Applicazioni cliniche di bevacizumab nel trattamento
del tumore del colon-retto e dell’ovaio

Romano Danesi1, Chiara Cremolini2, Francesca Ciccarone3, DOMENICA LORUSSO3,4

1Farmacologia Clinica e Farmacogenetica, Università di Pisa; 2Dipartimento di Ricerca Traslazionale e delle Nuove Tecnologie in Medicina e Chirurgia, Università di Pisa; 3Ginecologia Oncologica, Fondazione Policlinico Universitario Gemelli IRCCS, Roma; 4Università Cattolica del Sacro Cuore, Roma.

Pervenuto il 10 maggio 2021. Accettato il 18 maggio 2021.

Riassunto. Lo sviluppo dei farmaci biologici, iniziato a partire dagli anni ’80, ha rivoluzionato il trattamento di numerose patologie oncologiche e malattie autoimmuni gravemente invalidanti, con evidenze di beneficio ampiamente dimostrate. Oggi i farmaci biologici rappresentano una categoria importante e in continuo sviluppo e sono impiegati sia come terapia di supporto in onco-ematologia sia come molecole dotate di attività terapeutica propria, come gli anticorpi monoclonali. Tra questi, il bevacizumab rappresenta un farmaco di rilevante valore clinico, impiegato come terapia antiangiogenica in numerosi tumori, in particolare il carcinoma del colon-retto e il tumore ovarico. La scadenza del periodo brevettuale degli anticorpi monoclonali, tra cui il bevacizumab, ha aperto allo sviluppo di farmaci biosimilari, rappresentati da molecole strutturalmente simili e con caratteristiche farmacocinetiche, farmacodinamiche e cliniche equivalenti al farmaco biologico già presente in uso clinico (farmaco di riferimento). L’iter di sviluppo di questi farmaci è contenuto nelle linee guida dei maggiori enti regolatori (FDA/EMA) ed è più rapido rispetto a quello previsto per i farmaci di riferimento. Avendo i biosimilari un costo inferiore, il loro impiego rappresenta, pertanto, una possibilità di contenimento della spesa sanitaria e di soddisfacimento della crescente domanda in termini di efficacia e di personalizzazione delle terapie farmacologiche. Considerando la particolare gravità delle malattie trattate, i farmaci biosimilari dovranno essere usati con piena consapevolezza, in termini di efficacia e sicurezza, dal momento che la loro approvazione si fonda su un rigoroso processo di valutazione analitica, preclinica e clinica.

Parole chiave. Anticorpi monoclonali, bevacizumab, biosimilari, carcinoma del colon-retto, tumore ovarico.

Clinical applications of bevacizumab in the treatment of colorectal and ovarian cancer.

Summary. The development of biological drugs, which began in the 1980s, has revolutionized the treatment of numerous oncological diseases and severely disabling autoimmune diseases, with widely demonstrated evidence of benefit. Today, biological drugs represent an important and continuously developing category and are used both as a support therapy in onco-hematology and as molecules with their own therapeutic activity, such as monoclonal antibodies. Among these, bevacizumab represents a drug of relevant clinical value, used as antiangiogenic therapy in numerous cancers, in particular colorectal and ovarian cancers. The expiry of the patent period of monoclonal antibodies, including bevacizumab, has opened up to the development of biosimilar drugs, represented by structurally similar molecules with pharmacokinetic, pharmacodynamic and clinical characteristics equivalent to a biological drug already present in clinical use (originator biologic). The development process of these drugs is contained in the guidelines of the major regulatory bodies (FDA/EMA) and is faster than that provided for the originator biologic. Since biosimilars have a lower cost than reference drugs, their use represents a possibility of containing health care costs and of satifying the growing demand in terms of efficacy and personalization of pharmacological therapies. Considering the particular severity of the diseases treated, including colorectal and ovarian cancers, biosimilar drugs must be used with full awareness, in terms of efficacy and safety, since their approval is based on a rigorous analytical process, as well as preclinical and clinical evaluation.

Key words. Bevacizumab, biosimilars, colorectal cancer, monoclonal antibodies, ovarian cancer.

Introduzione

I medicinali biologici sono proteine complesse prodotte da una fonte biologica e comprendono gli anticorpi monoclonali. Sono prodotti di tecnologie avanzate che utilizzano organismi viventi, come le cellule eucariote, coltivati ed espansi in bioreattori. All’interno dei sistemi cellulari viene inserito un gene che consente loro di produrre una specifica proteina. Ogni produttore utilizza le proprie linee cellulari e sviluppa i propri processi produttivi esclusivi e altamente sensibili di modifiche anche di entità limitata. Le fasi successive di produzione di un farmaco biotecnologico sono lo sviluppo della cellula ospite, la produzione della proteina ricombinante, la purificazione, l’analisi della proteina ottenuta, la formulazione della forma farmaceutica e la conservazione del farmaco.

È fondamentale, pertanto, che il processo di produzione venga controllato accuratamente, per ottenere risultati costanti e per garantire la qualità, la sicurezza e l’efficacia del prodotto finale.

I farmaci biosimilari

Un medicinale biosimilare è un biologico sviluppato per essere simile a un farmaco di riferimento già presente in uso clinico, di cui è scaduto il brevetto. Le differenze tra i due sono a carico delle modificazioni post-traslazionali (per es., glicosilazione); infatti, come il medicinale di riferimento, il biosimilare ha un grado di variabilità naturale, essendo un prodotto che presenta un alto livello di complessità. Se questa variabilità ed eventuali differenze tra il biosimilare e il suo medicinale di riferimento sono dimostrate ininfluenti in termini di sicurezza ed efficacia, allora il biosimilare può essere approvato (figura 1).




