Dalla letteratura

Antibiotici e covid-19

Per anni, i principali esperti di salute pubblica e molti decisori hanno lanciato l’allarme a proposito della crescente minaccia dei batteri resistenti agli antibiotici. Più antibiotici vengono utilizzati, più velocemente emergono, si moltiplicano e si diffondono ceppi resistenti, estremamente difficili o impossibili da trattare con i farmaci disponibili.

Ridurre al minimo necessario la prescrizione inappropriata di antibiotici è fondamentale per rallentare la diffusione di questi patogeni. A partire dall’avvio dell’emergenza pandemica, è stata riferita inizialmente in modo aneddotico una più frequente prescrizione di antibiotici ai pazienti con covid-19. Certamente da parte di clinici preoccupati per possibili sovrainfezioni batteriche.

L’Agenzia Italiana del Farmaco (AIFA) rende regolarmente disponibile il dettaglio regionale sull’uso dei farmaci durante la pandemia covid-19 attraverso il quale è possibile analizzare l’andamento dei consumi dei medicinali utilizzati per il trattamento della covid-19, dei farmaci iniettivi e a uso ospedaliero nonché di quelli acquistati nelle farmacie territoriali. Da questi dati emerge come l’azitromicina continui a registrare aumenti notevoli sia a livello territoriale sia ospedaliero, in particolar modo in Campania (+250%) e Lazio (+300%), sebbene AIFA non ne abbia mai approvato l’uso per covid-191.

La variabilità regionale dei consumi farmaceutici è molto elevata nel nostro Paese. Ma la sovraprescrizione di antibiotici è un problema che ci accumuna ad altre nazioni. Il Pew Charitable Trusts ha condotto uno dei più grandi studi fino a oggi sull’uso di antibiotici in pazienti covid-19 ospedalizzati, utilizzando il database delle cartelle cliniche elettroniche di IBM Watson Health per acquisire dati su circa 5000 pazienti e quasi 6000 ricoveri ospedalieri da febbraio a luglio 20202. Cosa è stato trovato nello studio?

La maggior parte dei ricoveri ospedalieri per covid-19 ha comportato la somministrazione di uno o più antibiotici. Oltre la metà dei ricoveri ospedalieri covid-19 considerati in questo studio (52%) ha avuto come risultato almeno una prescrizione di antibiotici, con il 36% dei ricoveri che ha comportato la prescrizione di più antibiotici durante il ricovero.

Rispetto al numero di pazienti covid-19 ospedalizzati che hanno ricevuto antibiotici, non molti malati di covid-19 avevano in realtà infezioni batteriche. Solo al 20% dei ricoverati è stata diagnosticata una polmonite batterica sospetta o confermata e al 9% è stata diagnosticata un’infezione delle vie urinarie acquisita in ospedale.

Nella maggior parte dei casi, gli antibiotici sono stati somministrati ai pazienti covid-19 prima della conferma di un’infezione batterica. Nel 96% dei ricoveri per pazienti con diagnosi di covid-19 durante i quali è stato prescritto un antibiotico, il paziente ha ricevuto il primo antibiotico al momento del ricovero o entro le prime 48 ore dal ricovero. In genere – dal momento che occorrono almeno 48 ore per confermare un’infezione batterica, osservano gli autori – sembra che i medici prescrivano antibiotici empiricamente, prima della conferma di un’infezione batterica.

I risultati dello studio inglese lasciano fortemente sospettare che non pochi pazienti abbiano assunto antibiotici inutilmente. I programmi di stewardship, sollecitati alle aziende ospedaliere dalle agenzie regolatorie e di accreditamento, mirano a garantire che gli antibiotici siano prescritti solo per infezioni batteriche note o sospette e che l’antibiotico giusto sia prescritto in maniera appropriata alla dose corretta e per la giusta durata. Questi programmi possono – e dovrebbero – svolgere un ruolo fondamentale nell’aiutare gli operatori sanitari a ridurre la prescrizione inappropriata associata a covid-19. Ma è essenziale che i programmi di stewardship dispongano delle risorse necessarie per garantire che i medici abbiano accesso alle informazioni necessarie per prendere le migliori decisioni riguardo il trattamento antibiotico per i pazienti e per migliorare la prescrizione.

Studi come quello del PCT e rilevamenti regolari come quello di AIFA possono giocare un ruolo essenziale per accrescere la consapevolezza dei professionisti e favorire una correzione delle pratiche prescrittive.

Fabio Ambrosino




Bibliografia

1. Agenzia Italiana del Farmaco. Monitoraggio sull’uso dei farmaci durante l’epidemia covid-19. http://aifa.gov.it/

2. Vaughn VM, Gandhi T, Petty LA, et al. Empiric Antibacterial therapy and community-onset bacterial co-infection in patients hospitalized with covid-19: a multi-hospital cohort study. Clin Infect Dis 2020: ciaa1239.

