La ricerca scientifica in tempi di pandemia

Gianna Milano1

1Giornalista scientifico.

Pervenuto su invito il 19 febbraio 2021.

Riassunto. In tempi di pandemia la ricerca scientifica procede in fretta per raggiungere risultati, quali terapie efficaci a combattere il virus SARS-CoV-2 e vaccini. Ma questa scienza ad alta velocità, ingaggiata dall’emergenza e caratterizzata soprattutto dall’esplosione di pubblicazioni online in forma preprint sganciate dal vaglio dei revisori paritari o peer-reviewers, comporta dei rischi. E rappresenta una sfida a mantenere integrità nella ricerca e a rispettare quei principi standard di correttezza globalmente riconosciuti. La competizione e la pressione a pubblicare con immediatezza – un modo, è vero, per incoraggiare la rapida condivisione di dati – può favorire la diffusione di risultati incompleti se non erronei ricavati da studi parziali, che alimentano assieme a false notizie – si esagerano i benefici di un farmaco – speranze illusorie. Ed è spesso tramite comunicati stampa che la “speed science” elargisce informazioni a un pubblico che vuole essere informato e rassicurato. All’urgenza di trovare soluzioni si mescolano spesso interessi finanziari e politici. Covid-19 ha messo in particolare evidenza il rischio di una politicizzazione della scienza a discapito della trasparenza.

Scientific research in times of pandemics.

Summary. When a pandemic occurs, scientific research moves fast in order to achieve readily results, such as effective therapies to fight the SARS-CoV-2 and vaccines. But this high-speed science, engaged by the emergency and characterized by the explosion of online publications in preprint form not subject to scrutiny by peer reviewers, carries some risks. And it represents a challenge to maintain research integrity and to comply with those globally recognized standard principles of fairness. Competition and the pressure to publish immediately – a way of encouraging rapid data sharing – can favor the dissemination of incomplete if not erroneous results obtained from partial studies, which feed false news, such as the benefits of a drug, and illusory hopes. It is commonly through press releases that “speed science” disseminates information to an audience that wants to be informed and reassured. Financial and political interests often mix with the urgency to find solutions. Covid-19 has highlighted in particular the risk of a politicization of science at the expense of transparency.

I rischi della “speed science”

Garantire l’integrità della ricerca scientifica in tempi di pandemia, quando paura (e pressioni/interessi politici ed economici) inducono a raggiungere in fretta dei risultati, non è impresa facile. Se è importante avere accesso con rapidità a nuovi dati scientifici, man mano che vengono raccolti, perché possano essere condivisi, il rischio è che la “speed science”, ovvero la scienza ad alta velocità ingaggiata dall’emergenza, possa favorire la diffusione di risultati incompleti o erronei che portano a prendere decisioni di politica sanitaria basate su studi non esattamente appropriati1. «La letteratura corrente sui trattamenti per la malattia covid-19 da coronavirus, il SARS-CoV-2, è piena di comunicazioni aneddotiche di successi di trial clinici basati su piccoli numeri di pazienti o su studi osservazionali inconclusivi»2. The Economist ha calcolato che a partire dal mese di gennaio 2020 il numero di pubblicazioni scientifiche su covid-19 è raddoppiato ogni due settimane: quasi 200 “paper” al giorno3. Una sorta di “paperdemic”, ovvero una pandemia da pubblicazioni, che rischia di proliferare in maniera incontrollata senza un valido scrutinio, ha scritto Ricardo Jorge Dinis-Oliveira, dell’University Institute of Health Sciences di Porto, in Portogallo. Rispetto alla epidemia di SARS nel 2002 – la sindrome respiratoria causata sempre da un coronavirus – covid-19 ha prodotto durante i primi cinque mesi della pandemia un numero decisamente maggiore di studi pubblicati. Secondo un’analisi di ricercatori dell’università di Sydney, in Australia, in quel breve lasso di tempo, gli studi su covid-19 hanno costituito il 70 per cento di tutte le ricerche pubblicate negli ultimi cinquant’anni su tutti i vari coronavirus4. Una scienza ad alta velocità caratterizzata soprattutto dall’esplosione di pubblicazioni online in forma preprint, il mezzo preferito per rendere noti i risultati preliminari di ricerche sganciate dal vaglio dei revisori paritari o peer reviewer. Un modo questo per incoraggiare la rapida condivisione scientifica dei dati ma che, in tempi di pandemia, rappresenta «una sfida a mantenere integrità nella ricerca e a rispettare quei principi standard di correttezza globalmente riconosciuti»5.

Data mongering

Durante la pandemia il ruolo dei preprint è diventato preponderante. Circa il 40 per cento di 16mila articoli su covid-19 analizzati sempre dai ricercatori di Sydney e pubblicati su server come bioRxiv e medRxiv erano preprint4. La diffusione di scoperte discutibili su covid-19, riferisce Nature, ha spinto a rendere più severe le procedure di vaglio degli articoli preprint4. E BioRxiv e medRxiv hanno deciso di ingaggiare esperti per esaminare più da vicino i “paper” con affermazioni che «potrebbero causare danni, contraddire i consigli di salute pubblica o alimentare teorie del complotto. Ci sono ricerche come quelle sui farmaci che non dovrebbero eludere il processo di peer review e non venire immediatamente disseminate come preprints», ha detto a Nature Richard Sever, cofondatore di BioRxiv e medRxiv. La “infodemic”, ossia l’eccesso di informazioni, alcune accurate altre no, circolate sui media durante la pandemia, ha fatto da catena di trasmissione alla “paperdemic”: il potenziale virale dei preprint su notiziari e social media è stato analizzato da diversi studi7. La ricerca che mostrava un legame tra covid-19 e Hiv è stata twittata 17mila volte e ha raggiunto oltre 25 testate giornalistiche, nonostante sia stata poi ritrattata5. A maggio 2020 gli studi correlati a questa ricerca postati su BioRxiv e medRxiv erano circa tremila.

