Per l’appunto

a cura di Stefano Cagliano

« Tutti abbiamo un pregiudizio per la sopravvivenza quando si tratta di come siamo stati addestrati, o ci stiamo addestrando, in medicina. Ce l’abbiamo fatta attraverso la nostra formazione – almeno, finora – e crediamo di essere buoni medici. Dal momento che mi ha fatto arrivare fin qua, quindi, la formazione deve essere stata buona. Ciò che non consideriamo sono le persone che abbandonano il percorso di formazione. Non esiste una procedura standard per i colloqui di uscita dai programmi di formazione o del debriefing per coloro che stanno facendo fatica e stanno quasi per smettere. Dove sono stati fatti i colloqui di uscita, sono resi di difficile lettura, e il bullismo e le molestie sessuali sono spesso indicate come quello che ha motivato l’abbandono.

Il nostro sistema di formazione non funziona per tutti. Se lo fosse, più del 12% dei dirigenti di chirurgia e il 25% dei dirigenti delle unità operative di medicina sarebbero donne e i livelli di burnout dei tirocinanti sarebbero molto più bassi. La prevalenza del disturbo da stress post-traumatico in alcune specialità è maggiore rispetto a quella che viene registrata nel personale militare che torna da zone di guerra. Se vogliamo costruire un ambiente formativo inclusivo, dobbiamo adattarlo a tutte le forme e dimensioni.

Anche i pregiudizi legati al compimento del percorso formativo possono essere pericolosi, in particolare quando si finisce con l’usare espressioni come “ai miei tempi”. Hai presente il tipo, un po’ come quelli che continuano a parlare di quanto fosse fantastico l’allenamento svolto per 100 o più ore a settimana. Quelli che sostengono che avrebbero potuto fare di più, senza alcun tipo di bisogno di aiuto. O per i quali il rapporto medico-paziente fosse un tempo molto migliore, e i tirocinanti fossero semplicemente “abbastanza capaci di resistere allo stress”. Questo è il problema: quegli standard erano dannosi non solo per i tirocinanti, ma per i pazienti. È uno dei motivi dell’inchiesta nazionale sugli esiti e le morti dei pazienti » .

McLachlan G, Fleming S. Should medical training be something we “survive”? BMJ 2020; 371: m4738.



«La serie televisiva Dr Kildare creata da Frederick Faust ha catturato l’immaginazione del pubblico
di tutto il mondo negli anni ’60. Il giovane, bello e appena qualificato Kildare era la star con un’interpretazione gentile e spesso ingenua della malattia. Ha ispirato molte persone, ma il più anziano e saggio capo della medicina, Leonard Gillespie (interpretato dall’attore Raymond Massey), è stato il mio eroe. Ha insegnato al suo giovane apprendista gli aspetti più ampi dell’assistenza, utilizzando la sua conoscenza della storia naturale della malattia e della condizione umana. Sperava di modellare il suo giovane collega in una versione migliore di se stesso. Questa interazione tra i medici più anziani e quelli più giovani resiste e aiuta a garantire che i medici rimangano concentrati sui pazienti » .

Leonard Gillespie scelto da Chuka Nwokolo, Royal College of Physicians. Christmas 2020: Dr Kildare. Rimmer A. Medici immaginari che ispirano. BMJ 2020; 371: m4672



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Chi è il candidato migliore? Quale vaccino è più sicuro? Sappiamo tutti cosa vuol dire essere insicuri: sentire che la propria conoscenza è incompleta e c’è qualcosa di più da sapere. Ma, sorprendentemente, una mentalità orientata all’inc ertezza fino a poco tempo fa era spesso trascurata come argomento di studio in sé. Gli psicologi tendevano a vederla come qualcosa che gli esseri umani dovevano sradicare il più rapidamente possibile. L’errore secondo cui il non sapere è una terra di nessuno dal punto di vista cognitivo, tuttavia, si sta rapidamente sgretolando.

L’assistenza sanitaria, ad esempio, è un campo storicamente orientato a perseguire la certezza dalla diagnosi al trattamento. Ma questo ha un prezzo. Gli studenti di medicina che cercano di evitare di trovarsi in questa condizione mostrano meno interesse nel trattamento di pazienti svantaggiati con condizioni spesso complesse. Il disagio dei medici per l’incertezza è stato collegato a una eccessiva prescrizione di esami e di antibiotici e al burnout e alla depressione che hanno raggiunto livelli allarmanti anche prima della pandemia. È fondamentale affrontare la “reazione malsana della medicina all’incertezza”, ha scritto Arabella Simpkin, professore associato alla Harvard Medical School, in un commento lo scorso aprile pubblicato dal BMJ . L’incertezza è un tafano della mente, che ci allontana dall’autocompiacimento, se siamo disposti ad accettare il suo invito » .

Di Maggie. The gift of being unsure of what to do. Boston Globe. January 17, 2021.