Julio Frenk.

Pandemia, equità, connessioni

A cura di Luciano De Fiore

Stiamo vivendo in tutto il mondo, ormai da più di un anno e mezzo, una situazione di emergenza sanitaria e, parallelamente, una drammatica crisi economica. Entrambe hanno messo in luce profonde diseguaglianze sociali. Promuovere l’equità nel campo dell’assistenza sanitaria è dunque tanto attuale, quanto urgente, non trova?




Julio Frenk: Senza dubbio. La pandemia ha reso molto più evidente una situazione già esistente di diseguaglianze, e ha reso ancora più pesanti le disparità. Perciò, considerare queste disuguaglianze sia come causa sia come conseguenza della pandemia è fondamentale. Quando affrontiamo il tema della disparità in quanto causa, per prima cosa pensiamo ai fattori sociali che determinano il benessere, per esempio la disoccupazione o la mancata possibilità di accedere ai servizi sanitari. Un altro fattore alla base della situazione pandemica è il degrado ambientale che colpisce le fasce più povere e fragili della popolazione in modo assolutamente sproporzionato. Le pandemie non sono eventi naturali; sono piuttosto eventi antropici, come lo è il cambiamento climatico, strettamente collegati agli abusi e allo sfruttamento del pianeta da parte dell’uomo. Un degrado dell’ambiente che ha oltretutto un impatto drasticamente più pesante sulle popolazioni più povere. Ecco perché qualsiasi tentativo o proposta di equità deve partire dalle cause alla radice della questione. Da quando la pandemia è esplosa, i poveri sono stati molto più esposti e, in ogni Paese che registra in modo corretto dati e pubblica statistiche, si può notare come la popolazione indigente e ai margini della società sia stata colpita in percentuali molto più elevate rispetto alle altre fasce. Negli Stati Uniti, per esempio, nelle comunità afro-americane e latine si sono registrati i numeri più elevati per quanto riguarda contagi e decessi. Anche le strategie per ridurre la pandemia hanno un impatto sproporzionato sulla popolazione più povera, perché se si è costretti a vivere giorno per giorno, senza alcuna possibilità di pianificare e senza mezzi, è alquanto difficile poter rimanere chiusi in casa come raccomandato nelle fasi acute. In molti Paesi poveri, infatti, il problema è notevole: le persone non possono stare a casa, non hanno mezzi di sostentamento, non hanno accesso alla tecnologia che potrebbe permettere di lavorare da remoto. Inoltre, le fasce meno abbienti alimentano spesso i cosiddetti “lavoratori essenziali” e parliamo, quindi, degli individui più esposti.
Siamo consapevoli di tutto questo, quando pensiamo agli effetti della pandemia? Anche la distribuzione nel mondo dei vaccini – che rappresentano una soluzione decisiva – è del tutto iniqua. Dunque, è un problema che ha antiche radici, ben prima della pandemia, che si trascinerà anche dopo e ha a che fare con precise scelte politiche. Perciò, per evitare nuove pandemie in futuro, il problema delle disuguaglianze sociali dovrà essere preso in seria considerazione. Bisogna far sì che proprio le popolazioni più vulnerabili siano le più protette, che i lavoratori essenziali ricevano tutte le attrezzature necessarie per garantire la sicurezza, soprattutto le persone che vivono giorno per giorno e non possono lavorare in modalità – come suol, dirsi – smart. È necessario includere nei piani di gestione delle eventuali, future pandemie queste situazioni di diseguaglianze sociali.

Come ha scritto più volte, e come sta ribadendo oggi, “le nostre prospettive e i nostri sforzi devono essere globali”. Pensa che in futuro si debba prestare maggiore attenzione al “fuori”. Ma se questo è vero, come mai attualmente in sanità la parola d’ordine è “medicina personalizzata” e non “salute per tutti”?