La competizione e la pressione a pubblicare con immediatezza può spingere i ricercatori, ha scritto il British Medical Journal (BMJ), a basare (inavvertitamente) i loro studi su metodi discutibili. E un articolo, sempre sul BMJ, ha fatto rilevare come «siano scarsamente segnalati i rischi di parzialità negli studi proposti e venga favorita la tendenza a conclusioni positive»8. Un esempio è quello dei test sierologici per determinare la diffusione dell’immunità contro il SARS-CoV-2 entrati in commercio molto rapidamente. Solo negli Usa sono stati una settantina quelli messi in vendita in un solo mese durante la prima fase della pandemia e non tutti accuratamente controllati dalla Food and Drug Administration (FDA), l’ente federale che valuta i farmaci. Chi li produce sostiene che hanno un’alta sensibilità e specificità ma i dati pubblicati a sostegno di ciò, quando sono stati commercializzati, erano ancora pochi. Il test rapido, il pungidito, che dà il risultato in una quindicina di minuti, ha una percentuale del 2 per cento di falsi positivi e fino al 15 per cento di falsi negativi, ammette intervistato da Nature il portavoce di Boston Biopharma che li produce. La scarsa trasparenza della ricerca su questi test preoccupa perché sempre più Paesi li usano per prendere decisioni sull’allentamento delle misure di sicurezza sanitarie9.

Un’analisi su più di 850 paper condotta da Amr Barakat dell’Università di Pittsburg Medical Center, in Pennsylvania, ha concluso che la velocità con cui vengono pubblicati articoli su covid-19 è otto volte maggiore rispetto a quelli non covid. Dal momento in cui viene sottoposto a una piattaforma online, un articolo impiega in media 20 giorni per essere pubblicato rispetto ai 119 di uno studio su un altro argomento. La pandemia ha accelerato il ricorso al “fast peer-review”, ossia a una revisione accelerata. E tempi più brevi avrebbero anche gli articoli sulla pandemia per uscire sulle riviste specializzate: i dati di questa analisi sono stati postati su medRxiv e non sono stati sottoposti a peer-review10. Un’altra ricerca che ha preso in esame 669 articoli usciti su 14 riviste di medicina a partire da gennaio 2020 ha concluso che i tempi (dal momento della presentazione alla pubblicazione) per quelli che avevano per argomento covid-19 erano stati in media 57 giorni di meno rispetto agli articoli che non parlavano di pandemia pubblicati prima dell’ottobre 201911.

In pochi mesi, tra gennaio e giugno 2020, gli articoli indicizzati su Web of Science e Scopus si stima siano stati 23.63412. Durante la pandemia il ricorso al “fast track” per velocizzare la peer-review degli studi solleva non pochi dubbi su correttezza e trasparenza: Lonni Besançon, della Monash University di Melbourne, in Australia, ha analizzato 12.682 articoli indicizzati su PubMed scoprendo che l’8 per cento erano stati revisionati e accettati per la pubblicazione lo stesso giorno in cui erano stati presentati. La ricercatrice, con il suo team, ha rilevato conflitti di interesse nel 43 per cento dei lavori: in alcuni casi gli autori erano anche membri dello staff editoriale delle riviste scientifiche12. Il gennaio 2020 il Wellcome Trust di Londra ha rilasciato una dichiarazione in cui invitava ricercatori, riviste e finanziatori a condividere le loro scoperte e dati su covid-19 rapidamente e apertamente. (Diverse importanti riviste, tra cui Nature, Science e Pnas, hanno abbattuto i “paywall” per gli articoli su covid-19, almeno per la durata dell’epidemia).

Il fine giustifica i mezzi?

Secondo Raymond M. Johnson, professore di medicina e malattie infettive alla Yale School of Medicine, negli Usa, se in circostanze normali insistere sulla trasparenza e sulla pubblicazione completa dei dati per prendere decisioni è fondamentale, durante una pandemia questa giusta prassi ritarderebbe interventi che potrebbero salvare vite13. «Chiaramente i medici preferirebbero prescrivere trattamenti e vaccini che siano stati accuratamente testati in studi clinici randomizzati e sottoposti a peer-review con la piena trasparenza di tutti i dati, ma se il momento è critico questo non sempre è possibile. Quando non sappiamo quanti dati possano essere sufficienti per decidere e ci manca la comprensione di una malattia per poter interpretare i risultati, la trasparenza e la completa disponibilità dei dati (prima di poter prescrivere) diventano improponibili in una situazione di emergenza. Stiamo affrontando una pandemia in rapida evoluzione e dovremmo essere pronti ad approvare prodotti senza dati completi ed esaustivi con pubblicazioni non peer-reviewed e senza un’approvazione normativa»13. Di diverso avviso è Peter Doshi, associate editor del BMJ e uno dei massimi esperti di politiche di valutazione di efficacia e sicurezza dei farmaci, che controbatte le affermazioni di Raymond M. Johnson. «La fiducia che noi riponiamo nei medicinali approvati rappresenta una buona ragione per insistere sulla disponibilità e sulla trasparenza dei dati, anche in presenza di una pandemia. Pochi non sarebbero d’accordo sull’importanza della trasparenza dei dati che anche in tempi normali resta una prio­rità – e dunque perché non richiederla durante una pandemia? Il fatto è che la trasparenza costituisce le fondamenta per una informazione di cui fidarsi. La segretezza, al contrario, comporta rischi che non è il caso di affrontare»14.

