Dalla letteratura

Come dar spazio ai ricercatori più giovani

A un certo punto della vita professionale bisognerebbe rinunciare alla propria visibilità di ricercatore in favore dei più giovani: senza smettere, beninteso, di partecipare al confronto e alla discussione. Un esempio? Perché devi pretendere di essere ultimo autore di un articolo solo perché la ricerca è stata svolta nell’istituto di cui si è direttore? Non sarebbe più utile che la firma fosse del giovane ricercatore che ha disegnato e condotto lo studio? Perché il tuo intervento deve aprire o chiudere un meeting al quale non hai contribuito? Recentemente, l’oncologo Vinay Prasad ha proposto dieci suggerimenti che un ricercatore “arrivato” potrebbe fare per aiutare a crescere dei giovani collaboratori1.

Al contrario di altri interventi di Vinay, questo è passato quasi inosservato. Chissà perché. Quali erano i suoi consigli?

1. Non accettare inviti a scrivere articoli a meno che un tuo allievo sia il primo autore. Dopo dieci anni da dirigente di istituto o di unità operativa si dovrebbe lasciare che a esporre il proprio pensiero siano ricercatori non ancora conosciuti come meritano. Al limite, si può scrivere insieme.

2. Accetta non più di un premio alla carriera. Lascia che uno dei tuoi colleghi abbia la possibilità di ricevere questo onore.

3. Se occupi già una posizione di rilievo, rifiuta l’incarico di dirigere un altro centro o di guidare un nuovo programma.

4. Se hai già ricevuto due volte finanziamenti da istituzioni indipendenti rinuncia alle successive sovvenzioni in favore di colleghi e giovani ricercatori.

5. Non essere il primo autore o il corresponding author dei tuoi articoli. Dopo un decennio da professore ordinario, semplicemente quasi non sarebbe necessario pubblicare più articoli di ricerca per avere titoli.

6. Partecipa al confronto sui social media e scrivendo editoriali, ma evita di discutere questioni banali o di rivalità accademiche.

7. Rifiuta o dona i compensi in denaro. Chiedi agli organizzatori di un meeting al quale sei invitato di usare i soldi per invitare un ricercatore più giovane o di donarli a un’organizzazione benefica.

8. Limita a dieci anni il tuo incarico di direttore. Le organizzazioni possono trarre vantaggio da idee o da un approccio diversi.

9. Considera una posizione part-time. Parte del tuo stipendio (spesso elevato a causa dell’anzianità) potrebbe essere utilizzata per assumere una persona più giovane.

10. Declina gli inviti a convegni per i quali è previsto un viaggio. Chiedi agli organizzatori di invitare invece una persona junior che ammiri.

Consigli troppo estremi? Può darsi. Un bell’esercizio sarebbe seguirne almeno qualcuno: dopo tutto, anche accettando la metà di questi suggerimenti si potrebbe contribuire a un graduale, ma utile, cambiamento.

Bibliografia

1. Prasad V. Making room for a new generation of medical leaders. Medscape 2019; 5 settembre. https://www.medscape.com/viewarticle/917628

Fabio Ambrosino




Le industrie corteggiano gli studenti di medicina

L’industria farmaceutica continua a cercare attenzione da parte dei medici in formazione: più precoce è il primo contatto e maggiori sono le probabilità che una volta entrato nella professione la confidenza tra il medico e l’azienda possa consolidarsi e portate dei vantaggi a quest’ultima e, secondo qualcuno, anche al professionista stesso.

Una revisione a cui hanno contribuito autori molto esperti come Avorn e Kesselheim e pubblicata nel 20111 dimostrava che 9 studenti su 10 negli Stati Uniti avevano ricevuto soldi o favori da aziende. In generale i ragazzi giustificavano questi rapporti perché davano un po’ di sollievo alla loro difficile situazione finanziaria: non c’era nulla di male anche perché non comportavano rischi non condizionando la loro attività. Conseguenze sempre minimizzate anche perché, viene ripetuto, quando presta servizio in ospedale lo studente non può prescrivere2. Qualche stagione dopo, una survey su studenti francesi aveva rilevato una maggiore consapevolezza e attenzione3.

