Gestione per processi e PDTA: alcune riflessioni

Valeria D. Tozzi 1

1 Master in Management della Sanità (MiMS), SDA Bocconi, Milano.

Pervenuto su invito l’8 febbraio 2021.

Riassunto. Il dibattito sui percorsi diagnostico-terapeutici assistenziali (PDTA) ha oramai quasi vent’anni: è pertanto necessario contestualizzare le riflessioni rispetto al momento storico e alle basi disciplinari di riferimento. Negli ultimi vent’anni le aziende sanitarie, le relazioni Regione-azienda sanitaria e medicina hanno subìto profonde trasformazioni; c’è quindi la necessità di riprendere le posizioni più storiche aggiornandole o facendo riferimento a quei contributi del dibattito che meglio colgono le trasformazioni più recenti, per giungere a un denominatore comune ed evitare di costruire proposte che poggino su basi concettuali molto diverse o di riferirsi a questioni lontane nel complesso mondo dei servizi per la tutela della salute.

Process management and PDTA: some reflections.

Summary. The debate over Diagnostic and Therapeutic Care Pathways (DTCP) existed for at least twenty years: it is therefore necessary to contextualize the thinking with respect to the historical context and in accordance to the disciplinary bases. In the last twenty years, health care companies, Region - health care and medicine relations have undergone a major transformation, so there is a need to resume the historical positions by updating them or referring to those contributions of the debate that best capture the most recent transformations. The reference to the disciplinary roots of the various contributions in the literature allows for a common denominator to avoid building proposals that risk being based on very different conceptual basis or referring to distant issues in the complex world of healthcare services.

Di percorsi diagnostico-terapeutici assistenziali (PDTA) si parla ormai da quasi vent’anni. Nel caso di dibattiti così antichi che possono influenzare scelte rilevanti in merito alla configurazione di servizi e sistemi occorre contestualizzare le riflessioni rispetto al momento storico e alle basi disciplinari di riferimento. Negli ultimi vent’anni le aziende sanitarie, le relazioni Regione-azienda sanitaria e medicina sono molto cambiati; c’ è quindi la necessità di riprendere le posizioni più storiche aggiornandole o facendo riferimento a quei contributi del dibattito che meglio colgono le trasformazioni più recenti. Il richiamo alle radici disciplinari dei vari contributi presenti in letteratura permette di condividere un denominatore comune per evitare di costruire proposte che rischino di poggiare su basi concettuali molto diverse o di riferirsi a questioni lontane nel complesso mondo dei servizi per la tutela della salute. Gli studi di economia aziendale, spesso ricondotti alla macro categoria del “management”, avendo quale oggetto di riflessione le aziende sanitarie di erogazione, sono fisiologicamente indotti a riflettere sulle trasformazioni in atto e a interrogarsi sul “come” implementare approcci e strumenti che riguardano il sistema di erogazione delle cure.

Quello sui PDTA è un dibattito internazionale sotto l’etichetta degli integrated care pathways , alimentato da tre filoni di riflessione aventi matrici e ambiti disciplinari diversi (figura 1).




Lo sforzo concettuale fu quello, alla fine degli anni ’90, di intercettare approcci nuovi che innalzassero la qualità delle cure in termini di contenuto tecnico specialistico, che riducessero la frammentazione dei servizi e che attivassero sistemi di monitoraggio periodico a scopi di miglioramento continuo. Questa posizione veniva chiaramente espressa già nel 1989 da un gruppo di studio sulla qualità delle cure in sanità del WHO e a essa si può ricondurre il basketball hoop framework (figura 1), che riprende i filoni di studio che a questi obiettivi si ispirarono.

