistematiche anche i risultati di studi osservazionali. Altro possibile driver della crescita è la pressione a pubblicare che grava sui ricercatori di molte nazioni dell’Asia: autori che lavorano in Cina sono oggi responsabili della produzione di oltre un terzo di tutte le meta-analisi pubblicate4 ma i controlli sulla produzione scientifica dei ricercatori di alcune università dell’Estremo oriente non sono sempre adeguatamente rigorosi5. Insomma: i risultati della ricerca offrono un quadro realistico di una situazione che è sotto gli occhi di tutti, anche se lo studio – essendosi basato solo sulla consultazione di PubMed – potrebbe non essere rappresentativo delle complessive, generali tendenze.

Perché siamo di fronte solo in parte a una “buona notizia”? Perché se è vero che le revisioni sistematiche e le meta-analisi – aiutando a sintetizzare e aggiornare la letteratura sono una guida preziosa per orientare le scelte dei professionisti sanitari – è altrettanto vero che la qualità di questi documenti è notevolmente minore rispetto al passato: si stima che solo il 3% di revisioni sistematiche e meta-analisi sia metodologicamente robusta, non ridondante e fornisca utili informazioni cliniche4. Una proporzione sempre crescente di questi documenti apporta un valore aggiunto davvero minimo.

Il lavoro a una revisione sistematica – dalla quale successivamente può originare una meta-analisi – è estremamente lungo e complesso. In uno dei classici manuali della medicina delle prove, Paul Glasziou sosteneva che per completare una revisione occorrono in media 1.139 ore, vale a dire 30 settimane di un ricercatore a tempo pieno. Circa la metà per la preparazione del protocollo e la ricerca delle fonti; 144 ore per l’analisi statistica; 200 ore per la redazione del report e altrettante per la gestione amministrativa del lavoro.

Sempre, ovviamente, che il lavoro sia eseguito a regola d’arte. In caso contrario, non soltanto sarebbe inutile, ma metterebbe a rischio la salute dei pazienti.

Bibliografia

1. Bastian H, Glasziou P, Chalmers I. Seventy-five trials and eleven systematic reviews a day: how will we ever keep up? PLoS Med 2010; 7: e1000326.

2. Niforatos JD, Weaver M, Johansen ME. Assessment of publication trends of systematic reviews and randomized clinical trials, 1995 to 2017. JAMA Intern Med 2019 July 29.

3. Siontis KC, Ioannidis JPA. Replication, duplication, and waste in a quarter million systematic reviews and meta-analyses. Circ Cardiovasc Qual Outcomes 2018; 11: e005212.

4. Ioannidis JPA. The mass production of redundant, misleading, and conflicted systematic reviews and meta-analyses. Milbank Q 2016; 94: 485-514.

5. De Fiore L. Meta-analisi alla cantonese. Dottprof 2014; 13 ottobre. http://dottprof.com/2014/10/meta-analisi-alla-cantonese/

6. Glasziou P, Irwig L, Bain C, Colditz G. Systematic review in health care. Cambridge: Cambridge UP, 2001.

Questa notizia è stata preparata in collaborazione col progetto informativo Torino Medica di OMCeO di Torino.

Sale negli alimenti e resistenza delle industrie

Molti alimenti industriali sono troppo salati e fanno male alla salute. L’impegno per ridurre la quantità di sodio è uno dei pochi segnali di continuità tra l’amministrazione Trump e quella di Obama. Ma alcune aziende non ci pensano proprio a cambiare ricetta…

In risposta agli obiettivi di contenimento della quantità di sodio negli alimenti proposti per il 2016, la Food and Drug Administration ha ricevuto più di 150 commenti, molti dei quali hanno offerto suggerimenti per modifiche e aggiornamenti sul contenuto di sodio dei prodotti alimentari. L’agenzia si è impegnata a comunicare gli obiettivi relativi al sodio aggiornati per varie categorie di alimenti prima della fine del 2019, e l’ex commissario Scott Gottlieb ha sottolineato l’impegno della FDA a sostenere a breve termine la collaborazione volontaria da parte delle industrie e a proseguire il dialogo sulla riduzione di sodio a più lungo termine. Alcune aziende alimentari, tuttavia, sembrano continuare a lavorare contro gli obiettivi federali di riduzione del sodio1. Altre – è il caso della Campbell, quelli della zuppa di Andy Warhol – stanno ingaggiando una lotta colpo su colpo per la denominazione degli ingredienti (cloruro di potassio a loro non va bene…)2.

