Storie di ordinaria bellezza

Daniela Berardinelli1

1RN MSc, AOU San Luigi Gonzaga, Orbassano (Torino).

Pervenuto il 30 luglio 2020. Accettato il 19 ottobre 2020.

Riassunto. Questa storia è un pezzo di vita quotidiana di un infermiere e racconta dell’incontro con un paziente che, nel susseguirsi dei ricoveri, rimarrà indelebile per tutta l’équipe. La sua storia ci ha insegnato, ancora una volta, quanto sia fondamentale e di aiuto per tutti, non solo per il paziente, la relazione di cura tra i curanti (medici, infermieri e personale di supporto) e l’assistito.

Stories of ordinary beauty.

Summary. This story is a piece of a nurse’s daily life, the encounter with a patient that will remain indelible for everyone during subsequent hospitalizations. His story has taught us, once again, how fundamental and helpful for everyone, not only for the patient, is the care relationship between the carers (doctors, nurses and support staff) and the patient.

La storia

Questa storia è un pezzo di vita quotidiana di un infermiere, una come tante altre, ma al contempo diversa. Quella notte avevo già la consapevolezza che non avrei dormito. Un fiume di emozioni mi scorreva nelle vene e non sapevo come placarle. I pensieri correvano veloci, le lacrime anche. La necessità di vuotare il sacco, di scrivere per non dimenticare l’essenza del momento, era impellente, pur essendo cosciente che mai le parole avrebbero potuto davvero rappresentare la potenza di quell’istante1.

C’era un cuore, c’era la speranza. La telefonata più bella che potessimo ricevere in Unità Coronarica. E quel cuore era per quel nostro caro paziente, a cui tutti noi, volenti o nolenti, ci eravamo affezionati. Ci aveva conquistato con il suo sorriso, la sua voglia di vivere e la sua semplicità. Uno di noi, uno di casa. A ogni ricovero il legame si faceva sempre più stretto e lui stesso aveva dichiarato di sentirsi davvero a casa, qui, in mezzo a noi e a tutto quel trambusto che facevamo ogni giorno. Al penultimo ricovero mi aveva sussurrato di non avere nemmeno più la forza di farsi la barba; all’ultimo, quando l’abbiamo accolto nuovamente in reparto, di aver perso persino le energie per sbucciare una banana. Aveva scritto della sua malattia, dell’incertezza dello scorrere del tempo e le sue parole avevano toccato il cuore di tutti coloro che le avevano lette. Abbiamo gioito di ogni piccolo passo e di ogni riconquistata autonomia, con applausi spontanei e vigorosi e visto commozione nei suoi occhi, per la nostra felicità nell’osservarlo compiere gesti così semplici, ma al contempo così essenziali.

Abbiamo fatto tutti il tifo per lui, come una vera squadra, perché ritornasse a essere l’uomo che era un tempo. Dopo quella telefonata, quando piano piano eravamo entrati nella sua stanza, nessuno aveva provato a resistere, le lacrime erano sgorgate e tutti ci eravamo riuniti in un lungo abbraccio, colmo di gioia e speranza. “Non potete capire la gioia che sto provando, grazie, grazie, grazie”. Un grazie infinito che sembrava non finire più. L’avevamo stretto forte tra le braccia, come un amico, con affetto. Avevo visto arrivare la moglie trafelata, con gli occhi lucidi, che ancora una volta l’aveva stretto facendogli forza. Avevo spiato quella scena, vicino alla porta, e lui sapeva che ero lì dietro a guardarli, non avevo resistito a quel ritratto di emozioni, e ovviamente, avevo pianto ancora. Abbiamo pianto tutti in realtà, tutti quelli presenti in turno.

Il cuore l’ha aspettato, noi abbiamo sperato nella sua rinascita. Una nuova battaglia, che ha conquistato giorno per giorno, a distanza di oramai più di un anno dall’intervento.

Riflessioni

Ogni professionista sanitario porta con sé delle storie, a qualcuna si attacca di più, altre desidera solo lasciarle andare, non ricordarle. Le storie vivono nei racconti degli altri e nella nostra successiva restituzione ma hanno anche una vita propria, che è senza tempo. Forse in questo oggi, così incerto e particolare, sarebbe bene nutrirsi di vissuti come questi e farne tesoro, custodirli per riportarli alla memoria in quei momenti in cui ci si chiede se sia stata giusta la scelta di scegliere questa strada professionale. O quando si varca la soglia della corsia domandandosi cosa potrà ancora capitare quel giorno. Dove risiede l’origine della forza e della motivazione che spinge ancora a fare quel turno, nonostante l’insicurezza, la stanchezza, la rabbia di tanti altri? È quell’attimo, particolare, ogni volta unico, in cui si approccia un dialogo che mai sarà alla pari, data la sconveniente posizione della patologia dell’altro, dove veramente si è sé stessi, al di là della divisa. Si comunica con le parole, il sorriso, alle volte anche con il silenzio, con la fretta nel corpo ma la presenza negli occhi, con la voglia di dire “sono qui, di corsa, ma tornerò a darti quell’informazione di cui ha bisogno”, perché non ne necessita solo il paziente, ma anche coloro che lo assistono. E ancora di rassicurare sul percorso che verrà intrapreso, di spiegare cosa sarà domani e provare insieme a ragionare per piccoli obiettivi, raggiungibili, che costringono a pensare e a vivere il presente, ad apprezzarlo per quello che si può realmente fare e a non proiettarsi troppo nel futuro, nella paura di qualcosa che ancora non si conosce. Per dare un senso all’agire quotidiano.