Il dibattito promosso dalla comunità dei professionisti, incentrato sulle questioni di ortodossia clinico-professionale, è quello del disease management (DM), nato quando i clinici misero a fuoco come l’interdipendenza tra servizi e conoscenze specialistiche spesso diverse fosse fondamentale per conseguire l’esito di salute atteso. Partendo da specifiche condizioni di salute e ambiti specialistici, sono molteplici i contributi all’interno di questo dibattito che proposero sequenze riviste di interventi e attività. Si tratta di un patrimonio di riflessioni che spesso è circolato all’interno delle comunità professionali di riferimento che, facendo leva proprio sulle loro competenze tecnico-specialistiche, promossero la revisione dell’organizzazione delle cure. Altro contributo rilevante, di matrice istituzionale, è qu ello sulla clinical governance (CG) che trova il suo cardine di riferimento nell’esperienza del National Health System (NHS) del Regno Unito: in questa esperienza furono le istituzioni pubbliche (si pensi, per esempio, al NICE) che, d’intesa con i soggetti collettivi che rappresentano le comunità professionali a livello nazionale, specificatamente le Società scientifiche, formularono standard di cura da estendere al sistema e forme di monitoraggio degli standard clinico-assistenziali da verificare nella pratica. Si affermava il nuovo clima culturale dell’evidence-based medicine che aiutò il dialogo tra comunità professionali e istituzioni. Il terzo contributo che alimenta le questioni riguardanti i PDTA è più tipicamente manageriale nella misura in cui, partendo da contesti industriali, propone la rivisitazione dei percorsi di diagnosi e cura di ciascuna condizione di salute interpretandoli come un processo di erogazione unitario, calibrato sui bisogni dell’utente finale (più che sui fabbisogni interni all’organizzazione) e orientandolo verso standard di evidenza e buona pratica clinico assistenziale. Questo è il dibattito del process management (PM) che sempre vent’anni fa iniziò a penetrare all’interno del settore della sanità e che puntò l’attenzione sulle condizioni e sugli strumenti di gestione che rendono possibili sia i processi di identificazione e condivisione degli standard di cura sia il loro adattamento e adozione nei diversi contesti aziendali con vocazioni clinico-assistenziali diverse (l’ASL è diversa dall’AO) e modelli di gestione differenti. All’interno di questo approccio, che in qualche modo sintetizza o mutua i concetti di fondo sia del DM che della CG, si arrivò all’esplicitazione delle diverse tipologie di processi all’interno delle aziende sanitarie. La figura 2 evidenzia la lettura dei principali processi di erogazione di servizi interni o esterni all’azienda che parte dalle teorie di M. Porter.




Sostanzialmente, quando si avviano progetti sui PDTA, si interviene sulla relazione tra attività e pratiche clinico-assistenziali funzionali per soddisfare i fabbisogni di diagnosi, terapia e follow-up di un target di pazienti affetti da una specifica condizione di salute. La progettazione di un PDTA parte dalla rivisitazione delle interdipendenze tra tali attività e pratiche, allo scopo di superare la frammentazione dell’erogazione, e le rivede allo scopo di migliorare gli standard di cura (in termini di contenuti professionali, di tempi di erogazione, ecc.) Quindi, cos’è un PDTA? È un processo di erogazione, come ci insegna il PM, che: (a) deve essere coerente rispetto alle attese dei professionisti che si occupano della patologia e hanno la responsabilità delle scelte clinico-diagnostiche (come proposto dal DM); (b) deve essere inserito in un processo di miglioramento costante grazie al processo di monitoraggio rispetto al raggiungimento degli standard di cura (in linea con gli insegnamenti impartiti dal CC); (c) deve mantenere la sua unitarietà in termini di corresponsabilità dei professionisti che intervengono nei diversi segmenti del percorso, di tempi e di equità di accesso per la popolazione target (come le teorie del PM sottolineano).

I percorsi dei pazienti sono sempre esistiti, perciò occorre partire da una ricognizione di quanto accade nella realtà per valutare se sia adeguato, sul piano organizzativo e logistico, e appropriato sul piano professionale e sostenibile in termini economici. Si tratta di un processo costante di osservazione e monitoraggio che deve far leva sui sistemi operativi d’azienda, dalla formazione alla reportistica passando per l’incentivazione e i percorsi di carriera. Tutte le realtà aziendali in Italia sono alle prese con i progetti sui PDTA oramai da molti anni con successi vari che dipendono dalla rilevanza strategica che a essi viene associata e agli strumenti aziendali che rendono le operazioni di osservazione e monitoraggio dei processi clinico-assistenziali routinarie e non occasionali. Le prospettive del PM hanno da subito orientato verso l’abbattimento dei silos nell’erogazione dei servizi che caratterizzano tutti i contesti sanitari che spesso usano le discipline medico-specialistiche per definire i confini delle responsabilità e delle strutture organizzative (per esempio, le Unità Operative). Gli investimenti all’interno delle aziende sanitarie su competenze, tempo e strumenti dedicati allo sviluppo dei PDTA consentono di superare (o attutire almeno) i tradizionali modelli funzionali che definiscono le responsabilità e le strutture organizzative intorno al perimetro delle discipline mediche (figura 3).