Julio Frenk: Dunque, questi due termini non devono per forza essere visti in opposizione. La medicina di precisione, personalizzata – che personalmente (ma è opinione anche di molti altri) estendo al concetto di sanità pubblica di precisione – deriva dalla rivoluzione scientifica e tecnologica che ci ha permesso di avere una visione incredibile delle quasi impercettibili, biologicamente parlando, varianti dell’essere umano. Sappiamo che gli esseri umani condividono il 99,9% dei loro genomi: anche i due esseri umani più distanti tra loro condividono un’altissima percentuale di genoma. Eppure, quelle variazioni quasi impercettibili, unite a capacità ben più strutturate, permettono di anticipare e di fare previsioni in termini di fattori di rischio. Perciò è possibile fare prevenzione, stabilire modalità d’intervento e fornire una risposta ottimale. In caso di trattamento oncologico, per esempio, siamo ormai sempre più in grado di definire con precisione sia rischi sia cure su misura. Possiamo analizzare grandi numeri, utilizzando tecniche sempre più sofisticate; non è più la sola composizione genetica (e quelle minime differenze tra individui), ma anche ambiente circostante e fattori ambientali sono fattori in grado di determinare interventi mirati per prevenire le malattie ed effettuare diagnosi precise. Ora, tutte queste grandi conquiste e queste tecnologie all’avanguardia, in un sistema che punti all’equità, devono essere rese disponibili a chiunque. Il rischio è invece, purtroppo, che tutte queste risorse aumentino le disparità e non siano accessibili ad alcune fasce della società. Quindi, medicina personalizzata e sanità pubblica personalizzata hanno, almeno sulla carta, un enorme potenziale per migliorare le capacità di cura e l’efficacia dei trattamenti, non soltanto a livello terapeutico ma anche, come già accennato, diagnostico e preventivo. È davvero necessario pensare a politiche di inclusione capaci di assicurare che chiunque abbia accesso a strumenti di questo genere. Ritengo che i Paesi più poveri possano progredire e che le potenzialità della medicina genomica e di un sistema basato sulla medicina genomica pubblica siano enormi, solo però se saremo in grado di sviluppare politiche di equità, in modo da permettere ai Paesi in via di sviluppo di superare il divario attuale e la loro esposizione a fattori di rischio, determinanti per malattie come i tumori.

Nel modello proposto dal suo maestro – Avedis Donabedian – imperniato su strutture, procedimenti e risultati, l’amore svolge un sorprendente ruolo centrale. Può svolgere la medesima funzione, anche oggi che abbiamo a che fare con la medicina genomica?

Julio Frenk: Certamente. Uno dei miei più grandi privilegi è stato proprio quello di avere come mentore Avedis Donabedian all’università del Michigan, dove ho ottenuto il mio dottorato. Lui è stato uno degli intellettuali più grandi che ho conosciuto, e sono molto grato a Il Pensiero Scientifico Editore per avere contribuito a diffondere i suoi lavori anche in italiano e in tutto il mondo. Oltre ad essere medico e studioso estremamente rigoroso, Abedis è stato anche uno straordinario intellettuale: era l’incarnazione dello studioso ideale. Dopo decadi di studio sulla qualità del trattamento sanitario, ne ha concluso che curare sia essenzialmente un atto di amore. Ritengo che quello che Donabedian intendesse è che, oltre alle evidenze necessarie a procedimenti e risultati, alla dimensione tecnica dell’assistenza sanitaria sia necessario affiancare una dimensione interpersonale, e che non sia possibile pensare al concetto di salute se viene meno uno di questi aspetti. Alla fine, entrambi – massima attenzione nell’applicazione delle tecniche e, al tempo stesso, attenzione allo sviluppo di una dimensione interpersonale nell’applicazione della professione (ovvero comfort nell’assistenza, rispetto del tempo delle persone, trattamento dignitoso per ogni essere umano) – costituiscono nel loro complesso un più ampio atto di amore da parte dei professionisti del settore sanitario. Anzi, questa dovrebbe essere la reale definizione di operatore sanitario: è una professione che richiede amore. Dopo anni e anni di pubblicazioni, studi e riflessioni, Donabedian ha concluso che la qualità è amore. Credo che questo concetto dovrebbe essere applicato a ogni dimensione della medicina, dell’attività infermieristica, della sanità pubblica, insomma di tutte le professioni sanitarie. Lo ripeto: occuparsi della salute degli altri è una professione che richiede amore.

Attualmente, lei è Presidente di una grande struttura accademica e nosocomiale, come l’Università di Miami dove anche ha la cattedra di Salute Pubblica, e il suo ospedale. Chi gestisce la sanità quale contributo può dare per l’obiettivo “salute per tutti”?

Julio Frenk: Dirigo un ospedale universitario: si tratta di un vasto sistema sanitario, ma siamo soprattutto un’università. E dunque il nostro compito è quello di sviluppare conoscenza attraverso la ricerca; dobbiamo ricreare conoscenza attraverso l’educazione – insegnando cioè alle generazioni future – e, inoltre, cercando di cogliere il nostro obiettivo: tradurre le conoscenze in assistenza e cure di qualità. La domanda è, dunque, molto interessante, poiché spesso tendiamo a separare la gestione dal reale processo educativo del sistema sanitario. Noi ci occupiamo di gestire persone – ovvero la risorsa più rilevante che ci sia –, tempo e, naturalmente, strutture e soldi. Una corretta gestione è fondamentale per ottenere la tutela della salute. Ma stiamo parlando di gestione: la gestione sanitaria non è, come invece spesso è rappresentata, qualcosa di estraneo o un ostacolo alla cura della salute; ma piuttosto dovrebbe essere un elemento che facilita le cure. La visione della gestione sanitaria risulta danneggiata se viene intesa come un elemento a sé stante, invece di essere considerata come un punto di arrivo. Bisogna piuttosto adottare un approccio attraverso il quale un buon manager sia in grado di dimostrarsi anche un ottimo dirigente. È necessario capire che talento professionale e corretta abilità gestionale devono essere al servizio dello sviluppo della conoscenza, per educare e formare nuove generazioni di professionisti e per seguire al meglio i pazienti. In sostanza, l’intero processo gestionale deve essere considerato come parte integrante dell’azienda accademico-universitaria e sanitaria.