Il primo rischio di non tener conto di tutte le pubblicazioni scientifiche è che si esagerino i benefici di un farmaco, come è avvenuto per clorochina e idrossiclorochina. Il secondo è che vengano sottostimati gli effetti collaterali. «Un anno dopo che nuovi vaccini vennero prodotti e immessi sul mercato a grande velocità per far fronte nel 2009 alla minaccia dell’influenza suina H1N1, nella fase post-marketing si registrarono casi di narcolessia in diverse persone che avevano ricevuto il vaccino Pandemrix. Ma ci vollero altri sette anni – e una causa legale – perché venissero fuori i rapporti di farmacovigilanza del produttore i quali suggerivano che i problemi di sicurezza del vaccino erano stati in realtà segnalati in tempo reale durante la pandemia»14. Continua Doshi: «I benefici della trasparenza vanno ben oltre una conoscenza più vera sulla sicurezza ed efficacia di un “prodotto”, servono per esempio a guadagnarsi la fiducia della gente. Esiste una sorta di catena della fiducia: solo se i dati sono resi disponibili è possibile ad altri ricercatori, che hanno la capacità di farlo, analizzarli e validarli. Perché per potersi fidare le persone devono avere la certezza che quei risultati sono stati sottoposti a un rigoroso scrutinio. Non ci sono le basi perché le industrie farmaceutiche si appellino alla confidenzialità commerciale, dal momento che la maggior parte dei prodotti che abbiano una prospettiva di mercato hanno già avuto la garanzia di profitti massicci attraverso l’acquisto preventivo fatto dai governi. Non ci dovrebbe essere preoccupazione alcuna sulla protezione dei brevetti… Prima che qualsiasi trattamento o vaccino sia reso disponibile su larga scala, i protocolli di studio dovrebbero essere di dominio pubblico, insieme all’analisi statistica, ai risultati dei trial clinici, al monitoraggio dei dati del paziente, e alla documentazione delle agenzie regolatorie e altri stakeholder». La trasparenza dei dati non è solo una cosa “bella da avere”. Annunci fatti senza l’accesso ai dati – sia che appaiano in pubblicazioni peer-reviewed o in preprint senza peer-review – non sono affermazioni scientifiche.

Storie parallele:
la scienza fatta tramite comunicati stampa

«La storia della pandemia covid-19 è disseminata non solo di vite perse ma anche di trattamenti pubblicizzati come fantastici e acquistati a caro prezzo per poi scoprire che non funzionavano. Nonostante esistessero già prove della loro inadeguatezza. Una dimostrazione di quanto poco e lentamente noi impariamo dalla storia passata», scrive in un editoriale Fiona Godlee, direttrice del BMJ15. La vicenda del remdesivir, il farmaco antivirale sviluppato dalla Gilead Sciences per il virus ebola, e pubblicizzato come utile per covid-19, ha molto in comune con la saga del Tamiflu (oseltamivir), il medicinale che nel 2009, quando si presentò la minaccia dell’influenza suina, H1N1, venne acquistato nel mondo per miliardi di dollari16. «All’inizio della pandemia entrambi i farmaci furono pubblicizzati basandosi su ricerche di scarsa qualità e su scarsi numeri, perlopiù finanziate dall’industria che li produceva. E con effetti collaterali non adeguatamente riferiti e rivalidati»16. Ed entrambi, oseltamivir e remdesivir, sono stati comprati in grandi quantità dai governi senza che si disponesse di dati validi a sostegno dell’opportunità del loro acquisto. Entrambi con effetti collaterali non studiati o segnalati in modo inadeguato. La verità su Tamiflu è emersa solo dopo anni di lavoro della Cochrane Collaboration, un’iniziativa internazionale no-profit nata con lo scopo di valutare l’efficacia e la sicurezza di interventi medici, e di giornalisti investigativi, mentre dubbi sulla rapida approvazione di remdesivir sono stati avanzati fin da principio.

L’intricata storia del Tamiflu si intreccia con la controversa vicenda della annunciata pandemia suina che nel 2009 seminò il panico: diversi governi, in previsione di un evento, poi non verificatosi, accumularono scorte di oseltamivir. Precauzione adottata in accordo con il piano pandemico dell’Organizzazione Mondiale della Sanità (OMS): una sua commissione di esperti, su cui pesavano gravi conflitti di interesse17, definì l’antivirale un «intervento farmacologico chiave per la prevenzione dell’influenza nelle fasi precoci di un evento pandemico, quando non è ancora disponibile un vaccino»18. L’allarme lanciato dall’OMS innescò la corsa all’antivirale. Una valanga di ordinazioni del Tamiflu giunsero alla Roche che produceva e commercializzava il farmaco, il cui brevetto apparteneva a Gilead Sciences. Fu la stessa Commissione europea a raccomandare ai Paesi membri di farne scorte sufficienti a coprire il 25 per cento della popolazione. Quantità che, secondo fonti comunitarie, sarebbe stata suggerita dall’OMS1. In previsione della pandemia solo gli Usa acquistarono 65 milioni di dosi del farmaco per circa un miliardo e mezzo di dollari; la Gran Bretagna spese oltre mezzo miliardo di euro per far scorte di 40 milioni di dosi; e l’Italia 16 milioni di dosi. Nel 2009, c’erano 96 Paesi che possedevano oseltamivir in quantità sufficienti per “curare” 350 milioni di persone.