I biosimilari vengono normalmente autorizzati diversi anni dopo l’approvazione del medicinale di riferimento. Questo perché il medicinale di riferimento beneficia di un periodo di esclusività commerciale, durante il quale i biosimilari non possono essere autorizzati.

Sebbene siano seguiti gli stessi passaggi produttivi, è necessario un confronto tra le caratteristiche funzionali e strutturali del biosimilare e del prodotto di riferimento. Qualsiasi differenza tra i due farmaci deve essere giustificata nell’ambito del “comparability exercise”1. Tra i due farmaci non devono esserci differenze significative in termini di qualità, efficacia e sicurezza. Il principio della biosimilarità è a garanzia che eventuali differenze nella struttura non abbiano effetti negativi sull’efficacia e la sicurezza del prodotto.

La prima fase comprende la comparabilità della qualità, ovvero il confronto delle caratteristiche chimico-fisiche, biologiche e di purezza del candidato biosimilare rispetto al farmaco di riferimento. Questo programma di caratterizzazione viene condotto utilizzando un’ampia serie di test analitici, dal momento che nessun singolo test è in grado di caratterizzare tutti gli aspetti di un prodotto. Un passaggio chiave nel processo produttivo è la glicosilazione2. Ogni linea cellulare scelta per la produzione di un farmaco biologico ha proprie caratteristiche che determinano la quantità di proteina ricombinante che può essere prodotta e le modificazioni post-traslazionali che possono essere effettuate; queste sono peculiari di ogni linea cellulare e prevedono l’aggiunta di gruppi glucidici alla proteina. Questi cambiamenti possono modificare le proprietà chimico-fisiche, la solubilità, il profilo immunologico, l’interazione con il recettore e l’emivita della proteina. È fondamentale la scelta della linea cellulare opportuna, poiché le diverse specie cellulari hanno differenti capacità di glicosilare le proteine che producono. Queste modifiche della proteina possono influenzare l’efficacia e la sicurezza di un farmaco biologico. Oltre alla variabilità che si può presentare durante il processo produttivo e che porta a variabilità tra i diversi lotti, sono da considerare anche i cosiddetti “drift”, o mutamenti casuali, responsabili della caratteristiche qualitative del farmaco.

La seconda fase comprende il confronto sulle caratteristiche pre-cliniche che consistono in test in vitro e in studi su animali3. Gli studi non clinici includono studi di tossicità a dose ripetuta, oltre a studi farmacocinetici e farmacodinamici in un opportuno modello animale. I parametri ottenuti devono essere giustificati scientificamente allo scopo di confermare la comparabilità con il prodotto di riferimento. Lo scopo di questi studi è confermare ulteriormente la biosimilarità o rilevare possibili differenze tra il candidato biosimilare ed il prodotto di riferimento.

La terza parte è rappresentata dagli studi clinici4. I test clinici per un biosimilare non sono richiesti a un livello simile a quello necessario per un nuovo principio attivo, in virtù dell’esperienza clinica acquisita con l’uso del farmaco di riferimento, accumulata nel corso degli anni. Gli studi clinici abbreviati garantiscono che non vengano condotti test ripetitivi nell’uomo e consentono di ridurre i costi molto elevati dello sviluppo di un farmaco biologico. Gli studi clinici sono di efficacia e di sicurezza in una o più indicazioni rappresentative nell’uomo. Oltre all’efficacia comparativa, deve essere dimostrato anche un profilo di sicurezza sovrapponibile in termini di grado e frequenza delle reazioni avverse. La valutazione della confrontabilità del profilo di immunogenicità per il biosimilare e il prodotto di riferimento rientra anch’essa nei dati di sicurezza clinica. Lo scopo principale della valutazione del prodotto biosimilare non è la caratterizzazione del profilo rischio/beneficio del prodotto come tale, bensì la valutazione qualitativa e quantitativa della comparabilità del prodotto rispetto a quello di riferimento. I farmaci biosimilari sono sviluppati in modo da corrispondere al relativo prodotto di riferimento in termini di qualità, efficacia e sicurezza.

Dal momento che, come già detto, i farmaci biologici sono prodotti tramite biotecnologie che operano su sistemi viventi, come cellule eucariote, e presentano alcuni aspetti di microeterogeneità dipendenti dalla cellula ospite che viene utilizzata, dai vettori utilizzati per inserire il gene di interesse, dalle condizioni di crescita e fermentazione e dalle differenti metodiche di purificazione, tutti questi elementi determinano l’unicità del prodotto e non sono esattamente trasferibili da un laboratorio a un altro. Il processo di produzione di questi farmaci è talmente caratterizzante che si afferma che “il prodotto è il processo”, a sottolineare il fatto che tutte le metodiche e i materiali usati partecipano alla caratterizzazione del farmaco finale. La produzione di un farmaco biotecnologico è un processo complesso, presenta molti passaggi critici che richiedono specifiche conoscenze e una stretta aderenza alla Good Manufacturing Practices (GMP). L’elemento qualità è pertanto determinante. Anche minime differenze nella struttura della proteina possono portare a modificazioni delle proprietà farmacologiche, quindi causare una diminuzione dell’efficacia del farmaco, oppure una risposta immunitaria nel paziente.

