In questo numero

«L’Italia ha un problema con la gestione della terza e della quarta età che parte dalla sua stessa accettazione». Un commento di Ginevra Lamberti uscito sul quotidiano Domani il 2 ottobre è un’eccellente introduzione alle prossime pagine. La scrittrice veneta si chiede se una deistituzionalizzazione della vecchiaia non possa rappresentare un passo avanti in termini sia di civiltà sia di assistenza. È vero però che una scelta radicale di questo tipo sarebbe insostenibile per gran parte delle famiglie, aggiungendo un altro determinante di disuguaglianza sociale ai troppi già esistenti.

«Non è né concepibile né auspicabile una riforma dell’assistenza agli anziani che non consideri in modo organico, integrato, umano e profondamente laico l’approccio alla vita dal suo inizio alla sua fine», scrive Lamberti. «Parlare di terza e quarta età vuol dire anche parlare di malattia, libertà di scelta dei propri tutori e referenti legali, libertà di scelta nel campo delle terapie disponibili affinché non siano subite, testamento biologico». La scrittrice sembra abbia letto il racconto del bioeticista Scott D. Halpern segnalato a pag. 627: spesso ci dimentichiamo che la libertà di scelta è fatta di molte cose, tutte importanti.

La libertà è fatta anche di capacità di “leggere” le informazioni che ci vengono date. Per questa ragione è bello che questo numero della rivista accolga due sezioni strettamente collegate tra loro: non possiamo pensare ad un ultimo tratto di strada – per usare un’espressione cara a Sandro Spinsanti, curatore del primo dossier – senza il coinvolgimento consapevole e informato dei cittadini. L’informazione come driver di conoscenza è un aspetto essenziale e sono molto interessanti le considerazioni di Camilla Alderighi a pag. 690: «Nell’ambito delle conversazioni tra noi medici e i pazienti, sono infatti emersi evidenti margini di miglioramento addirittura nell’ambito della prima fase della conversazione, ovvero quella informativa. È notorio che sovrastimiamo gli effetti benefici dei trattamenti e ne sottostimiamo invece i rischi. Questo conduce necessariamente a conversazioni sbilanciate a favore dei pro rispetto ai contro degli interventi diagnostici o terapeutici». Servono, dunque, parole oneste. Ma queste devono giungere solo da uno “specialista” in cure palliative?

«A distanza di 40 anni dall’approvazione della legge, il cittadino – soprattutto il malato – è al centro del sistema solo sulla carta», ammette Nello Martini, curatore del secondo dossier (pag. 673). «In realtà, vive il disagio di un servizio sanitario nazionale e regionale spesso poco efficiente, male organizzato, sofferente per le disomogeneità regionali. Stiamo male – come cittadini e malati – soprattutto per l’abbandono della centralità delle cure primarie in favore di una medicina per acuti, che è fortemente condizionata da quella che Victor Montori ha definito una “medicina industriale”». Torniamo all’articolo di Ginevra Lamberti per sottolineare come solo il 14 per cento delle residenze sanitarie assistenziali abbia una gestione pubblica «a fronte di un 70 per cento in mano a soggetti privati e la restante fetta divisa tra onlus, cooperative sociali ed enti religiosi. Il quadro è quello di un privato forte rappresentato da associazioni di categoria forti, troppo più forti sia delle famiglie degli anziani che dei dipendenti incaricati di accudirli. […] In un momento di grave emergenza sanitaria e polverizzazione delle risorse non abbiamo ricette ideali né via d’uscita facili. Possiamo però continuare a domandarci e domandare: dov’è il servizio sanitario nazionale quando si tratta dei nostri ultimi anni di vita?».