La pandemia ha messo in luce quanto i termini “locale” e “globale” siano interdipendenti. Quali sono i possibili approcci per formulare politiche che possano avere un approccio di tipo “glocal”, per utilizzare un termine che lei conosce bene?

Julio Frenk: Sì, in effetti è un termine che mi piace. Non sono stato io a inventarlo, ma rappresenta bene l’idea di quanto il nostro mondo sia interconnesso e sempre più collegato: tutto è talmente globale, da diventare locale. E ogni piccolo aspetto della vita può avere implicazioni a livello globale. La pandemia ha reso evidente questo aspetto “glocal” del pianeta. Un evento locale –l’esplosione di una malattia, probabilmente partita da un mercato di una città in Cina, Wuhan – molto velocemente, in qualche mese, si è trasformato nella più impattante serie di conseguenze che la nostra generazione si sia mai trovata ad affrontare. In tre mesi è diventato un fenomeno globale. E questa globalità ha un effetto a livello locale, perciò alla fine ogni azione è locale, siamo tutti radicati in una realtà locale. Ogni sistema sanitario deve prendersi cura di pazienti e popolazioni a livello locale. Bisogna essere coscienti del fatto che ogni decisione presa, anche a livello locale, ha sempre e comunque un impatto globale. Questa pandemia ha mostrato quanto l’interconnessione “glocal” sia fondamentale; nella mia vita non avevo mai vissuto nulla del genere. La grande lezione imparata è questa: siamo tutti soggetti al rischio; la soluzione ai problemi non può essere quella di rigettare l’interconnessione globale esistente e provare a intervenire o cercare un isolamento locale, ricercando una sorta di illusorio senso di sicurezza.
Sfortunatamente, molti governi e istituzioni hanno utilizzato anche la pandemia per scaricare responsabilità su altri (altri Paesi, altre persone). Il palleggio di responsabilità è avvenuto proprio in questo periodo storico così travagliato, la pandemia più drammatica che il mondo abbia mai sperimentato. Anche se le pandemie, o le grandi epidemie, accompagnano da sempre l’uomo. E da sempre l’uomo ha questo innato istinto di incolpare qualcun altro, cercando di trovare una soluzione attraverso il rigetto e l’emarginazione di qualcun altro. Ma non è così che può funzionare, non ha mai funzionato e non potrà mai. Ce ne stiamo rendendo conto adesso con questo problema “glocal”: la soluzione si deve ricercare nella cooperazione globale. Il lato positivo di questa pandemia è stato senz’altro la velocità e l’intensità senza precedenti della cooperazione globale del mondo scientifico – in tutti i settori: accademico, ministeriale, istituzionale, tutti hanno collaborato, ed ecco come siamo arrivati a vaccini efficaci in tempo record. Occorre avere consapevolezza del fatto che siamo una specie che condivide il pianeta con altre specie di esseri viventi; non possiamo isolarci da altri esseri umani o da altri abitanti di questo pianeta. E quando lo dimentichiamo, ecco che ci troviamo ad affrontare le sfide più difficili, come pandemie o cambiamento climatico. Il concetto di “glocal” è utile per capire che non esiste una realtà locale che non tenga conto degli avvenimenti globali e viceversa. Uno degli avvertimenti della pandemia è stato quello spingere a lavorare per rafforzare la cooperazione globale, ricercare soluzioni multilaterali, e anche per rigettare coloro che invocano restrizioni, xenofobia o nazionalismi vari.

Ecco perché al giorno d’oggi non ha senso parlare di un singolo Paese, in caso di pandemia. Il che fa riflettere: i Paesi dove la risposta alla covid-19 è stata peggiore sono quelli con un’incidenza particolarmente elevata di populismo. Come si può spiegare questa risposta negativa in Paesi come, per esempio, il Brasile?