Si ritiene però in diversi paesi che le università dovrebbero proteggere gli studenti cercando in ogni modo di assicurare un percorso formativo indipendente da interessi commerciali. «Mentre in Nord America molte scuole di medicina hanno formulato e implementato politiche sui conflitti di interesse (COI)4, sono poche le politiche istituzionali promosse in Germania», scrivono gli autori di un articolo uscito nell’ottobre del 20195. La ricerca sulle 38 facoltà di medicina tedesche mostra che solo 2 di esse hanno una policy per la gestione dei conflitti di interesse, talvolta addirittura senza che i presidi ne siano a conoscenza e, per di più, si tratta anche di raccomandazioni incomplete, che non prendono in considerazione molte delle numerose forme in cui i conflitti possono manifestarsi.

Si tratta di risultati che confermano il disinteresse della medicina accademica per un problema già segnalato anni fa da uno studio sulle università canadesi6 e tutt’ora non soltanto irrisolto, ma destinato probabilmente a diventare più grave.

«L’anno scorso, quando facevo parte del board degli specializzandi della Società italiana di igiene e medicina preventiva, avevamo realizzato uno studio per indagare proprio il tema della percezione del conflitto di interessi tra i giovani igienisti», mi dice Stefano Guicciardi. «I dati non sono ancora stati pubblicati, ma l’anno scorso al congresso societario è stato presentato un abstract con i risultati preliminari». La survey online ha invitato a partecipare gli specializzandi iscritti alle 36 Scuole italiane. Ha risposto più della metà degli iscritti (104 specializzandi): il 94% di loro aveva sentito parlare dei conflitti di interesse ma solo il 20% riferiva di aver saputo di un momento di formazione dedicato a questo argomento nell’ambito del corso di specializzazione. Solo tre studenti non ritenevano di trattasse di un tema importante e l’89% pensava si trattasse di argomenti che avrebbero dovuto essere oggetto di un approfondimento specifico nell’ambito del corso. La metà dei partecipanti all’indagine ha sostenuto di esser capace di riconoscere i conflitti di interesse sia nella pratica clinica sia nell’attività di ricerca. La Federspecializzandi sta lavorando da tempo per costruire consapevolezza sui conflitti di interesse, anche organizzando workshop sul tema e il suo impegno andrebbe sostenuto.

L’etica della professione è talmente importante che potrebbe essere opportuno selezionare gli studenti più idonei a frequentare un corso di laurea in medicina anche valutando la loro rettitudine e il rigore morale7.

Bibliografia

1. Austad KE, Avorn J, Kesselheim AS. Medical students’ exposure to and attitudes about the pharmaceutical industry: a systematic review. PLoS Med 2011; 8(5): e1001037.

2. Austad KE, Kesselheim AS. Conflict of interest disclosure in early education of medical students. JAMA 2011; 306: 991-2.

3. Etain B, Guittet L, Weiss N, Gajdos V, Katsahian S. Attitudes of medical students towards conflict of interest: a national survey in France. PloS One 2014; 9: e92858.

4. Perry HB. Undergraduates’ perceptions of conflict of interest in industry-sponsored research. Portal: Libraries and the Academy 2018; 18: 163-82.

5. Grabitz P, Zoe Friedmann, Sophie Gepp, et al. Conflict of interest policies at German medical schools. A long way to go. Biorxiv 2019. https://doi.org/10.1101/809723

6. Shnier A, Lexchin J, Mintzes B, Jutel A, Holloway K. Too few, too weak: conflict of interest policies at Canadian medical schools. PloS One 2013; 8: e68633.

7. Wayne DB, Green M, Neilson EG. Teaching medical students about conflicts of interest. JAMA 2017; 317: 1733-4.

Rebecca De Fiore




Linee guida nella nebbia

Il fatto lo ha ben sintetizzato una nota del Lown Institute del 25 ottobre 2019: «Nel 2016, la National Partnership for Maternal Safety (NPMS) ha pubblicato un elenco di raccomandazioni per ridurre i decessi conseguenti a disturbi della coagulazione in donne in gravidanza e postpartum. Le linee guida sono uscite sulla rivista Obstetrics & Gynecology. Una di queste raccomandazioni estendeva il ricorso ad anticoagulanti alla maggior parte delle donne sottoposte a parto cesareo. Dal momento che quasi un terzo delle nascite negli Stati Uniti non è da parto naturale, circa 1,3 milioni di donne all’anno si vedrebbero prescrivere un anticoagulante dopo il parto». Sempre il Lown Institute si era interessato del problema nello scorso agosto.