Bevacizumab e suoi biosimilari

Il bevacizumab è un anticorpo monoclonale umanizzato prodotto mediante la tecnica del DNA ricombinante in cellule ovariche di criceto cinese. Legandosi al fattore di crescita delle cellule endoteliali vascolari (Vascular Endothelial Growth Factor - VEGF), promotore chiave della vasculogenesi e dell’angiogenesi, impedisce a quest’ultimo di legarsi ai suoi recettori, Flt-1 (VEGFR-1) e KDR (VEGFR-2), sulla superficie delle cellule endoteliali.

Il blocco dell’attività biologica del VEGF fa regredire la vascolarizzazione dei tumori, normalizza la vascolarizzazione tumorale residua e inibisce la formazione di una nuova vascolarizzazione, impedendo perciò la crescita tumorale. Bevacizumab è autorizzato per numerose indicazioni terapeutiche tra cui il carcinoma metastatico del colon-retto, il carcinoma mammario metastatico, il carcinoma polmonare non a piccole cellule (NSCLC), il carcinoma renale avanzato e/o metastatico, il carcinoma ovarico epiteliale, il carcinoma delle tube di Falloppio, il carcinoma peritoneale primario, il carcinoma della cervice e per il trattamento della recidiva di malattia resistente a platino. Il prodotto originale è stato autorizzato dalla Food and Drug Administration (FDA) nel 2004 e dalla European Medicines Agency (EMA) nel 2005.

Sono stati recentemente sviluppati alcuni biosimilari di bevacizumab, tra cui due hanno ricevuto approvazione da parte dei maggiori enti regolatori, EMA e FDA, e cioè ABP 2155, PF-064395356 e SB87, che ha mostrato equivalenza con bevacizumab in termini di percentuale di risposta cumulativa, sicurezza, parametri farmacocinetici e immunogenicità in studi di fase I e III8,9.

Lo studio di fase I randomizzato, in doppio cieco, a dose singola, a tre bracci, a gruppi paralleli, ha reclutato volontari maschi sani randomizzati a ricevere una dose di 3 mg/kg di SB8, bevacizumab-EU o bevacizumab-US tramite infusione endovenosa9. Gli endpoint primari erano l’area sotto la curva concentrazione-tempo dal tempo zero all’infinito (AUC∞) e all’ultima concentrazione quantificabile (AUClast) e la concentrazione sierica massima osservata (Cmax). La bioequivalenza è stata raggiunta se gli intervalli di confidenza del 90% (IC) per i rapporti delle medie geometriche dei minimi quadrati (LSMeans) degli endpoint primari erano entro i margini di bioequivalenza predefiniti dell’80%-125%. Sono state valutate anche la sicurezza e l’immunogenicità9.

Un totale di 119 partecipanti hanno ricevuto una singola dose del farmaco in studio (SB8, n=40; bevacizumab-EU, n=40; bevacizumab-US, n=39) e la popolazione finale utilizzata nella valutazione farmacocinetica consisteva in 114 partecipanti (SB8, n=38; bevacizumab-EU, n=38; bevacizumab-US, n=38). Gli IC al 90% dei rapporti geometrici LSMeans per AUC∞, AUClast e Cmax erano completamente contenuti entro il margine di bioequivalenza predefinito dell’80%-125% per tutti i confronti tra i gruppi di trattamento. I rapporti geometrici LSMean per SB8/bevacizumab-EU, SB8/bevacizumab-US e bevacizumab-EU/bevacizumab-US erano 88,01%, 88,48% e 100,54% per AUC∞; 88,65%, 89,08% e 100,49% per AUClast; 99,59%, 101,15% e 101,56% per Cmax, rispettivamente.

L’incidenza degli eventi avversi dal trattamento è stata ben confrontabile (SB8: 50,0%, bevacizumab-EU: 37,5%, bevacizumab-US: 53,8%), la maggior parte dei quali erano lievi e considerati non correlati al farmaco in studio. Non si sono verificati decessi o interruzioni del trattamento a causa di eventi avversi. Anche l’incidenza degli anticorpi anti-farmaco è stata simile tra tutti i gruppi e non sono stati rilevati anticorpi neutralizzanti.

In sintesi, lo studio di fase I ha dimostrato la bioequivalenza farmacocinetica e i profili di sicurezza e immunogenicità simili di SB8 a entrambi i prodotti di riferimento, bevacizumab-EU e bevacizumab-US, e di bevacizumab-EU a bevacizumab-US. Questi risultati rappresentano un importante contributo alla totalità delle evidenze a sostegno della biosimilarità di SB8 rispetto al suo prodotto di riferimento bevacizumab, a seguito della dimostrazione di somiglianza analitica e funzionale in ampie valutazioni di qualità e pre-cliniche.

Questa totalità di prove è completata da ulteriori dati clinici di uno studio di fase III in pazienti con NSCLC, che ha dimostrato l’equivalenza di SB8 e bevacizumab in termini di miglior tasso di risposta globale e sicurezza, farmacocinetica e immunogenicità del tutto simili8.

In questo studio i pazienti con NSCLC sono stati randomizzati (1: 1) in doppio cieco per ricevere SB8 o bevacizumab originale 15 mg/kg per via endovenosa con paclitaxel/carboplatino ogni 3 settimane per 24 settimane, seguiti da monoterapia di mantenimento con SB8 o bevacizumab. L’endpoint primario era il miglior tasso di risposta globale (ORR) entro 24 settimane. Gli endpoint secondari includevano sopravvivenza, sicurezza, farmacocinetica e immunogenicità.

