Dalla letteratura

Endpoint primari multipli nella ricerca oncologica

In oncologia l’adozione di endpoint primari multipli negli studi randomizzati è una pratica piuttosto comune, ma soltanto una minoranza delle sperimentazioni rispetta le raccomandazioni delle agenzie regolatorie rispetto agli endpoint primari multipli, la definizione di endpoint “co-primari” e la correzione per la molteplicità. Il problema è stato evidenziato da una revisione sistematica pubblicata sullo European Journal of Cancer da un team di ricercatori italiani1.

La revisione sistematica – primi autori Clizia Zichi e Chiara Paratore e coordinata da Massimo Di Maio, direttore della SCDU Oncologia - AO Ordine Mauriziano, Torino – nasceva con l’obiettivo di descrivere l’incidenza degli studi con endpoint primari multipli, le caratteristiche principali delle sperimentazioni di questo tipo; la presenza dei risultati per tutti gli endpoint nella pubblicazione primaria, la coerenza tra i risultati di ciascun endpoint e le conclusioni degli autori. Attraverso PubMed sono stati selezionati gli studi randomizzati di fase III condotti su pazienti con tumore avanzato pubblicati tra il 2017 e il 2020 con l’obiettivo di evidenziare la proporzione di studi con endpoint primari multipli. Poi sono stati considerati due casi distinti: gli endpoint primari multipli che corrispondono a “possibilità multiple” di successo, che necessitano quindi di aggiustamento per la molteplicità, e il secondo caso in cui il risultato positivo dipende dal successo in tutti gli endpoint primari considerati (endpoint “co-primari”).

Su 235 studi eleggibili, il 12% ha adottato endpoint primari multipli, nella maggior parte dei casi overall survival (OS) e progression free survival (PFS). Ma si tratta di una tendenza in costante aumento (dal 6% nel 2017 al 20% nel 2020; p=0,025). Un altro dato interessante è che questo tipo di disegno è stato adottato nel 16% degli studi a scopo di lucro contro il 4% degli studi no profit (p=0,006). Nella maggior parte dei casi (23,85%) è stata pianificata una correzione per la molteplicità. Su 21 pubblicazioni con risultati positivi, solo 12 hanno avuto un risultato positivo statisticamente significativo in entrambi gli endpoint primari. Da notare infine che la percentuale di studi con endpoint primari multipli è stata particolarmente alta nel caso dell’immunoterapia (53%, p<0,00001).

Alessia Malta

Bibliografia

1. Zichi C, Paratore C, Gargiulo P, et al. Adoption of multiple primary endpoints in phase III trials of systemic treatments in patients with advanced solid tumours. A systematic review. Eur J Canc 2021; 149: 49-60.




Ridurre la pressione arteriosa con l’attività fisica

Qual è l’attività fisica migliore per chi vuole ridurre la pressione arteriosa? È stato pubblicato sullo European Journal of Preventive Cardiology un documento di consenso dell’European Society of Cardiology con le indicazioni sul tipo di allenamento più adeguato per tre diverse categorie di persone, da quelle normotese a quelle con ipertensione1.

«L’obiettivo primario delle raccomandazioni è, per tutti e tre i gruppi, quello di ridurre la pressione arteriosa –spiega Henner Hanssen dell’University of Basel, tra gli autori del documento – così da poter ridurre, in ultima analisi, il rischio di infarto miocardico, ictus e morte per cause cardiovascolari e vivere più a lungo in buona salute».

Secondo le raccomandazioni del documento di consenso dell’ESC il tipo di attività fisica più adeguato per le persone con ipertensione (pressione arteriosa uguale o superiore a 140/90 mmHg) è l’esercizio aerobico. Questo include attività come camminare, correre, andare in bicicletta e nuotare. «In questi soggetti l’attività fisica aerobica può risultare efficace quanto una singola dose di un farmaco antipertensivo», spiega Hanssen. L’attività fisica per le persone con pressione arteriosa normale-elevata: rientrano in questa categoria le persone con livelli di pressione arteriosa compresi tra 130-139/85-89 mmHg. In questo caso l’attività fisica più adeguata è, secondo il documento di consenso dell’ESC, l’allenamento di tipo dinamico. Tipicamente rientrano in questa categoria gli esercizi che prevedono l’impiego di almeno sei gruppi muscolari grandi e in cui la contrazione genera un movimento, come il sollevamento pesi, gli squat e i push-up. Per chi ha un livello di pressione inferiore a 130/84 mmHg, invece, il documento di consenso ESC indica come attività fisica più adeguata l’allenamento di tipo isometrico, il quale prevede una contrazione muscolare statica. «Le persone con una pressione normale ma a rischio di sviluppare ipertensione dovrebbero essere particolarmente motivati a mantenerla bassa», sottolinea Hanssen.