Il contenuto delle linee guida potrebbe “confezionare” un bel problema organizzativo ed economico per i sistemi sanitari3. Ma anche il “solito problema” della comunicazione scientifica: la rivista ha omesso di rendere noti i rapporti economici della NPMS con industrie e ci sono voluti tre anni perché fosse pubblicata una precisazione che, però, ha omesso il nome delle aziende finanziatrici. A pensar male si fa peccato, ma qualche volta ci si azzecca: come hanno notato molti lettori critici di questa linea guida, l’estensione dell’indicazione alla terapia anticoagulante nelle donne sottoposte a cesareo «non è giustificata dai dati disponibili e ha il reale potenziale di fare più danni che benefici».

Adam Urato, direttore dell’unità di medicina materno-fetale del MetroWest Medical Center di Framingham, nel Massachusetts è stato tra i primi a reagire al contenuto della linea guida e, sostenuto da Jeanne Lenzer (giornalista d’inchiesta del BMJ) e Shannon Brownlee (dello stesso Lown Institute), ha coinvolto alcune decine di ricercatori, clinici e professionisti della comunicazione scientifica nella preparazione di una lettera alla rivista. «Abbiamo davvero bisogno che cresca l’attenzione pubblica sul tema dei conflitti di interesse e dobbiamo assicurarci che l’influenza industriale non possa essere nascosta e non controllata», ha dichiarato alla newsletter del Lown Institute.

L’adesione di tante persone – alcune delle quali sono nomi molto conosciuti della medicina internazionale – non sarebbe stata possibile se Gary Schwitzer, giornalista e fondatore di Health News Review, e Adriane Fugh-Berman, docente alla Georgetown e direttore di PharmedOut, non avessero dato il proprio contributo a costruire il panel internazionale di “referenti indipendenti” su medicina e sanità che oggi conta oltre 100 nomi ed è costantemente in crescita, soprattutto per gli inviti che i curatori rivolgono a persone che ritengono fonti potenzialmente importanti per i media, in quanto libere da conflitti di interesse. L’elenco è disponibile sul sito Web di Health News Review4. Nella lettera inviata alla rivista, Urato e gli altri firmatari segnalano che tra gli estensori della linea guida alcuni avevano ricevuto finanziamenti non dichiarati da molte aziende: Abbvie, Allergan, AMAG Pharmaceuticals, Bayer Health Care, Ferring Pharmaceuticals, Hologic, Illumina, Johnson & Johnson, Masimo, Myriad, Pfizer, Premier e Salus Global. Come sempre, la reazione è stata quella di minimizzare il problema. È davvero il colmo, per documenti che dovrebbero “guidare”, essere avvolti dalla nebbia.

Bibliografia

1. Lown Institute. Doctors speak out on conflict of interests in obstetrics. Pubblicato sul sito www.lowninstitute.org il 25 ottobre 2019.

2. Lown Institute. How conflicts of interest put new mothers at risk. Pubblicato sul sito www.lowninstitute.org il 15 agosto 2019.

3. D’Alton ME, Friedman AM, Smiley RM, et al. National partnership for maternal safety: consensus bundle on venous thromboembolism. J Obstet Gynecol Neonatal Nurs 2016; 45: 706-17.

4. https://www.healthnewsreview.org/toolkit/independent-experts/

Fabio Ambrosino







Omeopatia: l’Europa ci ripensa?

Il chief executive del National Health System inglese ha espresso le sue “serie preoccupazioni” sull’omeopatia, sostenendo che la pratica è “viziata alla fonte”. Simon Stevens e il direttore medico nazionale del NHS, Stephen Powis, hanno scritto alla Professional Standards Authority (PSA) in merito a una possibile nuova procedura di accreditamento della società degli omeopati. Nella lettera del 22 ottobre sostengono che il fatto che l’associazione sia accreditata da un ente pubblico dà ai cittadini la “falsa impressione” che i trattamenti proposti siano scientificamente fondati. Un conto sono gli standard amministrativi richiesti per l’accreditamento, altra cosa è invece una procedura di “approvazione” dell’affidabilità delle cure. Tutto ciò che conferisce all’omeopatia una patina di credibilità – proseguono – rischia di convincere un numero sempre più alto di persone a buttar via del denaro per acquistare “cure” fasulle che nella migliore delle ipotesi non fanno nulla e, nel peggiore dei casi, possono rivelarsi potenzialmente pericolose.