Sono stati randomizzati 763 pazienti (SB8, n=379; bevacizumab, n=384); le caratteristiche di base erano ben bilanciate. La migliore ORR nella popolazione complessiva è stata del 47,6% e del 42,8% e la migliore ORR nella popolazione “per-protocol” è stata rispettivamente del 50,1% e del 44,8% per SB8 e bevacizumab. Il rapporto di rischio della migliore ORR era 1,11 (90% CI, 0,975-1,269) e la differenza di rischio nella migliore ORR era del 5,3% (95% CI, -2,2% -12,9%). Gli esiti di sopravvivenza mediana erano confrontabili tra SB8 e bevacizumab: la sopravvivenza libera da progressione (PFS) era rispettivamente di 8,50 vs 7,90 mesi (p=0,9338); la sopravvivenza globale (OS) è stata rispettivamente di 14,90 vs 15,80 mesi (p=0,7713) e la durata della risposta è stata rispettivamente di 7,70 e 7,00 mesi (p=0,6928). La gravità e l’incidenza degli eventi avversi emergenti dal trattamento, la farmacocinetica e l’immunogenicità erano comparabili tra SB8 e ­bevacizumab8.

Estrapolazione

Gli studi citati precedentemente ed altri dello stesso contenuto testimoniano l’alto grado di qualità, sicurezza ed efficacia dei biosimilari, che sono alla base della procedura di estrapolazione10,11 che rappresenta l’autorizzazione di un medicinale biosimilare per indicazioni cliniche del medicinale di riferimento senza la necessità di condurre studi clinici del medicinale biosimilare in tali indicazioni12. La parte cruciale nella comprensione del concetto è riconoscere innanzitutto che l’estrapolazione è un principio normativo e scientifico consolidato13 che è stato utilizzato ben prima dell’arrivo dei medicinali biosimilari.

Il principio di estrapolazione viene applicato anche dopo importanti cambiamenti nel processo di produzione di un biologico. Quando si verifica questo tipo di cambiamento, le agenzie regolatorie richiedono al produttore di condurre un esercizio di comparabilità completo per stabilire che la modifica pre-produzione e i prodotti di modifica post-produzione sono sufficientemente simili. I dati clinici vengono solitamente studiati in una indicazione ed estrapolati alle altre indicazioni, tenendo conto di tutti i dati generati dall’esercizio di comparabilità12.

L’impatto di bevacizumab
nel percorso terapeutico dei pazienti
affetti da carcinoma colorettale metastatico: il prodotto di benefici incrementali

Era il 26 febbraio 2004 quando la FDA ha approvato bevacizumab per il trattamento di pazienti affetti da carcinoma colorettale metastatico. Numerose altre indicazioni si sono aggiunte sulla base dei risultati di studi clinici che hanno a più riprese attestato l’efficacia dell’inibizione dell’angiogenesi come strategia terapeutica in diverse patologie solide. A tal proposito, il carcinoma colorettale si è dimostrato un terreno particolarmente favorevole per trasferire dal laboratorio alla clinica le pionieristiche intuizioni di Judah Folkman sulla formazione dei nuovi vasi sanguigni come segno distintivo dei tumori maligni e quelle successive di Napoleone Ferrara sul ruolo del VEGF come mediatore importante di questo processo biologico.

Negli anni, l’utilizzo di bevacizumab si è consolidato nella prima linea di trattamento del carcinoma colorettale metastatico in combinazione con regimi chemioterapici di varia intensità14. La possibilità di modulare l’intensità della chemioterapia di prima linea in base a considerazioni cliniche e molecolari è oggi concreta grazie ai risultati di molteplici trial che hanno dimostrato l’efficacia di terapie di combinazione comprendenti uno, due o tutti e tre i citotossici convenzionali attivi nel carcinoma colorettale metastatico.

Bevacizumab nella prima linea di trattamento: un buon partner per tutte le intensità di chemioterapia

Oggi le linee guida nazionali e internazionali raccomandano la valutazione delle condizioni generali del paziente, in primis in termini di età e performance status, ma anche per quanto riguarda le sue aspettative e le sue attitudini, come primum movens dell’algoritmo terapeutico per la personalizzazione del trattamento di prima linea15,16.

Nei pazienti ritenuti candidati non ottimali a una terapia upfront di combinazione ma per i quali appare proponibile una monochemioterapia a base di fluoropirimidine, l’aggiunta di bevacizumab si è dimostrata sicura ed efficace in un pragmatico trial britannico che ha stabilito nella combinazione di capecitabina e bevacizumab l’attuale standard of care per questa popolazione, a meno di controindicazioni specifiche17.

Sulla base di un recente studio di fase II randomizzato non comparativo, la combinazione della nuova fluoropirimidina orale trifluridina/tipiracile con bevacizumab emerge oggi come opzione di interesse, meritevole di ulteriori studi che ne valutino l’efficacia rispetto allo standard (capecitabina e bevacizumab), con un occhio attento al profilo di tollerabilità, di primaria importanza in questo contesto clinico18. A tal proposito, è attualmente in corso uno studio di fase III randomizzato comparativo, SOLSTICE19, che ha di recente completato l’accrual e i cui risultati saranno certamente utili per valutare l’eventuale spazio nella pratica clinica di questa opzione terapeutica.

La scelta della monoterapia emerge nella maggior parte dei casi come necessità dettata da età o condizioni di fragilità del paziente più che da considerazioni legate alla presunta, ma spesso difficilmente accertabile a priori, indolenza della malattia. Non particolarmente convincenti sono le evidenze da studi di sequenza che, pur non dimostrando risultati a lungo termine differenti in base all’intensità della terapia di partenza, propongono comunque regimi più intensi, e quindi più impegnativi, dopo la progressione di malattia, quando le condizioni generali dei pazienti sono spesso meno brillanti e di conseguenza la compliance al trattamento è subottimale20.

