Dalla letteratura

Cambiamento di status HER2 tra tumori primari e recidive

Le analisi molecolari mostrano che il 15% delle recidive di carcinomi della mammella tripli negativi HER2- risulta convertito a uno status HER2-low, un fenomeno che rende possibili nuove opzioni terapeutiche, come l’utilizzo di farmaci antibody-drug conjugate, che stanno dando ottimi risultati appunto in questo setting. Questo dato molto importante arriva dall’ESMO Breast Cancer Virtual Congress 2021 appena conclusosi1.

A presentare questi promettenti risultati è stata Federica Miglietta dell’Oncologia medica dell’Università di Padova: «È una visione completamente nuova su come i tumori HER2-low potrebbero evolversi come sottogruppo, forse sfidando l’attuale dicotomia tra carcinoma mammario HER2-positivo e HER2-negativo. I nostri risultati sottolineano l’importanza di testare nuovamente l’espressione di HER2 nelle recidive dei tumori della mammella poiché potrebbe fornire nuove opportunità terapeutiche attualmente in fase di sperimentazione e, si spera, nel prossimo futuro, in pratica clinica». Lo studio ha rivelato che ben il 29% dei tumori primari della mammella modifica il suo status del fattore di crescita dell’epidermide umano 2 (HER2) in caso di recidive, passando da o a uno status HER2-low. Nei tumori primari e nelle recidive, l’espressione di HER2-low è stata osservata rispettivamente nel 34% e nel 38% dei campioni. Un totale di 15% di tumori HER2- è passato a HER2-low mentre il 14% di HER2-low è passato a HER2-. Lo studio ha anche confermato che lo status HER2-low è più frequente nei tumori HR +/HER2- che nei tumori tripli negativi (47% vs 36% nei campioni di tumore primario, 54% vs 36% nei campioni di recidiva).

Aleix Prat, responsabile dell’Oncologia medica dell’ospedale di Barcellona, commenta: «Questi cambiamenti dei livelli di HER2 sono di grandissima importanza clinica. Potrebbe esserci un razionale biologico per questo, o uno tecnico, dato che attualmente non esiste una standardizzazione di come determinare i livelli del biomarcatore HER2 nelle biopsie metastatiche, potrebbero essere prelevati campioni dall’epidermide, dal fegato o dalle ossa e dare risultati diversi. Dobbiamo capire come lo stato di HER2 determina la risposta alle terapie: è lo stato di HER2 nel tumore primario o nella metastasi che è importante? Forse alcuni pazienti hanno HER2-low in fase metastatica e ora possono rispondere a terapie alle quali non rispondevano in precedenza, e questo potrebbe cambiare di nuovo nel tempo. Tutto questo ci dice che è una necessità inderogabile effettuare la biopsia dei tumori metastatici. È importante sottolineare che dobbiamo determinare chi trarrà beneficio dai trattamenti per HER2-low, perché i pazienti lo chiederanno presto in clinica se i risultati dello studio saranno positivi».

David Frati

Bibliografia

1. Miglietta F, Griguolo G, Bottosso M, et al. HER2-low breast cancer: evolution from primary breast cancer to relapse. Ann Oncol 2021; 32 (suppl. 2): S21-S36.




L’intelligenza artificiale analizza il trascrittoma tumorale

Nell’ultimo decennio abbiamo assistito alla nascita e sviluppo di un nuovo tipo di trial oncologico, il trial di oncologia di precisione. Diversi tipi di disegno, dal basket trial all’umbrella trial, sono stati utilizzati per poter sfruttare in pieno le potenzialità derivate dai progressi tecnologici. Tuttavia, nonostante gli sforzi prodotti spesso questo tipo di studi producono risultati negativi o richiedono sforzi molto ingenti in termini di risorse impiegate per poter raggiungere i loro obiettivi. Per cercare di migliorare la performance degli studi di oncologia di precisione, sempre maggiore interesse ha raccolto negli ultimi anni lo sviluppo di algoritmi in grado di predire a priori la terapia più appropriata per il tipo di mutazione rilevata. Inoltre, studi recenti hanno iniziato a esplorare l’utilità del trascrittoma tumorale per ampliare e guidare la scelta al miglior trattamento possibile per ogni singolo paziente.