Poiché abbassare il contenuto di sodio nell’ampia varietà di alimenti industriali e proposti al ristorante è un compito non facile, il rapporto dell’Institute of Medicine prevedeva un impegno graduale e si aspettava correzioni e aggiustamenti e parallelamente una diversa attenzione all’innovazione e alla ricerca. Allo stesso tempo, è impensabile una strategia di questo tipo che non sia accompagnata da un’attività “educazionale” nei confronti dei cittadini. Con l’uscita del nuovo rapporto della National Academy of Sciences, Engeneering, and Medicine (NASEM)3 è diventato più difficile per le industrie far finta di nulla: l’obiettivo istituzionale non è quello di azzerare la presenza di sale negli alimenti, né quello di affidare alle agenzie federali o statali statunitensi un’attività di vigilanza intransigente, ma ottenere una collaborazione ragionevole da parte dell’industria.

La situazione è grave. Secondo un rapporto pubblicato dal Lancet4 “nel 2017 oltre la metà dei decessi correlati alla dieta e i due terzi dei Disability-adjusted life years (attesa di vita corretta per disabilità: DALY) legati alla dieta erano attribuibili a un’elevata assunzione di sodio (3 milioni di morti e 70 milioni di QUALY), basso consumo di cereali integrali (3 milioni di morti e 82 milioni di DALY) e basso consumo di frutta (2 milioni di morti e 65 milioni di DALY).

L’aspetto più ovvio ma spesso trascurato è che una dieta squilibrata o ricca di alimenti poco salutari si associa inevitabilmente alla mancata assunzione di cibi protettivi. Può essere addirittura più importante cosa non mangiamo che le schifezze che sgranocchiamo ogni giorno.

Bibliografia

1. Bottemiller Evich H. Trump push to finish Obama crackdown on salt prompts stealth lobbying. Politico April 12, 2019.

2. The use of an alternate name for potassium chloride in food labeling; draft guidance for industry. https://www.regulations.gov/

3. NASEM. Dietary Reference intakes for sodium and potassium. 2019. https://www.nap.edu/read/25353/chapter/1.

4. Afshin A, Sur PJ, Fay KA, et al. Health effects of dietary risks in 195 countries, 1990-2017: a systematic analysis for the Global Burden of Disease Study 2017. Lancet 2019; 393: 1958-72.

Fabio Ambrosino

Vaccini: se ci facessimo un’iniezione di buona scienza?

Cosa succede se un grande giornalista non specializzato in medicina decide di interessarsi al tema dei vaccini? Succede che possiamo contare su una nuova e chiarissima analisi di una questione che non riguarda soltanto un argomento di sanità pubblica, ma tocca aspetti centrali della vita civile. Douglas Rushkoff si interessa di media, di cultura cyberpunk, di problematiche sociali legate alla circolazione delle informazioni: su questo scrive sul Guardian e su altri media, ma soprattutto in un blog che cura sulla piattaforma Medium.

Douglas si è preso l’herpes zoster e questa sfortunata – e dolorosa – circostanza lo ha obbligato a riflettere sul proprio rapporto con la salute e con le vaccinazioni: “una tra le storie più difficili che abbia mai indagato”, ha ammesso. Ma cosa rende così complicata una faccenda che, dopotutto, sembrerebbe semplicemente una straordinaria opportunità per star meglio in salute1?

Rushkoff ha cercato di parlare con medici che sconsigliano ai genitori e ai pazienti alcune vaccinazioni per timore che il sistema immunitario “si sovraccarichi”. Medici che però, osserva, parlano solo a condizione di mantenere l’anonimato, per evitare di incorrere nelle sanzioni previste anche negli Stati Uniti dagli ordini professionali. Il giornalista precisa che il suo interesse per il parere dei medici no-vax non era dovuto al desiderio di contrapporre pareri diversi, dal momento che non è vero che un giornalismo “equilibrato” debba dare uguale peso a entrambe le parti del dibattito sulla vaccinazione: “Le persone dovrebbero essere immunizzate. Punto. (Almeno, la maggior parte di noi dovrebbe, il più delle volte.)” Insomma, finalmente niente false balance2.