La disponibilità di un’altra classe di farmaci a bersaglio molecolare, gli anticorpi monoclonali anti-EGFR, ha aperto una lunga discussione su quale fosse il miglior agente target da associare alle doppiette di citotossici, intensità standard e largamente adottata di chemioterapia. Negli anni, la selezione molecolare e clinica dei pazienti da candidare a trattamento upfront con farmaci anti-EGFR è stata perfezionata dapprima grazie alla dimostrazione del ruolo delle mutazioni attivanti dei geni della superfamiglia RAS come predittori di resistenza intrinseca21, e successivamente grazie alle evidenze relative alla diversa efficacia di questi farmaci rispetto alla sede di origine del tumore primitivo22. In particolare si è compreso come il diverso make-up molecolare dei tumori che originano prossimalmente alla flessura splenica-terzo distale del colon trasverso rispetto a quelli che originano distalmente a tale spartiacque si traduca in differenze cliniche di sensibilità agli anti-EGFR, per effetto soprattutto della maggiore prevalenza di alterazioni molecolari associate a resistenza a questa classe di farmaci nelle sezioni destre del colon.

Nonostante non sia mai arrivata una dimostrazione definitiva dell’impatto predittivo negativo della mutazione V600E di BRAF, associata a pessima prognosi, il minimo se non nullo beneficio osservato con l’aggiunta degli anti-EGFR alla chemioterapia in questo sottogruppo ne ha fortemente limitato l’utilizzo, fino alle recenti evidenze di beneficio da cetuximab, ma in combinazione con il BRAF inibitore encorafenib, a partire dalla seconda linea di trattamento sulla scorta dei risultati dello studio BEACON23.

A oggi, pertanto, la combinazione di chemioterapia (prevalentemente doppietta) e anti-EGFR è l’opzione terapeutica raccomandata come prima scelta nei tumori RAS e BRAF wild-type a origine dal colon sinistro. In tutti gli altri casi, la combinazione di chemioterapia e bevacizumab emerge come trattamento di scelta.

Per quanto concerne l’intensità del trattamento di combinazione, vari studi hanno valutato il potenziale beneficio dell’intensificazione della chemioterapia di prima linea, dalle tradizionali doppiette alla tripletta FOLFOXIRI, sempre in combinazione con bevacizumab, e una recente meta-analisi per dati individuali che ha incluso cinque studi randomizzati condotti con questo obiettivo ha mostrato come l’entità del beneficio in sopravvivenza dal trattamento più intensivo sia clinicamente rilevante anche a lungo termine24 (figura 2).




Ovviamente, la tripletta si associa a un maggior carico di tossicità chemio-correlate (in particolare diarrea e neutropenia di grado 3) pur in assenza di un incremento nell’incidenza degli eventi avversi seri e in quelli correlati al meccanismo d’azione di bevacizumab.

Oggi la combinazione di FOLFOXIRI e bevacizumab è ritenuta una valida opzione terapeutica soprattutto per pazienti in buone condizioni generali, prevalentemente di età inferiore ai 70 anni, con tumore al colon destro e/o RAS mutato. Vista l’attività di questo regime, che si traduce in un elevato tasso di resezioni secondarie radicali, è un trattamento spesso tenuto in considerazione quando si ricerca una importante e rapida regressione del volume delle lesioni per convertirle alla resecabilità chirurgica o nei casi in cui è immediato il rischio che in assenza di risposta obiettiva la malattia possa divenire rapidamente sintomatica.

La terapia di mantenimento:
evidenze disponibili

Il paradigma più comune e affermato di trattamento prevede un’iniziale fase di terapia di combinazione, poi seguita da una fase di mantenimento, in cui si prosegue il trattamento a bersaglio molecolare in combinazione con una chemioterapia depotenziata, con fluoropirimidina in monoterapia15. Il beneficio dal trattamento di mantenimento con fluoropirimidina e bevacizumab, dopo un’iniziale terapia di combinazione con chemioterapia e antiangiogenico, è stato dimostrato in diversi trial clinici che evidenziano un chiaro vantaggio rispetto alla sola osservazione, la cosiddetta “vacanza terapeutica”, in termini di ritardo dell’evidenza di progressione di malattia, e un meno rilevante beneficio in OS. La prosecuzione del solo antiangiogenico non si è, viceversa, dimostrata clinicamente vantaggiosa.

Pertanto oggi la durata della chemioterapia di combinazione (doppietta o tripletta) è limitata a 4-6 mesi, seguita poi da trattamento di mantenimento da proseguire fino a progressione di malattia, tossicità inaccettabile o rifiuto del paziente.

Le caratteristiche di tollerabilità di bevacizumab che lo rendono un buon partner per i vari regimi chemioterapici di diversa intensità sopra citati sono le stesse che ne favoriscono l’utilizzo a lungo termine nella fase di mantenimento, laddove l’obiettivo di consolidamento del risultato ottenuto dalla terapia di induzione si vuole raggiungere a prezzo di un modesto carico di eventi avversi per migliorare la qualità della vita dei pazienti in trattamento.