La povertà fa male alla salute

Ora lo sappiamo con maggior cognizione di causa anche per i malati di cancro, dato che in letteratura si tratta di una correlazione già studiata ed evidenziata. I pazienti oncologici che vivono in area socio-economicamente svantaggiate registrano peggiori outcome per la loro malattia. Finora gli studi clinici non avevano esaminato sistematicamente la relazione tra condizioni socio-economiche precarie ed esiti di malattia nei pazienti oncologici. Lo dimostra uno studio statunitense, supportato dallo NCI, appena pubblicato sul JCO1.

Si tratta di un vasto studio retrospettivo, condotto su 41.109 pazienti arruolati a suo tempo in 55 studi clinici di fase III o di fase II, sofferenti per tumori maggiori, studi condotti dallo SWOG Cancer Research Network tra il 1985 e il 2012. Il livello socioeconomico dei pazienti è stato dedotto dal codice di avviamento postale delle loro abitazioni, incrociato con l’Area Deprivation Index (ADI). Si è tenuto conto della sopravvivenza globale a 5 anni, della sopravvivenza libera da progressione (PFS) e della sopravvivenza tumore-correlata, correlando queste informazioni all’età, al genere e alla razza, oltre che alla situazione assicurativa, al rischio prognostico individuale e al risiedere in zone urbane o extra-urbane.

Rispetto a quei partecipanti a studi clinici che vivevano in aree affluenti (ADI 0%-20%), coloro che vivevano in aree particolarmente depresse (ADI 80%-100%) hanno fatto registrare degli esiti di malattia peggiori sia riguardo alla sopravvivenza (HR=1,28, 95% CI, tra 1,20 e 1,37, p<,001), sia rispetto alla PFS (HR=1,20, 95% CI, tra 1,13 e 1,28, p<,001) e anche rispetto alla sopravvivenza correlata al tipo di tumore (HR=1,27, 95% CI, tra 1,18 e 1,37, p<,001). I risultati sono stati confermati anche dopo aggiustamento tenendo conto della situazione assicurativa, del rischio prognostico e della residenza urbana o extra-urbana. Si è riscontrato un aumento continuo del rischio di tutti gli esiti all’aumentare del quintile ADI.

Nei pazienti oncologici con accesso all’assistenza diretta dal protocollo di studi clinici, un alto livello di deprivazione socioeconomica risulta associato a una peggiore sopravvivenza. Ciò dipende dal fatto che i più poveri hanno maggiori difficoltà ad accedere ai centri di cura e assistenza, ai programmi di screening e al momento della diagnosi la loro malattia è di solito già a uno stadio più avanzato. Ciò si traduce in un aumento del 28% del rischio di morte per i pazienti provenienti dalle aree maggiormente svantaggiate.




Bibliografia

1. Unger JM, Moseley AB, Cheung CK, et al. Persistent disparity: socioeconomic deprivation and cancer outcomes in patients treated in clinical trials. JCO 2021 (https://ascopubs.org/doi/full/10.1200/JCO.20.02602).

Donne e infarto miocardico acuto

Per le donne la probabilità che i sintomi dell’infarto miocardico vengano male interpretati dai medici del Pronto soccorso è maggiore rispetto agli uomini. È quanto emerge dai risultati di uno studio spagnolo presentato al meeting online Acute CardioVascular Care 2021 della European Society of Cardiology, che suggeriscono un rischio maggiore di diagnosi tardive o errate nelle pazienti con dolore toracico.

I ricercatori hanno analizzato le differenze di genere – in termini di presentazione, diagnosi e assistenza – relative a 41.828 pazienti (donne nel 42% dei casi) giunti in Pronto soccorso per un dolore toracico. In particolare, si sono concentrati sulla diagnosi iniziale ricevuta dai pazienti dopo una prima valutazione basata su storia clinica, esame obiettivo ed elettrocardiogramma.

Dai risultati è emersa una differenza significativa tra donne e uomini in termini di probabilità di arrivare in ospedale dopo 12 o più ore dall’inizio dei sintomi dell’infarto (41% vs 37%). Analizzando i casi in cui l’elettrocardiogramma non è stato sufficiente per effettuare una diagnosi definitiva, poi, è emerso che i medici avevano indicato meno frequentemente una “probabile sindrome coronarica acuta” nelle pazienti di sesso femminile rispetto a quelli di sesso maschile (39% vs 44,5%; p<0,001), a prescindere dal numero di fattori di rischio per l’infarto e dal tipo di dolore toracico. Una differenza, questa, che trova riscontro anche nel numero di diagnosi di infarto inizialmente sbagliate, pari al 5% nelle donne e al 3% negli uomini (p<0,001).

«L’infarto del miocardio è stato tradizionalmente considerato una malattia maschile – commenta Gemma Martinez-Nadal dell’Hospital Clinic di Barcellona, tra gli autori dello studio – ed è stato sottovalutato, sottodiagnosticato e sottotrattato nelle donne, le quali possono attribuire i sintomi allo stress o all’ansia. Sia le donne che gli uomini con dolore toracico, invece, dovrebbero cercare urgentemente assistenza medica».