Come aveva ottenuto il Tamiflu le credenziali per essere “raccomandato” addirittura dalle istituzioni che hanno il compito di vegliare sulla sanità pubblica? Come era stato possibile che a fronte di assenza di solide prove l’OMS avesse raccomandato l’utilizzo dell’antivirale e l’Agenzia Europea per i Medicinali (EMA) ne avesse affermato i benefici? Tom Jefferson, uno dei revisori della Cochrane Collaboration, chiese delucidazioni a entrambe le istituzioni ricavandone risposte contraddittorie18. «Il ruolo delle agenzie regolatorie, che danno il varo all’ingresso sul mercato dei farmaci, dovrebbe essere quello di proteggere i pazienti. E quello dei politici di prendere decisioni per il bene pubblico. La presunta minaccia di una pandemia da H1N1 ha fatto agire in maniera opportunistica e irresponsabile. I politici hanno agito, timorosi di non essere all’altezza nell’affrontare la possibile crisi sanitaria, senza basarsi sulle evidenze. E il bene dei pazienti, sebbene tutte le decisioni siano state prese con l’idea di proteggere loro, ha contato poco o niente», ha scritto Kamran Abbasi, in un editoriale sul BMJ19. Il dubbio è che la saga del Tamiflu sia stata più un’operazione di marketing che di salute pubblica. E che la lezione, come ha sottolineato Fiona Godlee sul BMJ15, sia servita a poco.

La storia del remdesivir, l’antivirale di cui gli Usa con atteggiamento monopolistico si sono assicurati nel giugno 2020 grandi scorte, lasciandone sprovvista l’Europa e il resto del mondo (svantaggio rivelatosi provvidenziale), ricalca infatti quella di oseltamivir, anche se con qualche modifica nel copione20. «Ovviamente in una pandemia c’è una forte spinta a trovare rapidamente cure efficaci, e paradossalmente il remdesivir poteva apparire come una buona notizia. Le prove dei suoi benefici clinici si basano su uno studio randomizzato controllato, in cui i partecipanti (1063) vengono assegnati in modo casuale a due gruppi: quello che riceve il trattamento e quello di controllo che non lo riceve. Lo studio sperimentale, pubblicato su The New England Journal of Medicine (NEJM), dimostra una riduzione del tempo di guarigione nel primo gruppo21. Ma nessun effetto sulla mortalità… Ora è risaputo che i trial sponsorizzati dall’azienda che produce il farmaco, interrotti prematuramente, mal eseguiti, con un blinding non riuscito, senza un follow-up, contribuiscono a esagerare gli effetti. E il trial di remdesivir, sponsorizzato dall’industria, è stato interrotto prematuramente e con un campionamento in cieco imperfetto»20, scrive James M. Brophy, professore di medicina ed epidemiologia, sul BMJ. «Ma quando il principale esperto statunitense di coronavirus descrive lo studio sopra menzionato come “un evidente effetto positivo e significativo nel diminuire il tempo di recupero”, la posta in gioco è chiaramente virata all’ottimismo impedendo una valutazione oggettiva, critica e completa delle evidenze».

Ma che cosa era successo prima di giugno 2020? Il 29 aprile, giorno in cui viene pubblicato uno studio che dimostra come remdesivir non abbia alcun effetto significativo nei pazienti ricoverati, l’industria farmaceutica che lo produce affretta la pubblicazione di risultati provvisori di un trial più favorevole, quello pubblicato sul NEJM, resi noti attraverso un comunicato stampa e con il pieno avallo della Casa Bianca20. I tanto decantati ma minimi benefici mostrati nelle persone gravemente malate vengono utilizzati per giustificare l’approvazione da parte della FDA e per l’acquisto in tutto il mondo di remdesivir, anche se le prove dicono che i benefici dell’antivirale sono pochi, se non inesistenti22. Una “rapid recommendation” del BMJ, prodotta in collaborazione con l’OMS, si esprime infine contro l’uso del remdesivir nei pazienti ospedalizzati con covid-19 di quale che sia gravità: «non ci sono attualmente evidenze che il farmaco migliori la sopravvivenza»23. La “recommendation” del 20 novembre 2020 è frutto del lavoro di un team internazionale di esperti che hanno revisionato i dati di quattro studi clinici randomizzati (considerati il gold standard della ricerca) su più di 7mila pazienti24. «La scienza fatta tramite comunicati stampa, basata su analisi transitorie o non ad hoc, e senza la possibilità di accedere ai dati, affligge anche la nostra conoscenza sui vaccini candidati anti-covid-19»25. I pazienti e il pubblico meritano qualcosa di meglio. E così anche i professionisti della salute. Pandemia o non pandemia, le decisioni devono essere basate sullo scrutinio dei dati completi provenienti da studi indipendenti da legami con chi produce farmaci e vaccini26.