L’inibizione dell’angiogenesi
nelle successive linee di trattamento

La rilevanza dell’inibizione dell’angiogenesi come opzione terapeutica nel carcinoma colorettale metastatico è ribadita e avvalorata dalle evidenze di efficacia della prosecuzione di tale strategia con farmaci mirati anche dopo l’evidenza clinica di progressione di malattia. Gli studi ML18147 (fase III) e BEBYP (fase II)25,26 hanno dimostrato il beneficio dalla prosecuzione di bevacizumab dopo la progressione in combinazione con una chemioterapia alternativa rispetto a quella somministrata in prima linea. Analoghi risultati, consistenti con quelli ottenuti con bevacizumab, si sono successivamente registrati con gli antiangiogenici aflibercept27 e ramucirumab28, entrambi in combinazione con FOLFIRI. Pur in assenza di studi di confronto testa a testa tra i vari farmaci antivascolari, la minore incidenza di eventi avversi chemio-correlati rappresenta indubbiamente un punto di forza per la scelta di bevacizumab, mentre il differente meccanismo d’azione di aflibercept, capace di inibire non solo VEGF-A ma anche VEGF-B e PlGF, e ramucirumab, diretto contro il recettore VEGFR2, possono far propendere per uno switch dell’antiangiogenico soprattutto in caso di limitata durata del beneficio dal trattamento di prima linea.

Sebbene bevacizumab sia stato lungamente ritenuto inefficace nelle linee avanzate di trattamento, l’affermazione di trifluridina/tipiracile nel setting chemiorefrattario ha aperto la strada alla valutazione dell’eventuale valore aggiunto di bevacizumab in combinazione con la nuova fluoropirimidina in pazienti pre-trattati.

Uno studio di fase II randomizzato concepito con questo obiettivo ha evidenziato un significativo beneficio in termini di PFS, endpoint primario dello studio, dall’utilizzo dell’antiangiogenico, a prezzo di un’incidenza non trascurabile di tossicità ematologica, in particolare neutropenia di grado 3, che pur non si traduceva in un elevato tasso di neutropenia febbrile29.

Per approfondire e verificare con maggiore potenza questi risultati, è attualmente in corso uno studio di fase III in cui pazienti con carcinoma colorettale metastatico in terza linea di trattamento sono randomizzati a ricevere trifluridina/tipiracile, uno dei possibili standard in questo setting, da sola o in combinazione con bevacizumab30.

Ruolo del bevacizumab nel trattamento
del carcinoma dell’ovaio

Il tumore dell’ovaio rappresenta la prima causa di morte tra le neoplasie ginecologiche. In Italia colpisce circa 5200 donne l’anno e ne uccide 330231. L’assenza di efficaci test di screening rende la diagnosi tardiva, allo stadio III e IV, nel 60-70% delle pazienti e questo, purtroppo, condiziona le possibilità di cura e di guarigione della malattia31. Negli ultimi 10 anni la ricerca scientifica ha reso la malattia più curabile ma sfortunatamente non ha guarito una quota significativamente maggiore di pazienti. Un grande contributo all’allungamento della sopravvivenza e alla cronicizzazione della malattia è derivato, oltre che dal miglioramento delle tecniche chirurgiche, anche e soprattutto dall’implementazione nella strategia di cura delle terapie di mantenimento, finalizzate a prolungare nel tempo i benefici della chemioterapia dopo la sua sospensione al prezzo di una tossicità più contenuta. Per anni la strategia di cura della malattia di nuova diagnosi si è basata sulla chirurgia primaria, finalizzata all’eradicazione di tutta la malattia visibile, seguita da 6 cicli di chemioterapia a base di platino e paclitaxel32. Purtroppo, malgrado l’efficace risposta immediata al trattamento, l’80% delle pazienti sviluppava una recidiva di malattia entro i primi due anni dalla sospensione della chemioterapia, e l’evento recidiva rappresentava il primo di una serie ininterrotta di riacutizzazioni di malattia, caratterizzate da un intervallo sempre più breve e da sempre più scarse possibilità di rispondere alla chemioterapia per l’insorgenza di fenomeni di chemio-resistenza33. In questo scenario, anche guardando a quello che stava succedendo in altri tumori solidi, hanno preso piede le terapie di mantenimento, di cui l’anticorpo monoclonale bevacizumab, diretto contro il VEGF, è stato il capostipite.

Razionale dell’utilizzo degli antiangiogenici
nel tumore ovarico

C’è un grosso razionale nell’utilizzo degli antiangiogenici nel tumore ovarico. I tumori ovarici avanzati presentano un’elevata espressione del VEGF che rappresenta quindi un fattore prognostico sfavorevole34. A differenza di altri tumori solidi, inoltre, nell’ovaio il bevacizumab agisce anche come agente singolo, riportando nella popolazione platino-resistente un tasso di risposta del 16-21%35,36, sovrapponibile, o anche migliore di quello che dà la chemioterapia nello stesso setting di malattia.

Bevacizumab nel trattamento di prima linea
del tumore ovarico

Due studi randomizzati di fase 3 hanno dimostrato l’efficacia del bevacizumab nel trattamento di prima linea della malattia di nuova diagnosi.

Lo studio registrativo GOG 2187 ha randomizzato circa 1800 pazienti con tumore ovarico in stadio IIIB-IIIC-IV con residuo microscopico di malattia dopo chirurgia primaria a ricevere 6 cicli di chemioterapia standard con carboplatino-paclitaxel vs la chemioterapia in combinazione a bevacizumab 15 mg/kg vs la chemioterapia con bevacizumab dato in combinazione e mantenimento per 15 mesi. Lo studio ha dimostrato che il bevacizumab dato in combinazione e mantenimento dopo chemioterapia di prima linea aumenta di 3,8 mesi la PFS rispetto alla sola chemioterapia (HR 0,71). Lo studio non ha evidenziato un vantaggio di OS se non in alcune analisi post hoc di sottogruppo che vedevano un vantaggio di circa 8 mesi di sopravvivenza nelle pazienti a più alto rischio trattate con il bevacizumab (stadi IV). L’aggiunta del bevacizumb alla chemioterapia si traduceva in un aumento significativo di alcune tossicità tipiche dell’antiangiogenico e in particolare ipertensione arteriosa, proteinuria, trombosi arteriose e venose, sanguinamenti, ritardi alla guarigione delle ferite e perforazioni intestinali.