Tutti conosciamo il significato del termine “empatia”, ma sapersi mettere nei panni degli altri non è solo questo, è anche quel bisogno intimo, personale, quasi primitivo di entrare in relazione con l’altro, in modo autentico e non esclusivamente attraverso il codice di una divisa o di un camice. Chi ha capito questo, lo sa, quanto impatti sulla vita del paziente e sulla vita da curante del professionista, dentro e fuori il contesto di cura. Una buona comunicazione è sempre alla base di tutto, anche della brutta notizia o della falsa speranza. Spesso si è propensi a pensare che la comunicazione e la relazione (nonostante siano bene espresse dai codici deontologici) siano meno importanti della fisiologia, dell’anatomia, come se viaggiassero su due binari differenti2. Il riconoscimento professionale dell’uno non è equivalente a quello dell’altro. L’entrare in una relazione di cura non è qualcosa che abitualmente viene insegnato nelle scuole di medicina, nonostante diversi studi indichino come una buona comunicazione possa portare numerosi benefici, tra cui la riduzione degli stati ansiosi nel paziente3,4. Gli infermieri conoscono le potenzialità di questa relazione, la applicano quotidianamente perché già nel loro percorso universitario gli viene instillata attraverso delle piccole gocce. Piccole perché la testeranno realmente sul campo, con indosso la divisa della responsabilità di quella comunicazione e saranno diretti testimoni non solo della sua efficacia terapeutica, ma anche del tipo di professionista che decideranno di essere5. Lavorare per il paziente e con il paziente, fa la differenza, non solo per raggiungere un obiettivo terapeutico ma anche uno di cura personale, ovvero preservare quell’integrità, quella salute e amor proprio senza che vengano sgualciti dall’ombra del cinismo, dalla velocità del sistema, dalla disorganizzazione e dalla stanchezza che incidono negli anni sull’entusiasmo della professione di cura. Perché scrivere e raccontare a sua volta a qualcun altro tutto questo6? Perché sono attimi di vita importanti che non possono essere trascritti attraverso il linguaggio scientifico e tecnico delle cartelle cliniche7. Dentro quelle cartelle spesso non c’è spazio per tutto questo vissuto, che invece trasuda dalle corsie. Rimaniamo fissi nella lettura e interpretazione di dati clinici, segni vitali, parametri, diagnosi come se la pura clinica fosse sempre l’aspetto più importante8. Gli aspetti clinici sono sempre i medesimi e ripetuti per le diverse specialità ma l’esperienza di questi è sempre diversa per chiunque li viva9. I vissuti del paziente spesso vengono solo raccontati da un professionista all’altro, durante brevi passaggi di consegna tra i turni, che quasi mai sono momenti tranquilli, anzi, spesso sono pieni di interruzioni. Questi vissuti così non vengono mai esplorati abbastanza, nonostante ce ne si faccia carico quotidianamente. Come si può fissare in una cartella cartacea o informatizzata lo sguardo di un paziente, una stretta di mano, la consapevolezza di una diagnosi, la paura? Ce lo si porta dentro, confidandolo al collega che si sa poter comprendere l’importanza di tale comunicazione.

Queste relazioni di cura sono linfa vitale per assistere i nostri pazienti. Si dice spesso che niente sarà più come prima: ma com’erano prima le relazioni di cura? Erano già un potente flusso di emozioni.

Conflitto di interessi: l’autrice dichiara l’assenza di conflitto di interessi.

Bibliografia

1. Charon R. Medicina narrativa. Onorare le storie dei pazienti. Milano: Raffaello Cortina, 2019.

2. Ofri D. Cosa dice il malato, cosa sente il medico. Roma: Il Pensiero Scientifico Editore, 2018.

3. Baldwin KM, Spears MJ. Improving the patient experience and decreasing patient anxiety with nursing bedside report. Clin Nurse Spec 2019; 33: 82-9.

4. Sirri L, Tossani E, Potena L, Masetti M, Grandi S. Manifestations of health anxiety in patients with heart transplant. Heart Lung 2020; 49: 364-9.

5. Kamali F, Yousefy A, Yamani N. Explaining professionalism in moral reasoning: a qualitative study. Adv Med Educ Pract 2019; 10: 447-56.

6. Fortunato S. Racconti di cura che curano. Ravenna: Clown Bianco, 2020.

7. Verghese A. Writing Medicine. JAMA 2020; 323: 1649-50.

8. Naretto G, Nebris Calliera C, Gandolfo E, Elia F, Gristina G, Vergano M. Ethical life support. Roma: ll Pensiero Scientifico Editore, 2018.

9. Connelly C, Jarvie L, Daniel M, et al. Understanding what matters to patients in critical care: An exploratory evaluation. Nurs Crit Care 2020; 25: 214-20.