In un lavoro recentemente pubblicato sulla rivista Cell, gli autori presentano un nuovo algoritmo guidato dall’intelligenza artificiale in grado di predire la risposta a un trattamento oncologico sulla base del trascrittoma tumorale1. Tale algoritmo, rinominato SELECT, si basa sull’identificazione e sull’utilizzo delle due classi più frequenti di interazioni genetiche, le synthetic rescue (SR) interactions e le synthetic lethal (SL) interactions, che forniscono biomarcatori biologicamente testabili per la previsione della risposta alla terapia. In una prima fase gli autori hanno settato l’algoritmo validandolo su coorti esterne già pubblicate di pazienti trattati con dati di trascrittomica pretrattamento disponibili. In questa prima fase di set-up l’algoritmo è stato in grado di prevedere correttamente circa l’80% delle risposte dei trattamenti immunoterapici o di terapia target fallendo al contrario nel riuscire a precedere correttamente la risposta ai trattamenti chemioterapici. In una seconda fase del lavoro gli autori, per valutare l’algoritmo SELECT in un contesto di sperimentazione clinica, hanno eseguito un’analisi retrospettiva dei dati del Winther trial, un basket trial prospettico che incorporava i dati di trascrittomica per scegliere la terapia più adatta per pazienti adulti con tumori solidi avanzati. Anche in questo setting l’algoritmo SELECT è stato in grado di prevedere correttamente le risposte al trattamento facilitando inoltre la stratificazione dei pazienti all’interno del trial.

Sicuramente l’algoritmo SELECT presenta dei punti di forza, quali la validazione su coorti esterne di pazienti contenenti molte istologie differenti e il forte razionale biologico che sottende le due classi di mutazioni scelte per predire le risposte ai trattamenti, che lo differenziano dagli approcci tentati precedentemente. Tale approccio innovativo offre un metodo promettente per aumentare il numero di pazienti che potrebbero beneficiare di trattamenti personalizzati e dovrebbe essere ulteriormente esplorato in studi prospettici di validazione. Alcune questioni restano tuttavia da risolvere per poter integrare questo algoritmo nella pratica clinica: per prima cosa bisognerà stabilire in che modo sarà possibile validare uno strumento del genere in una sperimentazione clinica futura. Il secondo punto che andrà necessariamente chiarito sarà l’impatto economico e la necessità di implementazione bioinformatica necessarie per rendere operativo tale approccio in un setting “real world”.

MarcoFiletti

Oncologia Medica,
Azienda Ospedaliera
Universitaria Sant’Andrea,
Roma

Bibliografia

1. Lee JS, Nair NU, Dinstag G, et al. Synthetic lethality-mediated precision oncology via the tumor transcriptome. Cell 2021; 184: 2487-502.e13.




Tumore del seno
e cardioprotezione

Nelle pazienti affette da un tumore del seno a uno stadio precoce un trattamento di cardioprotezione finalizzato a limitare i danni cardiaci associati alla terapia oncologica adiuvante non si associa a un miglioramento dei marker di salute cardiovascolare. Sono stati presentati nel corso dell’edizione 2021 del Meeting annuale dell’American College of Cardiology i risultati del trial PRADA, che ha valutato un possibile beneficio da un trattamento cardioprotettivo con il sartano candesartan cilexetil o il beta-bloccante metoprololo succinato.

Lo studio ha preso in considerazione 120 pazienti con un tumore del seno a uno stadio precoce, le quali sono state randomizzate per ricevere candesartan cilexetil + placebo (n=32), metoprololo succinato + placebo (n=30), entrambi i farmaci (n=28) o un doppio placebo (n=30). A un follow-up medio di 23 mesi tutti i soggetti sono stati sottoposti a una risonanza magnetica cardiaca per valutare la funzionalità cardiaca.

In generale i risultati a due anni hanno messo in evidenza una riduzione ridotta della frazione di eiezione ventricolare sinistra, inferiore al 2%, con nessuna differenza tra i quattro gruppi. «Un trattamento cardioprotettivo con questi farmaci può associarsi a effetti collaterali – dice Siri Lagethon Heck, radiologo del Akershus University Hospital di Lørenskog e responsabile dello studio – quindi non dovrebbero essere somministrati per la cardioprotezione delle pazienti con tumore del seno quando non è necessario».