La fretta e gli articoli ritrattati

I sistemi per tutelare l’integrità della ricerca non sono privi di difetti e la pandemia li ha resi ancor più evidenti proprio per il loro potenziale impatto immediato su processi decisionali e per le inevitabili ripercussioni sulla salute pubblica. Un esempio clamoroso di come la fretta possa rappresentare un rischio per l’integrità scientifica – e di quanto il processo di peer-review sia fallibile – è stata la ritrattazione di due articoli che ha coinvolto due tra le più prestigiose riviste scientifiche, The Lancet e il NEJM: in un solo mese (giugno 2020) e in una sola settimana hanno rispettivamente ritirato – non molto tempo dopo la loro pubblicazione – due studi su trattamenti anti-covid. Il primo pubblicato il 22 maggio su The Lancet riguardava idrossiclorochina e clorochina, farmaci anti-malaria, che nonostante l’assenza di prove cliniche rigorose sono stati propagandati perfino dalla Casa Bianca come efficaci27. «Non si era mai vista una settimana come questa», ha scritto Ivan Oransky, co-fondatore di Retraction Watch e paladino dell’integrità scientifica. «Covid-19 ha creato una tempesta perfetta mettendo in evidenza tutte le vulnerabilità del sistema di pubblicazione scientifica»28.

L’articolo ritrattato dal NEJM, pubblicato il 2 maggio, riportava i dati sull’utilizzo di un farmaco per la pressione del sangue, un ACE-inibitore, nei pazienti covid-19. «Lo studio riferiva che medicinali usati per tenere sotto controllo la pressione, come l’angiotensina, diminuissero il rischio di morte nei malati. Ma erano attendibili i dati su cui si basavano le conclusioni degli autori dell’articolo?»29. Entrambi gli studi ritrattati utilizzavano dati raccolti da Surgisphere, una società americana con sede a Chicago di analisi sanitaria, fondata nel 2008 da Sapan Desai, che compare come co-autore, «e che non sembra possedere un background scientifico e medico… I dati provengono da centinaia di ospedali distribuiti nel mondo: 671 ospedali e 96mila pazienti per lo studio pubblicato su The Lancet e 169 ospedali e 9mila pazienti per quello sul NEJM. L’enorme database di Surgisphere non sembra essere mai stata usata «in peer-reviewed studies until May», riferisce Nature. «E l’accesso ai dati grezzi non è stato reso possibile agli autori, o sono stati messi a disposizione di un terzo revisore»30.

La buona scienza richiede tempo, verifiche e replicazione dei dati. «Ma negli ultimi mesi il processo scientifico per tutto ciò che riguarda covid-19 è stato accelerato. Quella che una volta era una maratona è stata compressa in una corsa di 400 metri. Cosa peraltro comprensibile, considerate le migliaia di morti. I ricercatori fanno a gara per produrre risultati, i giornali scientifici bruciano i tempi per pubblicare e i mass media fanno altrettanto per elargire nuove informazioni a un pubblico spaventato e ansioso di sapere. E nel contempo, opinioni non verificate circolano sui social media e sono propagandate alla Tv dai cosiddetti esperti. È così che la cattiva scienza – o quanto meno una scienza incompleta – trapela all’esterno. Tutto accade troppo in fretta. Veloce ma sbagliato è solo sbagliato»31.

Se la cautela è d’obbligo

Soltanto la completa trasparenza e il rigoroso scrutinio dei dati consentono di prendere decisioni informate, afferma Peter Doshi in un commento sul BMJ blogs a proposito dei due vaccini anti-covid, Pfizer e Moderna, che hanno ottenuto l’approvazione dalle agenzie regolatorie25. «A prima vista i risultati delle sperimentazioni sono sbalorditivi. Pfizer riferisce 170 casi di malattia (su 44mila volontari) con un divario notevole: 162 casi nel gruppo con placebo contro 8 nei vaccinati. Mentre Moderna conta 95 casi su 30mila volontari: 90 nei placebo contro i 5 tra i vaccinati, inducendo entrambe le aziende a parlare di un’efficacia attorno al 95 per cento. Mettiamola in prospettiva. Primo, si riporta un rischio relativo e non assoluto della riduzione del rischio di ammalarsi, meno dell’1 per cento; secondo, questi risultati non si riferiscono all’endpoint primario (esito principale) degli studi di covid-19, ovvero alla capacità del vaccino di salvare vite e all’efficacia in sottogruppi come gli anziani fragili. Ciò ancora non si sa. Terzo, questi risultati riflettono un arco temporale relativamente vicino alla vaccinazione, e non sappiamo nulla sulla performance del vaccino a 3, 6, o 12 mesi; quarto, i bambini, gli adolescenti, le persone immunocompromesse sono ampiamente escluse dai trial, perciò mancano dati su queste popolazioni importanti», scrive Doshi25.

L’urgenza di correggere il corso della pandemia ha sviato, a suo parere, l’attenzione da endpoint primari. E, nonostante l’esistenza di meccanismi di regolamentazione per garantire l’accesso ai vaccini mantenendo alta la barra dell’autorizzazione (che consentirebbe a studi controllati con placebo di continuare abbastanza a lungo per rispondere a quesiti importanti), «è difficile evitare l’impressione che gli sponsor stiano rivendicando una vittoria, concludendo i loro trial (Pfizer ha già inviato ai partecipanti alla sperimentazione una lettera in cui si propone il “passaggio” dal placebo al vaccino)2, e la FDA sarà sotto una enorme pressione per autorizzare rapidamente vaccini. Dal momento che il discorso si sposta sulla distribuzione dei medesimi, non bisogna perdere di vista le prove: il controllo indipendente dei dati inerenti ai trial aumenterà la fiducia e la credibilità dei risultati. Ci potrebbero essere anche limitazioni all’accesso ai risultati degli studi di cui però dobbiamo essere consapevoli»25.