«Gli individui obesi hanno una probabilità molto alta di sviluppare ipertensione se l’obesità persiste negli anni», conclude. «Gli individui sani con familiari ipertesi sono anch’essi a rischio, così come le donne che hanno sofferto di ipertensione durante la gravidanza (ipertensione gestazionale). Tutte queste persone possono ritardare o addirittura prevenire lo sviluppo di ipertensione facendo attività fisica».

Fabio Ambrosino

Bibliografia

1. Hanssen H, Boardman H, Deiseroth A, et al. Personalized exercise prescription in the prevention and treatment of arterial hypertension: a Consensus document from the European Association of Preventive Cardiology (EAPC) and the ESC Council on Hypertension. Eur J Prev Cardiol 2021; zwaa141.




Terapia antiaggregante
dopo angioplastica:
guidata o standard?

Una terapia antiaggregante guidata da un test di funzionalità piastrinica o da un test genetico si associa, nei pazienti sottoposti ad angioplastica coronarica, a outcome cardiovascolari migliori rispetto alla terapia antiaggregante standard.

È quanto emerge da una meta-analisi realizzata da un gruppo di ricercatori italiani, i cui risultati sono stati pubblicati su The Lancet, che ha analizzato i dati provenienti da 14 studi sul confronto tra le due strategie1.

Come indicato dalle ultime linee guida della European Society of Cardiology sulla gestione degli infarti NSTEMI, lo standard di cura attuale per la prevenzione delle complicanze trombotiche nei pazienti sottoposti ad angioplastica coronarica è costituito da una doppia terapia antiaggregante (DAPT) con aspirina e un inibitore di P2Y122,3.

Tra gli inibitori di P2Y12 disponibili, clopidogrel è quello più utilizzato ma le sue caratteristiche farmacodinamiche fanno sì che in un numero considerevole di pazienti – come per esempio quelli con polimorfismo genetico del citocromo P450 2C19 (CY92C19) – il suo utilizzo si associ a un’elevata reattività piastrinica in corso di trattamento e, nei soggetti sottoposti ad angioplastica coronarica, a un maggiore rischio trombotico.

Al contrario, l’attività di altri inibitori di P2Y12, come prasugrel e ticagrelor, non è modulata dai geni CY92C19 e si associa a un ridotto rischio trombotico nei pazienti con sindrome coronarica acuta. Una caratteristica, questa, che si accompagna però a un rischio più elevato di sanguinamenti.

È stato quindi ipotizzato che la scelta della terapia antiaggregante guidata da un test di funzionalità piastrinica o da un test genetico possa permettere di personalizzare la scelta della terapia antiaggregante nei pazienti sottoposti ad angioplastica coronarica, migliorando così gli outcome.




Alcuni studi – come­TAILOR-PCI, POPular Genetics, TROPICAL-ACS e PHARMCLO – hanno vagliato questa ipotesi mettendo a confronto terapia guidata e standard in modo selettivo su pazienti con elevata reattività piastrinica in corso di trattamento o portatori di anomalie a livello dei geni CY92C19 o in generale su pazienti sottoposti ad angioplastica coronarica, portando però a risultati non conclusivi.

Secondo gli autori della meta-analisi pubblicata su The Lancet, infatti, gli studi in questione non avevano la potenza statistica necessaria per valutare gli effetti delle diverse strategie su outcome come la mortalità per tutte le cause, la mortalità cardiovascolare o gli eventi cardiovascolari.