Fabio Ambrosino

In collaborazione con Cardioinfo.it

Bibliografia

1. Primary Radiotherapy And DIEP flAp Reconstruction Trial. ClinicalTrials.gov. Disponibile su: https://bit.ly/3fkYnux [ultimo accesso 26 maggio 2021].

Aspirina
in prevenzione secondaria: dosaggi a confronto

Nei pazienti con cardiopatia aterosclerotica un trattamento con aspirina a basso dosaggio si associa agli stessi risultati, in termini di efficacia e sicurezza, di un trattamento a dosaggio standard. Sono stati presentati oggi nel corso dell’ultima sessione Hot topics del congresso 2021 dell’American College of Cardiology e pubblicati in simultanea sul New England Journal of Medicine1 i risultati del trial randomizzato pragmatico ADAPTABLE sul confronto tra un dosaggio giornaliero di aspirina di 81 mg e uno di 325 mg. Le conclusioni dello studio – caratterizzato da un innovativo protocollo sperimentale – potrebbero però essere state influenzate dall’alto tasso di switch da un dosaggio all’altro.

Aspirina a basso dosaggio
o a dosaggio standard:
il trial ADAPTABLE

Lo studio ADAPATBLE (Aspirin Dosing: A Patient-Centric Trial Assessing Benefits and Long-Term Effectiveness), finanziato dal Patient-Centered Outcomes Research Institute (PCORI), ha preso in considerazione 15.076 pazienti con cardiopatia aterosclerotica, seguiti per un follow-up medio di 26,2 mesi. Prima della randomizzazione, 13.537 di questi erano già in trattamento con aspirina, l’85,3% dei quali con un dosaggio di 81 mg al giorno.

Il campione di studio è stato diviso mediante randomizzazione in due gruppi da 7540 e 7536 soggetti, assegnati, rispettivamente, al trattamento con aspirina a basso dosaggio (81 mg) e a dosaggio standard (325 mg). L’endpoint composito di efficacia era costituito da mortalità per tutte le cause, ospedalizzazione per infarto miocardico o ospedalizzazione per ictus. L’endpoint di sicurezza, invece, era costituito dalle ospedalizzazioni per sanguinamenti maggiori.

ADAPTABLE: i risultati presentati ad ACC.21

L’endpoint composito di efficacia si è verificato in 590 pazienti del gruppo in trattamento con aspirina a basso dosaggio e in 569 pazienti del gruppo sottoposto al dosaggio standard (HR 1,02; IC 95%: 0,91-1,14). Le ospedalizzazioni per sanguinamenti maggiori, invece, si sono verificate rispettivamente in 53 e 44 pazienti (HR 1,02; IC 95%: 0,79-1,77). I risultati, tuttavia, sono stati almeno in parte influenzati dall’elevato tasso di switch che ha caratterizzato il gruppo assegnato al dosaggio standard: il 41,6% dei pazienti inclusi in questo gruppo ha chiesto il passaggio al dosaggio ridotto. Al contrario, solo l’8,1% dei pazienti assegnati al dosaggio ridotto ha chiesto il passaggio a quello standard.

Inoltre, il gruppo sottoposto al trattamento con aspirina a 325 mg al giorno è risultato associato a una maggiore discontinuità di trattamento: 434 giorni di esposizione al dosaggio assegnato contro i 650 del gruppo trattato con aspirina a 81 mg al giorno. Secondo gli autori l’evidenza di un elevato tasso di switch fra i due dosaggi di aspirina potrebbe dipendere da più fattori come la preferenza del paziente, le abitudini dei medici (per es., a seguire le raccomandazioni delle linee guida ESC sulla gestione delle coronaropatie stabili)2, lo sviluppo di ematomi o sanguinamenti e di comorbilità.

Un nuovo modo di fare ricerca?

A prescindere dai risultati, il trial ADAPTABLE ha attirato l’attenzione dei partecipanti ad ACC.21 anche per alcune caratteristiche metodologiche. Come sottolineato da Colin Baigent dell’University of Oxford, autore di un editoriale di commento sul New England Journal of Medicine3, lo studio rappresenta infatti un importante passo in avanti per quanto riguarda la realizzazione a basso costo di ampi trial randomizzati pragmatici negli Stati Uniti.