Circa cinque settimane dopo che Doshi sollevò i quesiti sopra citati sui risultati ottenuti nei trial dei vaccini anti-covid di Moderna e Pfizer, due pubblicazioni su riviste e circa 400 pagine di dati di riepilogo sono state rese disponibili (di pubblico dominio prima erano solo i protocolli di studio e alcuni comunicati stampa) sotto forma di rapporti presentati all’FDA quando l’agenzia non aveva ancora concesso l’autorizzazione di emergenza ai due vaccini. «Se alcuni dettagli aggiuntivi sono rassicuranti, altri non lo sono. E sollevano nuova preoccupazione sull’affidabilità e sulla significatività dei risultati di efficacia riportati… Per affrontare le questioni aperte occorre disporre dei dati grezzi ma finora nessuna delle aziende sembra disposta a condividere i dati con un terzo»26. Pfizer afferma di rendere disponibili i dati «su richiesta e previa revisione». Ciò significa essere lungi dal disporne, ma almeno lascia una porta aperta: quanto sia aperta non è chiaro, dal momento che nel protocollo dello studio si dice che inizierà a rendere disponibili i dati solo 24 mesi dopo il suo completamento. Circa la condivisione dei dati Moderna afferma che «potrebbero essere disponibili su richiesta una volta completato il trial». Questo si traduce per qualcuno tra la metà e la fine del 2022, poiché il follow-up è previsto per due anni. Le cose potrebbero non essere diverse per il vaccino di Astra-Zeneca che ha promesso dati a livello di paziente «quando lo studio è completo». E la voce ClinicalTrials.gov per il vaccino russo Sputnik dice che non ci sono piani per condividere i dati dei singoli partecipanti al trial. «EMA e Health Canada, tuttavia, potrebbero condividere i dati per qualsiasi vaccino autorizzato molto prima. EMA si è già impegnata a pubblicare i dati presentati da Pfizer sul proprio sito “a tempo debito” come fa Health Canada»26.

Prima che Donald Trump decidesse di usare la vaccinazione come viatico del suo secondo trionfo elettorale, l’iter previsto dall’FDA per la produzione di un nuovo farmaco (o vaccino) dopo i test di tossicità su animali, prevedeva che nella fase 1 e 2 sulle persone fosse sicuro e poi, solo a questo patto, che si dimostrasse efficace nel combattere la malattia o impedirla, come nel caso di un vaccino (fase 3). Le prove dovevano provenire da studi clinici con caratteristiche standardizzate nei quali l’azienda stabiliva un endpoint primario, l’unico che avesse rilevanza perché lo studio si potesse considerare di successo. Gli endpoint secondari erano pensati per esaminare gli altri possibili effetti. «A fine giugno 2020 la FDA aveva affermato che un’azienda farmaceutica avrebbe dovuto dimostrare attraverso studi clinici randomizzati che il suo vaccino è sicuro e almeno al 50 per cento efficace rispetto al placebo per qualificarsi per l’approvazione. Ma per raggiungere la significatività statistica di un risultato così ambizioso ci sarebbero voluti tempi lunghi e così l’FDA ha abbassato l’asticella decidendo di accettare, in via emergenziale, un vaccino la cui protezione contro SARS-CoV-2 fosse suggerita da cambiamenti di esiti surrogati, come il livello di anticorpi»32.

Stephen Hahn, commissioner all’FDA, promise pubblicamente che qualsiasi vaccino sarebbe stato controllato da un comitato consultivo, ma avrebbe potuto essere annullato da Alex M. Azar II, segretario alla salute durante l’amministrazione Trump, o dalla stessa Casa Bianca. L’impegno dell’FDA a rafforzare la propria credibilità fa seguito a diversi passi falsi. Dopo che il presidente Trump aveva pubblicizzato il farmaco antimalarico, l’idrossiclorochina, l’agenzia aveva dato a giugno un’autorizzazione di emergenza per il farmaco come terapia per covid-19, per poi capovolgere la sua decisione tre mesi dopo in assenza di prove di suoi benefici. Anche i CDC si sono piegati sotto la pressione politica, come ritardare importanti report scientifici su covid-19 dopo che funzionari fedeli a Trump si erano opposti alla loro pubblicazione»33.