Lo studio ICON 738 ha usato il bevacizumab nello stesso setting di malattia (prima linea) e nella stessa strategia (combinazione e mantenimento al termine della chemioterapia a base di platino); tuttavia presenta importanti differenze rispetto al GOG 218 riguardo alla dose di bevacizumab utilizzata (7,5 mg/kg), alla durata del trattamento (12 mesi) e alla tipologia di pazienti arruolate (nello studio erano presenti anche gli stadi I-II ad alto rischio e le pazienti agli stadi III-IV con residuo macroscopico di malattia dopo intervento chirurgico o mai operate). Lo studio ha confermato che l’aggiunta del bevacizumab alla chemioterapia aumenta in maniera significativa la PFS (HR 0,87), senza modificare la OS, se non in alcune analisi retrospettive post hoc che identificano un vantaggio di sopravvivenza di circa 8 mesi ancora una volta nelle pazienti a più alto rischio (stadi III con residuo macroscopico di malattia, stadi IV e pazienti mai operate). Anche in questo studio, il profilo di tossicità del farmaco viene confermato con l’ipertensione e la proteinuria, identificate come le tossicità più frequenti.

Ruolo di bevacizumab nella recidiva
platino-resistente di carcinoma ovarico

Lo studio AURELIA39 ha randomizzato 361 pazienti con recidiva platino-resistente (intervallo libero da platino <6 mesi) a ricevere una chemioterapia a scelta del clinico tra paclitaxel settimanale, topotecan o doxorubicina liposomiale pegilata (PLD), vs la stessa chemioterapia in combinazione al bevacizumab fino a progressione di malattia o tossicità intollerabile. Lo studio ha dimostrato un aumento significativo della PFS nel braccio sperimentale (HR 0,48) e del tasso di risposte obiettive al trattamento, senza un aumento della OS (HR 0,85), se non in una analisi post hoc nella combinazione settimanale paclitaxel-bevacizumab in cui un aumento della OS è riportato nel braccio sperimentale. La combinazione è approvata dall’EMA per il trattamento della recidiva platino-resistente di tumore ovarico in pazienti che non abbiano ricevuto più di due precedenti linee di terapia, ma non è rimborsata dall’Agenzia Italiana del Farmaco (AIFA).

Ruolo di bevacizumab nella recidiva
platino-sensibile di tumore ovarico

Tre studi hanno valutato il ruolo del bevacizumab in combinazione alla chemioterapia a base di platino nel trattamento della recidiva platino-sensibile (intervallo libero da platino >6 mesi) di tumore dell’ovaio.

Lo studio OCEANS40 ha randomizzato circa 500 pazienti con recidiva platino-sensibile di tumore ovarico, che non avevano precedentemente ricevuto il bevacizumab, a ricevere una chemioterapia con carboplatino-gemcitabina vs la stessa in combinazione al bevacizumab fino a progressione di malattia o tossicità inaccettabile. Lo studio ha dimostrato un aumento significativo della PFS nelle pazienti trattate nel braccio sperimentale (HR 0,48) e un aumento del tasso di risposte obiettive al trattamento (+25% nel braccio sperimentale). Ancora una volta l’ipertensione e la proteinuria si sono evidenziati come i più comuni effetti collaterali del trattamento.

Lo studio GOG-021341 è uno studio randomizzato di fase 3 con un duplice end-point:1) dimostrare un vantaggio della chirurgia al momento della recidiva di malattia; 2) dimostrare un vantaggio di OS del bevacizumab quando aggiunto alla chemioterapia a base di carboplatino-paclitaxel nella recidiva platino-sensibile di carcinoma ovarico. Lo studio ha dimostrato un aumento significativo della PFS nelle pazienti trattate con bevacizumab (HR 0,628, p<0,0001) e un aumento della OS molto vicino alla significatività statistica (HR 0,82, p=0,056). L’end-point di aumento della sopravvivenza legato alla chirurgia secondaria, al contrario, non è stato raggiunto.

Infine, lo studio randomizzato di fase 3 tedesco AGO-OVAR 2.2142 ha confrontato la combinazione carboplatino-PLD-bevacizumab vs la combinazione carboplatino-gemcitabina-bevacizumab nella recidiva platino-sensibile di tumore ovarico, dimostrando un vantaggio significativo di circa 2 mesi sia per la PFS (HR 0,80) sia per l’OS nel braccio carbo-PLD-beva, stabilendo quindi un nuovo standard. Purtroppo la combinazione non è rimborsata dall’AIFA.

Bevacizumab beyond progression

In tutti gli studi fino a qui riportati, il bevacizumab veniva utilizzato in pazienti bevacizumab-naïve e ne dimostrava l’efficacia. Studi preclinici, e uno studio clinico sul tumore del colon, suggeriscono il beneficio di proseguire l’inibizione del blocco dell’angiogenesi il più a lungo possibile, anche in pazienti che hanno già precedentemente ricevuto un antiangiogenico e siano andate in progressione di malattia. Lo studio MITO16B43 ha randomizzato 400 pazienti con recidiva platino-sensibile di tumore ovarico, già pretrattate con bevacizumab in prima linea, a proseguire o sospendere il bevacizumab al momento della recidiva platino sensibile di malattia, in combinazione alla chemioterapia a base di platino. Lo studio ha dimostrato un aumento significativo della PFS (HR 0,51) nelle pazienti che ricevevano il bevacizumab a fronte di un profilo di tossicità non peggiorato rispetto a quanto riportato negli studi registrativi in pazienti bevacizumab-naïve. Il dato di OS è ancora immaturo ma purtroppo l’indicazione beyond progression non è registrata dall’EMA né rimborsata dall’AIFA e, al momento, il bevacizumab si può prescrivere solo una volta nell’arco di tutta la storia naturale di malattia del tumore ovarico.