Il ministro della Sanità francese, Agnès Buzyn, ha comunicato la lista dei prodotti omeopatici e dei principi attivi da piante medicinali che non saranno più rimborsati ai cittadini, in seguito alla sua decisione avvenuta all’inizio di quest’anno di eliminare gradualmente i rimborsi statali di medicinali omeopatici e di erbe. La decisione risale al mese di luglio di quest’anno, dopo che la Haute Autorité de Santé ha dichiarato l’assenza di prove di efficacia di questi prodotti, alla luce dei dati disponibili. Di conseguenza, il rimborso statale scenderà progressivamente dall’attuale 30% prima al 15% (dal 1 gennaio 2020) e infine allo 0% dal primo gennaio 2021. Centinaia di prodotti omeopatici e fitoterapici figurano nell’elenco finale di quelli che non prevedranno più una compartecipazione statale alla spesa: dall’arnica montana all’oscillococcinum fino alla nux vomica.

Anche la Food and Drug Administration ha proposto nuove procedure approvative per «proteggere i consumatori da prodotti di non provata efficacia potenzialmente dannosi».

Da dove nasce questa maggiore intensità delle istituzioni nel contrasto all’adozione dell’omeopatia da parte dei cittadini? Qualcuno potrebbe legittimamente pensare che possa essere legata alla riduzione delle risorse disponibili e alla necessità di maggiore avvedutezza nella spesa. Potrebbe essere, però, anche una reazione alla crescente aggressività della medicina omeopatica che sta dimostrando una sempre maggiore capacità di sfruttare gli strumenti che gli editori predatori le mettono a disposizione.

La primavera scorsa su Sciencemag, Derek Lowe sottolineava qualcosa che non dovrebbe essere sottovalutato, a proposito della società Materia Medica Holding (MMH) che sembra aver scelto di combattere la scienza sul suo terreno elettivo, quello della ricerca e della comunicazione scientifica accademica1. MMH e il suo fondatore, Oleg Epstein, propagandano fantomatici release-active drugs, sostenendone l’efficacia in una pletora di patologie diverse tra loro, nonostante l’assenza di molecole attive al loro interno2. Si tratterebbe – leggiamo su un commento critico su BMJ EBM3 di cui è coautore Alexander Panchin, dell’Accademia russa per il contrasto alle pseudoscienze e alle frodi scientifiche – di «activated forms of ultra-low doses of antibodies conventionally designated as potentiated (dynamised) antibodies (by analogy with the terminology used in homeopathic literature) for treatment of various pathological syndromes». MMH ha iniziato a pubblicare moltissimi articoli su riviste indicizzate e ad annunciare una serie di sperimentazioni sul database Clinicaltrials.gov. «Sono persone – scrive Lowe – che vendono acqua distillata e ingredienti inerti, e producendo articoli conferiscono a tutto ciò un aspetto di rispettabilità, contaminando la letteratura scientifica con un rumore di fondo e sciocchezze». Alcuni di questi lavori sono stati ritirati, ma continuano a essercene diversi ancora accessibili e senza dubbio altri in arrivo.

Questa storia – ancora ovviamente niente affatto conclusa – conferma almeno due cose: 1) “pubblicare” non significa nulla, perché ormai si “pubblica” tutto; 2) la cosa più importante è far crescere la consapevolezza dei cittadini e la loro capacità critica: senza colpevolizzare né giudicare chi sceglie di affidare la propria salute a prodotti non efficaci. Sono i “consumatori” le principali, se non uniche, vittime.

Bibliografia

1. Lowe D. More quackery. Sciencemag 2019; 28 marzo.

2. Novella S. Release-active drugs: homeopathy by another name. Science-based medicine 2018; 12 dicembre.

3. Panchin AY, Khromov-Borisov NN, Dueva EV. Drug discovery today: no molecules required. BMJ Evid Based Med 2019; 24: 48-52.

Rebecca De Fiore