La politica e la scienza

Covid-19 ha messo in particolare evidenza il rischio di una politicizzazione della scienza34. «I politici e i governi stanno sopprimendo la scienza. Lo fanno nell’interesse pubblico, dicono, per accelerare la disponibilità di diagnosi e trattamenti. Lo fanno per favorire l’innovazione, per portare i prodotti sul mercato a una velocità senza precedenti. Entrambi questi motivi sono in parte plausibili; i più grandi inganni si fondano su un granello di verità. Ma ciò che nascondono questi comportamenti è preoccupante. La scienza viene sacrificata a interessi politici e finanziari. Una appropriazione indebita e opportunistica. Vale anche per scienziati ed esperti. La pandemia ha rivelato come il complesso medico-politico possa essere manipolato in caso di emergenza, in un momento in cui sarebbe ancor più importante salvaguardare la scienza», scrive Kamran Abbasi, direttore esecutivo del BMJ35. Un esempio di uso improprio della scienza a scopo politico è stata la strategia proposta dal governo britannico per gestire la pandemia: l’immunità di gregge. Il modello su cui si basava non è stato reso pubblico e ci sono voluti alcuni giorni prima che un team di scienziati dell’Imperial College pubblicasse quali potessero essere le conseguenze di una decisione del genere per affrontare covid-1936. Quando il modello è stato pubblicato, si è visto che avere l’immunità di gregge come obbiettivo significava che il 60% della popolazione avrebbe dovuto infettarsi, con quasi mezzo milione di morti. Il governo britannico ha abbandonato questo “modelling” optando per misure di precauzione rigorose, come in altri Paesi. Tuttavia, durante questo lasso di tempo, il numero di casi confermati è aumentato da 590 il 12 marzo 2020 a più di 2500 casi entro il 17 marzo 2020, con un incremento di decessi37.

La risposta alla pandemia del Regno Unito, a parere di Abbasi, è un esempio emblematico di soppressione di scienza o scienziati. Ma ne cita altri. Le deliberazioni del Scientific Advisory Group for Emergencies (SAGE) sono state inizialmente segrete sino a quando una fuga di notizie non ha costretto alla trasparenza. E sempre una fuga di notizie ha rivelato il coinvolgimento inopportuno di consiglieri governativi in SAGE. Lo scorso ottobre il direttore di The Lancet, Richard Horton, ha denunciato con un tweet il fatto che a uno degli autori di una ricerca (uno scienziato del governo britannico) è stato impedito proprio dal governo di parlare ai media per via del «difficile panorama politico»38. Un altro esempio riguarda la controversia su un test per gli anticorpi. L’operazione Moonshot lanciata dal primo ministro inglese per lo screening di massa dipendeva dalla disponibilità immediata e ampia di accurati test diagnostici rapidi. Ma, come ha rivelato una ricerca sul BMJ, il governo si è procurato un test per gli anticorpi al di sotto delle prestazioni dichiarate dai produttori39,40. Ricercatori di Public Health England e istituzioni che la affiancano hanno saggiamente insistito perché fossero pubblicati i risultati di un loro studio prima che il governo si impegnasse ad acquistare un milione di questi test, ma sono stati bloccati dal dipartimento della salute e dall’ufficio del primo ministro41.

Perché procurarsi un prodotto senza il dovuto controllo? Public Health England ha poi tentato, senza successo, di bloccare il comunicato stampa del BMJ sui risultati della ricerca. I politici spesso affermano di tener conto della scienza, ma è una semplificazione fuorviante. La scienza è raramente assoluta. Poche volte si applica a ogni contesto o popolazione… Meglio sarebbe che i politici, coloro designati a compiere delle scelte, fossero informati e guidati dalla scienza quando decidono politiche che riguardano il pubblico. Un approccio che riesce a ottenere la fiducia della gente e dei decisori solo se la scienza è disponibile allo scrutinio e libera da interferenze politiche, e solo se il sistema è trasparente e non compromesso da conflitti di interesse42. Ci sono stati casi in Inghilterra (ma non è un fenomeno solo inglese) di scienziati e responsabili del governo con partecipazioni in società che producono test diagnostici per covid-19, trattamenti e vaccini43. «Si può ignorare o fare un uso mirato della scienza – un’altra forma di utilizzo improprio – e indulgere in pratiche anticoncorrenziali che favoriscono i propri prodotti e quelli di amici e collaboratori»44.

Quali le soluzioni possibili?

Come salvaguardare la scienza in tempi eccezionali come questi, si chiede Abbasi? Il primo passo è la piena dichiarazione di interessi concorrenti da parte di governo, politici, consulenti scientifici e altri incaricati, quali i responsabili di approvvigionamento di test diagnostici e vaccini. Il passo successivo è la piena trasparenza su sistemi e processi decisionali: è importante sapere chi è responsabile di cosa. «Una volta che trasparenza e responsabilità sono state stabilite come norme, gli individui ingaggiati dal governo dovrebbero idealmente lavorare solo in aree estranee a interessi concorrenti. Se una regola così rigida diventa impraticabile, buona pratica sarebbe che le persone con conflitti di interesse non venissero coinvolte nelle decisioni su prodotti e politiche in cui hanno un ritorno finanziario»35. La posta in gioco è alta per tutti: politici, consulenti scientifici e incaricati del governo. «Le loro carriere e i conti bancari possono dipendere dalle decisioni che prendono. E hanno una responsabilità e un dovere maggiori perché la scienza è un bene pubblico… Sopprimerla, vuoi ritardando la pubblicazione di dati, selezionando ricerche favorevoli o imbavagliando gli scienziati, è un pericolo per la salute pubblica, perché espone a interventi non sicuri o inefficaci e impedisce di beneficiare di interventi migliori. La pubblicazione chiara, aperta e anticipata delle basi scientifiche per le decisioni prese dai politici costituisce un requisito fondamentale».