“I vaccini funzionano e, per la maggior parte, i rischi sono infinitesimali” spiega Rushkoff, “ma alcune persone potrebbero effettivamente sperimentare reazioni avverse ai vaccini. Esiste persino un programma nazionale di risarcimento finanziato dal governo statunitense per compensare chi dovesse subire dei danni. Probabilità remote, ma sufficienti per spaventare alcuni genitori e per suggerire ad alcuni medici comportamenti ambigui, al limite – o francamente al di là – dell’etica professionale. “Considerando ogni genitore preoccupato alla stregua di un folle non si fa un favore a chi lavora per diffondere le vaccinazioni” e la chiusura delle pagine no-vax da parte di Facebook fa sì che un numero sempre maggiore di cittadini si rafforzi nella convinzione che su questo argomento operino delle lobbies segrete manovrate dai “poteri forti”: una prova “che l’establishment medico – d’accordo con i big media - sia al lavoro per insabbiare. Avere i censori di Facebook dalla tua parte non è necessariamente una cosa positiva.”

Un problema nel problema è che il genitore sospettoso è molto spesso ricco e indolente, osserva Rushkoff, e leggende metropolitane ampiamente smentite si trasformano in scuse per evitare qualcosa che si ritiene a torto non particolarmente pericoloso e comunque assai scomodo: a nessuno piace fare la fila al centro vaccinale, magari senza potersi sedere e con bambini piccoli aggrappati al collo. “E ai nuovi genitori ansiosi e informati su Internet non piace l’idea di una finanche remota possibilità di reazione allergica ad un vaccino e non conta, per molti, che la probabilità di morire per una malattia infantile altrimenti prevenibile sia molto più alta se a un bambino viene negata una vaccinazione. La loro paura potrebbe non essere logica, ma è una reale reazione emotiva.” Poco importa che portare il bimbo dal pediatra in automobile esponga genitori e figli ad un rischio molto maggiore.

Fortunatamente, tra i pediatri ascoltati da Rushkoff ce ne sono diversi che hanno scelto una strategia basata sul convincimento: toni persuasivi e coinvolgenti, a partire dall’ammissione di un minimo margine di rischio, di gran lunga minore dei benefici. Una flessione nella percentuale di persone vaccinate mette a rischio l’intera comunità: “In un mondo ideale nessuno dovrebbe sopportare le iniezioni, pagare le tasse o fermarsi col rosso al semaforo. Ma vivere in una comunità significa non solo assumersi la responsabilità della propria salute, ma fare scelte difficili per il benessere collettivo. Ed è anche il motivo per cui dobbiamo contribuire di più, non di meno, al lavoro delle istituzioni che fanno ricerca e diffondono raccomandazioni sulle politiche di sanità pubblica”, per migliorare la penetrazione dei messaggi e la loro chiarezza. Talvolta sembra che la società sia stata paralizzata da una reazione avversa (immunitaria?) all’informazione sulle vaccinazioni, riflette ironicamente l’autore, al punto che può apparire normale che la consapevolezza su questi argomenti sia costruita chiacchierando con le amiche durante le lezioni di yoga.

“La nozione di immunità di gruppo potrebbe applicarsi in modo altrettanto convincente alle idee. Farci iniettare un po’ di informazione scientifica corretta ci permetterebbe di esporci ai dubbi degli scettici senza che le nostre risposte provochino un danno.”

Bibliografia

1. Rushkoff D. Why America is playing vaccine roulette. Gen-Medium 2019; 31 luglio. https://gen.medium.com/why-america-is-playing-vaccine-roulette-706c8f230492

2. Offit P. Quando i talk show diventano il palco della disinformazione. Forward 2019; 1: ottobre. http://forward.recentiprogressi.it/numero-11/impariamo-a-difenderci/

Questa notizia è stata preparata in collaborazione col progetto informativo Torino Medica di OMCeO di Torino.