I ricercatori hanno quindi deciso di realizzare una revisione sistematica degli studi randomizzati e osservazionali sul confronto tra una terapia antiaggregante guidata da un test di funzionalità piastrinica o da un test genetico e una terapia standard nei pazienti con sindrome coronarica acuta o cronica sottoposti a intervento coronarico percutaneo con impianto di stent. Sono stati individuati 3656 articoli potenzialmente rilevanti. In totale, sono stati inclusi nella metanalisi 14 studi – 11 randomizzati e 3 osservazionali – per un totale di 20.743 pazienti seguiti per un follow-up medio di 11 mesi. In 6 degli studi la strategia antiaggregante guidata prevedeva un test di funzionalità piastrinica mentre gli altri 8 prevedevano un test genetico. L’endpoint primario di efficacia era costituito dagli eventi cardiovascolari maggiori, così come definiti dai singoli trial, mentre quelli secondari dalla mortalità per tutte le cause, la mortalità cardiovascolare, l’infarto miocardico, l’ictus e una trombosi dello stent definita o probabile.

I risultati della meta-analisi hanno messo in evidenza una riduzione significativa dell’endpoint primario di efficacia nei pazienti sottoposti a terapia antiaggregante guidata rispetto all’approccio standard (p=0,015). Un beneficio, questo, emerso negli studi randomizzati (p=0,039) ma non in quelli osservazionali (p=0,24).

Per quanto riguarda gli endpoint secondari di efficacia, invece, la terapia aggregante guidata è risultata associata a una riduzione della mortalità cardiovascolare, degli infarti miocardici, delle trombosi da stent e dell’ictus. Non sono emerse differenze tra i due approcci, invece, in termini di mortalità per tutte le cause.

Non è emersa una differenza significativa neanche per quanto riguarda l’endpoint primario di sicurezza (p=0,069). Considerando qualsiasi tipologia di sanguinamento è stato riscontrato un beneficio a favore della terapia antiaggregante guidata negli studi randomizzati (p=0,036) ma non in quelli osservazionali (p=0,6). Inoltre, la strategia guidata è risultata associata a un tasso significativamente ridotto di sanguinamenti minori ma non di sanguinamenti maggiori.

In generale, poi, gli outcome associati alla terapia antiaggregante guidata sono risultati influenzati dalla strategia utilizzata: un approccio di escalation (per es., switch da clopidogrel a prasugrel, ticagrelor, doppia dose di clopidogrel o clopidogrel più cilostazol) è risultato associato a una riduzione degli eventi ischemici a parità di sicurezza mentre un approccio di de-escalation (per es., switch da prasugrel o ticagrelor a clopidogrel) a una riduzione dei sanguinamenti a parità di efficacia.

In un editoriale di commento, Dirk Sibbing e Adnan Kastrati della Klinikum der Universität München hanno sottolineato come i medici dovrebbero continuare a seguire le linee guida ma che, allo stesso tempo, «una terapia antiaggregante guidata con approccio di escalation potrebbe essere auspicabile nei casi in cui il rischio trombotico supera quello di sanguinamenti e, viceversa, un approccio di de-escalation potrebbe risultare particolarmente adatto ai casi in cui il rischio di sanguinamenti è maggiore di quello trombotico»4.

Altri autori hanno però messo in evidenza alcune barriere all’utilizzo routinario dei test di funzionalità piastrinica e genetico per la guida della terapia antiaggregante nei pazienti sottoposti ad angioplastica coronarica. Tra queste, per esempio, le caratteristiche dei test attualmente disponibili, i quali in molti casi richiedono analisi molto complesse realizzabili solo da laboratori specializzati e con tempistiche piuttosto lunghe. Ma sembra esserci anche un problema culturale e logistico: al momento, infatti, la maggior parte dei centri non avrebbe le risorse e le competenze necessarie per effettuare i test utili a guidare la scelta della terapia antiaggregante.




Fabio Ambrosino

Bibliografia

1. Galli M, Benenati S, Capodanno D, et al. Guided versus standard antiplatelet therapy in patients undergoing percutaneous coronary intervention: a systematic review and meta-analysis. Lancet 2021; 397: 1470-83.

2. Neumann FJ, Sousa-Uva M, Ahlsson A, et al.; ESC Scientific Document Group. 2018 ESC/EACTS guidelines on myocardial revascularization. Eur Heart J 2019; 40: 87-165.

3. Collet JP, Thiele H, Barbato E, Siontis GCM, Collet JP, Thiele H; ESC Scientific Document Group. 2020 ESC guidelines for the management of acute coronary syndrome in patients presenting without persistent ST-segment elevation. Eur Heart J 2020; 40: 87-165.

4. Sibbing D, Kastrati A. Guided P2Y12 inhibitor therapy after percutaneous coronary intervention. Lancet 2021; 397: 1423-5.