Fabio Ambrosino

Screening della fibrillazione atriale negli over 75? Servono evidenze cliniche

I risultati di un trial clinico randomizzato pubblicato su JAMA Cardiology portano nuove evidenze a supporto dello screening della fibrillazione atriale nei pazienti ipertesi con più di 75 anni1. Nello studio SCREEN-AF, infatti, l’utilizzo continuativo di un sensore indossabile per la misurazione dell’elettrocardiogramma ha permesso di individuare un numero di casi di fibrillazione atriale 10 volte superiore rispetto a un approccio standard. Sono però necessari ulteriori studi per capire se questa maggiore capacità diagnostica possa trasformarsi in un reale beneficio clinico in termini di ictus, mortalità e sanguinamenti.

Il trial SCREEN-AF ha preso in considerazione 856 soggetti con un’età superiore ai 75 anni e ipertesi, randomizzati per prendere parte a un programma sperimentale di screening per la fibrillazione atriale o a un programma di controllo standard. Nel primo gruppo (n=434) lo screening ha previsto l’impiego continuativo di un sensore indossabile per la misurazione dell’elettrocardiogramma per due distinti periodi di due settimane a tre mesi di distanza l’uno dall’altro. Nel gruppo di controllo (n=422), invece, i soggetti sono stati sottoposti a due visite di controllo alla baseline e dopo sei mesi.

Sono stati individuati 23 casi (5,3%) di fibrillazione atriale nel gruppo sottoposto al programma di screening sperimentale e 2 (0,5%) nel gruppo di controllo (p=0,001), per un number needed to screen di 21. Il 75% dei pazienti per cui è stato possibile diagnosticare l’aritmia grazie al sensore indossabile è stato in seguito sottoposto a un trattamento anticoagulante. In generale, a sei mesi dall’inizio del trial questa strategia di prevenzione farmacologica ha interessato il 4,1% dei soggetti del programma di screening e lo 0,9% di quelli del gruppo di controllo.

I dati dello studio pubblicato su JAMA Cardiology, per quanto promettenti, non permettono però di concludere che una strategia di screening della fibrillazione atriale nei soggetti ipertesi con più di 75 anni sia clinicamente utile. È prima necessario capire se l’inizio di una terapia anticoagulante preventiva in questi pazienti comporti più benefici, in termini di una minore incidenza di ictus, o più rischi, in termini di un tasso maggiore di sanguinamenti. Non meno importante, infine, è stabilire se una strategia di screening per la fibrillazione atriale in questa popolazione permetta di ridurre effettivamente la mortalità.

Non tutte le fibrillazione atriali sono infatti uguali tra loro. Se da un lato il rischio di ictus associato a una forma sub-clinica diagnosticabile solo con un sensore indossabile è da considerarsi superiore a quello di una persona sana, dall’altro questo rischio è probabilmente inferiore a quello di un paziente con una fibrillazione atriale diagnosticata secondo un protocollo clinico standard. In altre parole, è possibile che un programma di screening che permette di individuare anche casi più lievi di fibrillazione atriale porti a un’inutile medicalizzazione di soggetti a basso rischio, al costo di una maggiore probabilità di incorrere in sanguinamenti per effetto dei trattamenti anticoagulanti.

«La vera domanda è: il gruppo sottoposto a screening intensivo andrà veramente incontro a meno ictus, senza che si verifichino troppe emorragie?», si chiede su Twitter Pierre Mégevand, neurologo de Les Hôpitaux Universitaires de Genève. Concorde anche Patrick Myers, cardiochirurgo dell’Hopital de la Tour di Ginevra: «Esatto! Non abbiamo dati per dimostrare che uno screening maggiore porti a risultati migliori, ma solo a più diagnosi e cure».

In conclusione, come scrivono Roopinder K. Sandhu e Christine Albert del Cedars-Sinai Hospital di Los Angeles in un editoriale di accompagnamento2, lo studio pubblicato su JAMA Cardiology costituisce «un importante contributo alla letteratura sul tema, in termini di una migliore definizione del metodo, della popolazione e del setting in cui prevedere uno screening per la fibrillazione atriale. Ma la storia potrà proseguire solo quando saranno disponibili i risultati degli studi che stanno valutando gli endpoint clinici, i rapporti di costo-efficacia e i potenziali danni. In ultimo, l’implementazione di tali programmi richiederà una valutazione della capacità dei sistemi sanitari di integrarli nella pratica quotidiana».

Fabio Ambrosino




Bibliografia

1. Gladstone DJ, Wachter M, Schmalstieg-Bahr K, et al. Screening for Atrial Fibrillation in the Older Population. A Randomized Clinical Trial. JAMA Cardiology 2021; e210038.

2. Sandhu RK, Albert C. Screening the older population for atrial fibrillation. Have we moved the needle forward? JAMA Cardiology 2021; doi:10.1001/jamacardio.2021.0052