Questo non significa virare automaticamente verso assetti organizzativi “a matrice”, ma serrare le fila del coordinamento tra professionisti e strutture organizzative allo scopo di integrare la sequenza dei servizi che dalla diagnosi (o se possibile dallo screening) fino al follow-up o al fine vita consentano al paziente la migliore esperienza di cura nel rispetto delle condizioni di appropriatezza e sostenibilità.

Il management del PDTA

Una cosa è parlare di PDTA in una fase di analisi, per capire cosa accade nel sistema, utilizzando anche le banche dati amministrative, altra cosa è la fase successiva, quella di riprogettazione e orientamento dei comportamenti degli operatori interni e, in alcuni casi specifici, anche esterni (se il PDTA è, per esempio, interaziendale). Si tratta di una vera e propria operazione di change management che attraversa l’organizzazione delle aziende sanitarie che spesso intervengono in diverse fasi del percorso di cura. La fase di gestione del cambiamento eredita da quella di progettazione le priorità di intervento: è importante che i progetti sui PDTA esplicitino anche quanto funziona in modo appropriato e sostenibile e si focalizzino su alcune priorità per indurre processi graduali ma costanti di cambiamento. In tale senso, ogni struttura organizzativa avrà il suo preciso sforzo per migliorare gli standard di cura e a seconda del cambiamento atteso occorre selezionare gli strumenti che meglio lo inducono (per esempio, per alcuni obiettivi sarà possibile usare la negoziazione di budget, per altri potrà essere sufficiente fare formazione). Esistono oramai strumenti e tecnicalità specifiche che accompagnano lo sviluppo di ciascuna delle 4 fasi del cosiddetto “management del PDTA” (figura 4).




Il PDTA non è statico, ma è un approccio dinamico e di natura contingente, che permette di cogliere cosa accade per riorientare i comportamenti nel sistema. La complessità sta nel fatto che i confini del percorso non sono facili da disegnare perché, in quanto processo unitario che va dallo screening al follow-up o al fine vita, esso tocca setting differenti, ed è per questo che è importante disporre a partire dalla fase di analisi di strumenti capaci di “leggere” la realt à prima e dopo l’implementazione del PDTA: sotto questo punto di vista i database amministrativi possono essere fondamentali.

Non si può non pensare che sia gli approcci teorici sia le esperienze sviluppate sui PDTA non si contestualizzino rispetto alle trasformazioni del settore della sanità nei diversi momenti storici. In questa direzione, è possibile osservare che i progetti sui PDTA stanno aiutando anche a uniformare i percorsi di cura in contesti aziendali frutto della fusione di aziende pregresse. Pensiamo per esempio ai processi di fusione tra le ASL, che hanno moltiplicato i confini e i territori di riferimento, ma anche alle trasformazioni istituzionali di contesti aziendali come le ASST lombarde che riducono la distinzione tra l’assistenza territoriale e quella ospedaliera.

Sempre all’insegna dell’“attualizzazione” dei PDTA, è possibile osservare come la molteplicità di PDTA sviluppati per la gestione delle malattie croniche stia spingendo a forme di operation management rispetto ai setting di cura ambulatoriali non solo all’interno dei presidi ospedalieri ma anche all’interno di contesti come le Case della Salute.

Come emerge nella figura 5, nel corso del tempo, i progetti sui PDTA hanno messo in tensione “parti” diverse delle aziende sanitarie o addirittura delle Regioni.




Nel corso degli anni ’90, le esperienze sui PDTA furono tipicamente aziendali e lo sforzo messo in campo fu quello di usare la razionalità clinica per rivedere l’allocazione dei pazienti nelle diverse unità operative e per omogeneizzare le pratiche di professionisti della medesima disciplina nel gestire la stessa casistica. Nel corso del 2000 esse divennero interaziendali e si interessarono principalmente delle patologie croniche. Nel corso di quegli anni vennero colti maggiormente i contributi del PM che puntava sui sistemi operativi aziendali per produrre una visione unitaria della cosiddetta “presa in carico”. Negli anni più recenti sono state le Regioni a promuovere la progettazione di PDTA con l’obiettivo di formulare standard di base validi per l’intero contesto regionale per una determinata condizione di salute. Spesso, questo tipo di approccio ha previsto che venissero indicati gli standard di servizio essenziali (questo è il motivo per cui spesso si sente parlare in modo improprio di LEA di PDTA) da contestualizzare in ogni realtà aziendale che li completava con il portafoglio di servizi a disposizione.