Julio Frenk: Dunque, si tratta di una caratteristica importante di questa pandemia e ritengo che sia una delle lezioni da imparare. Se si osservano gli avvenimenti a livello mondiale, è evidente quanto l’impatto della pandemia sia stato piuttosto simile in Paesi che hanno simili livelli di sviluppo economico e simile livello di sviluppo del sistema sanitario. Stiamo affrontando tutti lo stesso virus, e apparteniamo tutti alla specie umana; eppure le risposte sono state molto diverse in alcune nazioni. Se si cerca di fare un’analisi, le ragioni sono sorprendenti. Alcuni dei giocatori peggiori in questa partita sono i governi populisti di alcuni Paesi. Non sto dicendo che ci sia un nesso causa-effetto, ma da un punto di vista pratico ogni governo populista ha conseguito risultati scadenti.
Proviamo a capovolgere il ragionamento: è molto difficile trovare un Paese con governo populista che sia riuscito a rispondere bene alla pandemia. I pochi Paesi che ci sono riusciti hanno utilizzato la pandemia come una scusa per portare avanti il proprio modello di autoritarismo. Per il resto, hanno fatto un pessimo lavoro, in tutto il mondo, ad esempio in Turchia o in India. Anche in America la situazione è terribile: negli Stati Uniti è accaduto con la precedente amministrazione presidenziale, come pure in Brasile e in Messico. Tre dei Paesi più grandi dell’Occidente sono stati ai primi tre posti in quanto a numero di decessi. E adesso anche altre nazioni con governi populisti hanno raggiunto questi livelli, ad esempio l’India. Ritengo che ci siano tratti molto comuni nelle differenti espressioni del populismo. I leader populisti tendono a minimizzare – o addirittura a negare – la competenza. Infatti la mentalità populista divide il mondo in due categorie, buoni (e il leader, quasi sempre uomo, appartiene a questo gruppo) e cattivi (e gli esperti più competenti, fanno parte invece di questa categoria). Abbiamo sentito ripetere: “No, non si tratta di un’emergenza. È come una banale influenza. Non dobbiamo allarmarci. Finirà presto”, frasi che ormai conosciamo. A inizio 2020 abbiamo ascoltato spesso: “Si concluderà tutto entro l’estate” e via dicendo. Minimizzare per screditare le opinioni degli esperti. Il populismo non ama il pensiero critico e indipendente, nemmeno per quanto riguarda la scienza. La tendenza è quella appunto di screditare la scienza e gli scienziati.
Il pensiero populista inoltre è molto divisivo, quando le situazioni di emergenza richiederebbero grande unità. Invece così i sentimenti di divisione tra le persone sono molto forti e tutti i provvedimenti vengono strumentalizzati politicamente. Per esempio, è stata patetica la gestione dei dispositivi di protezione del viso. La strumentalizzazione delle situazioni, perciò, è un’altra caratteristica ricorrente. Infine, altro tratto comune è il continuo non farsi carico delle responsabilità per quanto riguarda gli errori iniziali nella gestione dell’emergenza: le responsabilità sono sempre scaricate su altri. Nel caso del precedente governo degli Stati Uniti, la tendenza è stata incolpare l’Organizzazione mondiale della sanità, oppure la Cina, stigmatizzando l’intera nazione. Per tutti questi motivi, i leader populisti hanno segnato profondamente la realtà. Durante una pandemia, il sentimento dominante è l’incertezza. Ci siamo trovati ad affrontare per la prima volta un nuovo agente patogeno: se non si accetta che sempre più evidenze scientifiche verranno fuori con l’evoluzione della pandemia, sarà davvero difficile fare passi in avanti. Al contrario, i Paesi che hanno gestito meglio la situazione sono quelli che si sono affidati alla scienza, agli esperti. Hanno cercato di tenere unita la popolazione, non hanno incolpato altri, si sono fatti carico dei problemi e le istituzioni sono state responsabili. Se alcune strategie non portavano i risultati sperati, sono riusciti a “correggere il tiro” e ad adattarsi.
È interessante notare come molti Paesi dove la risposta alla pandemia è stata migliore siano governati da donne. Mi auguro che uno degli insegnamenti, una delle conseguenze positive di questa drammatica situazione sia quello, finalmente, di eliminare il pregiudizio sulla posizione delle donne nel mondo delle istituzioni. Le donne a capo di governi, o comunque in campo con le diverse forze politiche, hanno saputo impartire lezione al resto del mondo. In particolare, hanno mostrato gli effetti positivi del loro grande operato proprio ai Paesi più populisti e maschilisti (molti di loro devono avere profonde e nascoste insicurezze per rifiutare di indossare mascherine anche in pubblico). Abbiamo capito tanto, e tanto è ancora da imparare; speriamo di essere più preparati in futuro.