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Una delle organizzazioni che gode di maggior prestigio in ambito sanitario è la Cochrane, una rete di ricercatori (una “collaborazione”, recitava il suo nome fino a pochi anni fa) di tutto il mondo impegnati nella preparazione di revisioni sistematiche della letteratura scientifica. Lo scorso anno – nel 2018 – scoppiò il caso di Peter Goetzsche, uno dei fondatori della rete e allora direttore del Nordic Cochrane Centre con sede a Copenaghen. Con una serie di passaggi poco trasparenti, la direzione della Cochrane decise l’espulsione di Goe­tzsche sperando probabilmente che il suo allontanamento chiudesse una situazione imbarazzante.

A distanza di poco più di un anno, un editoriale del direttore Richard Horton sul Lancet del 14 novembre critica in modo radicale la qualità di alcune revisioni sistematiche prodotte dalla Cochrane, colpevoli di aver incluso studi metodologicamente discutibili. Horton riprende le critiche dettagliate in un articolo di Ian Roberts uscito sul BMJ alcuni anni fa. Roberts è una figura importante, perché è il direttore della Clinical trials unit della London school of public health. L’intera base di evidenze su cui poggia la conoscenza medica attuale rischia di essere poco affidabile, dice Horton. È anche intollerabile – aggiunge – che un’organizzazione che evidentemente non riesce a garantire l’accuratezza dei documenti prodotti percepisca finanziamenti così ingenti da istituzioni pubbliche di diverse nazioni anglosassoni. Da parte della Cochrane non ci sono state reazioni.

Alla prudenza della Cochrane – o alla sua afasia – fa riscontro un’attività intensa di molti gruppi di lavoro animati da persone e da istituzioni che in passato hanno avuto un ruolo importante nella Collaboration: dal GRADE Working Group ai team che lavorano alle checklist CONSORT o SPIRIT. Come se l’appartenenza alla rete Cochrane fosse diventata un limite, un fattore di contenimento. In Italia esiste una rete di gruppi che fanno parte della Cochrane lavorando alla sintesi delle prove in ambiti specialistici: neurologia, alcol e droghe, riabilitazione, sclerosi multipla. Il network italiano – che si richiama nel proprio nome al fondatore del centro Cochrane nel nostro paese, Alessandro Liberati – ha promosso lo svolgimento di un congresso a Firenze nel giungo 2019 dedicato ai real world data, argomento al crocevia tra hype e hope, e in questo numero troveremo le sintesi delle relazioni presentate.

Più di recente – ad inizio novembre 2019 – l’associazione è tornata a discutere convocando un altro congresso dedicato al tema della sovradiagnosi e dell’overtreatment. Temi pesanti, non solo per l’impatto che possono avere sulla sostenibilità dell’assistenza, e che vanno correttamente inquadrati come questioni di sanità pubblica, non riducibili a incidenti del rapporto tra medico e malato. In altre parole, pensare che l’eccesso di prescrizioni diagnostiche o terapeutiche sia un corollario della medicina difensiva, della mancanza di tempo per la relazione di cura o di un’impreparazione dei clinici non avvicina alla soluzione. O meglio: anche medicina difensiva, tempo per la cura e formazione dei professionisti sono questioni di sistema e, pertanto, politiche.

L’editoriale di Horton sul Lancet del 16 novembre avrebbe dovuto sollevare una discussione aperta e un confronto sulla questione di fondo: una ricerca di bassa qualità rischia di compromettere la base di conoscenze su cui si fondano le decisioni dei medici e, allo stesso tempo, di distanziare ancora di più i cittadini dalla medicina accademica.

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