Sempre le esperienze regionali di PDTA hanno consentito di sviluppare approcci di population health management (PHM) ricorrendo principalmente alle banche dati amministrative per capire quanti fossero i pazienti con le diverse condizioni patologiche e cosa consumassero in termini di prestazioni e di servizi. Attraverso le banche dati di tipo amministrativo, non solo si può capire quanti sono i pazienti con le diverse condizioni patologiche o con più condizioni patologiche, ma si può addirittura stratificare la popolazione per livello di gravità. Sulla base di queste evidenze è possibile organizzare modelli di presa in carico specifici in ragione delle condizioni di salute. Le logiche del PHM possono espandersi ai big data (di cui le banche dati amministrative ne sono una parte) attraverso flussi che possono essere alimentati direttamente dal paziente (si pensi, per esempio, alla mobile health ).

Su questo approccio le Regioni italiane hanno iniziato a muoversi: nella figura 6 è riportata una rappresentazione derivante dall’edizione 2017 del rapporto OASI (Osservatorio sulle Aziende e sul Sistema sanitario Italiano) che presenta le Regioni impegnate con progettualità di PHM (Lombardia, Emilia-Romagna e Veneto; la Toscana, pur partita con una progettualità di PHM, non l’ha completato – ciascuna regione è indicata solo con la prima lettera).

I database amministrativi però possono essere funzionali e di straordinaria utilità anche per tenere la spesa sotto controllo se attraverso l’identificazione dei target di patologia si riesce a monitorare i pattern di consumo di prestazioni sanitarie.

Altro tema che di recente viene associato a quello del PDTA riguarda i modelli di finanziamento. Il pensiero di chi scrive è che conviene avere molta cautela quando si pensa di modificare i processi di finanziamento “storici”. In Italia, facciamo ampio ricorso ai due modelli estremi quali la quota capitaria e la tariffa per prestazione, i due modelli che sono agli estremi nella figura 7.




Di recente vi è stato un esperimento di payment for coordination , diverso dal payment for performance , dove si viene pagati in ragione di risultati attesi e non dello sforzo di coordinare gli interventi. Ugualmente diverse sono le logiche di bundled payment (il modello CReG provava ad andare verso un modello in qualche modo bundled ) e tutto quello che segue in realtà rappresenta forme di finanziamento complessive, non puntuali rispetto al target e non puntuali rispetto ai servizi che vengono integrati.

Occorre prestare attenzione nel pensare alle logiche di finanziamento per patologia: proprio perché abbiamo un sistema di tipo universalistico, la quota capitaria è la logica più bundled possibile. Le logiche di finanziamento per patologia rischiano di creare forme di selezione avversa nella popolazione, perché rischiano di non far trovare le condizioni di accessibilità e di appropriatezza per il target di popolazione che non è perfettamente in linea con il pattern di finanziamento che è stato stabilito: non è un caso che non ci siano sistemi pubblici che usano delle logiche di finanziamento per patologia. L’altro grande problema è di tipo “tecnico”: come si gestisce la comorbilità che affligge gran parte della popolazione cronica? Che riceve la tariffa che poi potrebbe essere suddivisa tra più soggetti che concorrono. Altra criticità è l’assegnazione della responsabilità del paziente a partire dell’ingresso dei pazienti in un percorso finanziato ad hoc rispetto a un altro. Se il compito spettasse ai clinici, evidentemente il sistema aprirebbe il fianco a degli elementi di controllo e monitoraggio che sono tutt’altro che irrilevanti. Quindi l’invito è alla cautela, rispetto a modelli di finanziamento che possano essere affascinanti nella prospettiva teorica, ma che nella pratica, soprattutto considerando le condizioni di partenza di un sistema come quello che abbiamo, di tipo universalistico, potrebbero creare delle convenienze avverse.

Conflitto di interessi : l’autrice dichiara l’assenza di conflitto di interessi.

Bibliografia

1. Porter ME. Competitive Advantage. New York: The Free Press, 1985.

2. Valentijn PP, Schepman SM, Opheij W, Bruijnzeels MA. Understanding integrated care: a comprehensive conceptual framework based on the integrative functions of primary care. Int J Integr Care 2013; 13: e010.

3. Shih T, Chen LM, Nallamothu BK. Will bundled payments change health care? Examining the evidence thus far in cardiovascular care. Circulation 2015; 131: 2151-8.