«Gli autori – scrive Baigent – hanno utilizzato una serie di metodi innovativi e a basso costo per semplificare l’identificazione, il reclutamento e il follow-up dei pazienti. Ad esempio, sono stati utilizzati algoritmi per analizzare i dati delle cartelle cliniche elettroniche e identificare i pazienti all’interno del National Patient-Centered Clinical Research Network (PCORnet). I pazienti potevano poi accedere a un portale Web per dare il consenso informato ed essere informati del dosaggio di aspirina a cui erano stati assegnati e che hanno poi acquistato in autonomia. Tutte le visite di controllo previste dal trial, infine, sono state effettuate virtualmente o per telefono».

Fabio Ambrosino

In collaborazione con Cardioinfo.it

Bibliografia

1. Jones WS, Mulder H, Wruck ML, et al. Comparative effectiveness of aspirin dosing in cardiovascular disease. N Engl J Med 2021; doi: 10.1056/NEJMoa2102137.

2. Montalescot G, Sechtem U, Achenbach S, et al. 2013 ESC guidelines on the management of stable coronary artery disease: the Task Force on the Management of Stable Coronary Artery Disease of the European Society of Cardiology. Eur Heart J 2013; 34: 2949-3003.

3. Baigent C. Pragmatic Trials - Need for ADAPTABLE Design. N Engl J Med 2021; doi: 10.1056/NEJMe2106430.




ATLANTIS: dati interlocutori per apixaban dopo TAVI

Apixaban non è superiore allo standard di cura nell’ambito della terapia anticoagulante dei pazienti sottoposti a impianto valvolare aortico transcatetere (TAVI). Sono stati presentati nel corso dell’edizione 2021 del Congresso annuale dell’American College of Cardiology i risultati del trial ATLANTIS. Il trattamento con apixaban è risultato associato a un minor rischio trombotico con un profilo di sicurezza paragonabile ma è stato riscontrato un tasso di mortalità non cardiovascolare più elevato nel sottogruppo di pazienti che non avevano, al di fuori della TAVI, un’indicazione a una terapia anticoagulante orale.

In totale sono stati inclusi nello studio ATLANTIS 1510 pazienti provenienti da 50 centri e sottoposti a TAVI tra il 2016 e il 2019. Circa un terzo dei partecipanti era in trattamento con una terapia anticoagulante per un motivo diverso dalla TAVI, spesso una fibrillazione atriale. Metà di questi pazienti e metà dei restanti sono stati assegnati a un trattamento con apixaban, mentre gli altri hanno ricevuto warfarin in caso di indicazione a una terapia anticoagulante orale o un singolo trattamento antiaggregante, solitamente con aspirina, in assenza di tale indicazione.




Non sono emerse differenze tra il trattamento con apixaban e quello standard per quanto riguarda l’endpoint primario dello studio, costituito da una misura composita di morte per tutte le cause, ictus, infarto miocardico, trombosi valvolare, embolia polmonare o sistemica, trombosi venosa profonda o sanguinamento maggiore. Nello specifico, l’endpoint si è verificato nel 18,4% dei pazienti del gruppo apixaban e nel 20,1% di quelli del gruppo sottoposto al trattamento standard.

«Questa differenza, sebbene non significativa, è stata influenzata solo dalla coorte di pazienti che non avevano un’indicazione per l’anticoagulazione orale e solo per quanto riguarda il tasso di morte non cardiovascolare», ha spiegato il responsabile della ricerca Jean-Philippe Collet, docente del Groupe Hospitalier Pitié-Salpêtrière di Parigi. «I risultati relativi al sottogruppo di pazienti che necessitavano di anticoagulazione suggeriscono che l’apixaban in questi casi potrebbe diventare un punto di riferimento data la sua facilità di utilizzo e la sua performance nella fibrillazione atriale».

I ricercatori hanno infatti utilizzato una tomografia computerizzata c




on scansioni 4D per esaminare la valvola impiantata e valutare eventuali segni di trombosi, da cui è emerso che i partecipanti sottoposti al trattamento con apixaban avevano, rispetto ai soggetti di controllo, un tasso dell’80% inferiore di formazione di coaguli attorno alla valvola impiantata.

Fabio Ambrosino

In collaborazione con Cardioinfo.it