La velocità e il volume di dati pubblicati nell’ultimo anno su covid-19 hanno reso evidente la necessità, peraltro riconosciuta da tempo, di tutelare l’integrità della ricerca scientifica. «Sebbene non ci siano sistemi rapidi per modificare comportamenti e aumentare gli standard di integrità, noi riteniamo che debbano essere compiuti alcuni passi immediati», scrivono quattro scienziati che intervengono sul BMJ blogs su questo tema5. In primo luogo la comunità scientifica, sia gli individui che le società professionali, dovrebbero rendere noti i casi in cui ritengono che gli standard di integrità siano compromessi: segnalare una ricerca inaffidabile è responsabilità di tutta la comunità scientifica45. In secondo luogo, gli organi consultivi del governo dovrebbero essere trasparenti, rivelando i conflitti di interesse e rendendo disponibili gli studi su cui si basano le loro raccomandazioni46. La composizione dei comitati tecnici dovrebbe riflettere una gamma di punti di vista e l’appartenenza dei suoi membri a gruppi o società deve essere dichiarata. Terzo, i direttori e gli autori delle riviste scientifiche dovrebbero essere proattivi nell’assicurare che lo “status” di revisione delle loro pubblicazioni sia chiaro ed esplicitato.

Significa che le riviste dovrebbero dichiarare se un articolo è stato sottoposto a peer-review, o se la revisione dei pari è stata di tipo rapido. Tutte le piattaforme di preprint dovrebbero come politica standard segnalare a chi legge che gli studi non sono stati peer-reviewed e andrebbero perciò letti con la dovuta circospezione. Molte piattaforme di preprint già lo fanno. In quarto luogo, è stato richiesto agli scienziati di rendersi disponibili a sottoporre a critica la loro ricerca nelle prime fasi del processo, e cioè prima che inizi la raccolta dei dati, in modo tale che la consistenza di metodo, materiali e approccio analitico possa essere anticipatamente peer-reviewed sia formalmente sia informalmente. Ed è esattamente ciò che si propone di fare il Registered Report per la ricerca su covid-19 nato per iniziativa della rivista Royal Society Open Science. Significa che uno studio viene sottoposto a revisione tra pari prima della raccolta dei dati, in modo tale che metodo e analisi vengano validati in anticipo nella loro solidità, assicurando la qualità dei risultati47. Altre riviste, come PloSBiology, hanno seguito l’esempio di Royal Society Open Science offrendo revisioni rapide per il Registered Report su covid-1947.

«L’affidabilità della ricerca utilizzata per prendere decisioni, come allentare le misure di lockdown, è estremamente importante. Il rischio che si corre basandosi su studi imperfetti che mancano di una adeguata revisione da parte di comitati predisposti è di riaccendere la pandemia e portare a un’ulteriore instabilità economica. I milioni attualmente investiti nella ricerca saranno di scarsa utilità se questa non sarà condotta, pubblicata e usata con integrità»5. Anche le riviste scientifiche si stanno dando nuovi strumenti di valutazione per favorire trasparenza e accessibilità dei dati pubblicati. Si mira a incoraggiare direttori ed editori a ripensare – e, in molti casi, a rivedere radicalmente – il loro impegno verso questo scopo. «Tutti odiano l’impact factor. Ma per ora non ci sono alternative. Questo è il primo passo verso un processo di valutazione più maturo per le riviste scientifiche», ha detto Brian Nosek, direttore esecutivo dell’organizzazione Center for Open science che ha creato il sistema noto come “Top factor”48.

L’obiettivo è individuare elementi di correttezza che non sono presi in considerazione da metri di giudizio standard. La qualità delle riviste scientifiche viene valutata in base a dieci criteri diversi, tra cui la disponibilità dei dati, la loro trasparenza e le politiche di preregistrazione, e cioè il processo di registrazione formale di un piano di ricerca prima che uno studio inizi. «Lo stato di trasparenza nell’ecosistema scientifico è pessimo e occorrono modifiche», sostiene Tom Hardwicke, dell’Institute of Health di Berlino ed esperto di pratiche di ricerca e policies editoriali. «Tuttavia è troppo presto per dire se il Top factor o approcci simili possano significativamente migliorare le pratiche editoriali. Anche se le riviste annunciano cambiamenti della loro politica per meglio classificarsi, la comunità scientifica dovrebbe rimanere vigile per assicurarsi che certe modifiche siano effettivamente messe in pratica e abbiano l’effetto desiderato su trasparenza e appropriatezza»48.

Il mondo si è scoperto impreparato ad affrontare la pandemia, nonostante i proclami politici, e ci sono stati governi, come quello americano, che hanno da principio preso posizioni anti-scientifiche (come dubitare dell’utilità della mascherina), o altri che non hanno risposto con tempestività alla minaccia incombente, come quello inglese. Le stesse istituzioni delegate a proteggerci, quale l’OMS, hanno avuto incertezze e tentennamenti49. In questo scenario di paura e di emergenza, di speranze e fallimenti, di decisioni mancate e di ritardi, è comprensibile che non solo i media ma anche le riviste scientifiche avessero desiderio di “buone notizie”, un desiderio molto forte che ha portato alla pubblicazione di false scoperte e a seguire false piste47. Il Registered Report potrebbe incoraggiare i ricercatori, presi dalla fretta di produrre risultati, a recuperare rigore e trasparenza. La fretta è sempre cattiva consigliera e la scienza, come sosteneva Otto Neurath, economista e sociologo che negli anni ’20 fu tra i fondatori del Circolo di Vienna, non è il regno delle certezze, e per ottenere risultati occorrono tempo e dialettica: la conoscenza scientifica nasce dal dibattito.

Conflitto di interessi: l’autrice dichiara l’assenza di conflitto di interessi.

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