La combinazione con l’immunoterapia

Il razionale di combinare un antiangiogenico con un immunoterapico risiede prevalentemente nel ruolo immunosoppressivo che il bevacizumab esercita e che rende potenzialmente interessante e sinergica la combinazione con l’immunoterapia. Lo studio IMagyn44 ha randomizzato 1301 pazienti con carcinoma ovarico stadio FIGO III-IV di nuova diagnosi a ricevere una chemioterapia a base di platino in combinazione al bevacizumab vs la stessa combinazione con l’aggiunta dell’anti-PD-L1 (Programmed cell Death Ligand-1) atezolizumab, un anticorpo con azione immunostimolante. Lo studio purtroppo non ha raggiunto l’end-point primario e non ha dimostrato un aumento della PFS nel braccio sperimentale (HR 0,92 [95% CI 0,79-1,07]). Un’analisi non pre-pianificata post hoc suggerisce che un beneficio della combinazione sperimentale con l’immunoterapia possa esserci nelle pazienti con elevata (>5%) espressione del recettore PD-L1, che rappresentano circa il 20% della popolazione ovarica, ma rimane una analisi hypothesis generating e come tale non consente di trarre considerazioni conclusive. Inoltre nessun biomarcatore predittivo della risposta è stato evidenziato neanche all’interno delle categorie in cui ci si aspettava una maggiore risposta all’immunoterapia (pazienti portatrici di mutazione BRCA1/2 o tumori con elevato tumor mutational burden).

La combinazione con i PARP inibitori

C’è un importante razionale nel combinare gli antiangiogenici con i PARP inibitori perché l’ipossia induce instabilità genomica e deficit di alcuni meccanismi di riparo del DNA come la ricombinazione omologa (HRD). Lo studio PAOLA-145 ha testato la combinazione del bevacizumab con il PARP inibitore olaparib rispetto al solo bevacizumab nelle pazienti con carcinoma dell’ovaio di nuova diagnosi, stadio III e IV, indipendentemente dalla mutazione del BRCA o dallo stato della ricombinazione omologa. Lo studio ha dimostrato un aumento significativo della PFS nel braccio sperimentale in tutta la popolazione randomizzata (HR 0,59), ma alle analisi pre-pianificate per sottogruppi, il vantaggio della combinazione si è evidenziato solo nelle pazienti HRD, mentre nelle pazienti senza il deficit di ricombinazione omologa il bevacizumab in monoteapia rimane lo standard di cura. L’EMA ha già approvato la combinazione bevacizumab-olaparib nel trattamento di prima linea del tumore avanzato dell’ovaio nelle pazienti con deficit della ricombinazione omologa.

Considerazioni finali

I biosimilari hanno diversi importanti vantaggi per i pazienti e i sistemi sanitari, compreso il potenziale per una maggiore disponibilità di terapie efficaci e mirate per mitigare la carenza di farmaci e fornire risparmi sui costi. Il programma di sviluppo completo per i farmaci biosimilari è progettato per garantire che non vi sia alcun impatto sull’efficacia o sulla sicurezza per i pazienti quando viene loro prescritto un agente biosimilare rispetto al prodotto originale. Si deve dimostrare che il biosimilare proposto è molto simile al prodotto originatore in una serie di test in vitro e in vivo altamente sensibili, che forniscono confronti molto più sensibili di uno studio clinico di confronto. Se i dati preclinici sono effettivamente gli stessi per il biosimilare e il farmaco originale, allora, per definizione, ci si aspetta che l’efficacia sia la stessa.

Sebbene bevacizumab sia efficace in diversi tipi di tumore, NSCLC è considerato una popolazione di pazienti più sensibile rispetto a mCRC in cui rilevare potenziali differenze tra un bevacizumab biosimilare e prodotto originale. L’estrapolazione a indicazioni diverse dal NSCLC, compreso mCRC, si basa sulla totalità delle prove per il biosimilare bevacizumab e sulla giustificazione scientifica basata sulla conoscenza del meccanismo d’azione, farmacocinetica, efficacia, sicurezza e immunogenicità del farmaco di riferimento.

L’utilizzo di bevacizumab nelle varie tappe del percorso terapeutico dei pazienti affetti da mCRC ha condotto a progressivi benefici incrementali in termini di OS che, sommati l’uno all’altro, incidono in maniera significativa e clinicamente rilevante sull’aspettativa di vita dei pazienti. Non solo l’aggiunta di bevacizumab alla chemioterapia di prima e seconda linea ha un impatto sulla prognosi dei pazienti, ma l’opportuno utilizzo nella fase di mantenimento e oltre la progressione di malattia permettono di ottimizzarne l’efficacia e di sfruttarne al meglio il meccanismo d’azione.

Attuali linee di ricerca prevedono la combinazione di bevacizumab con gli inibitori dei checkpoint immunitari con lo scopo di rendere efficace questa strategia terapeutica già affermata in diverse neoplasie solide anche nel mCRC con stabilità dei microsatelliti. Il razionale che sottende a tale approccio sperimentale è rappresentato dalle proprietà immunomodulanti di bevacizumab capace di favorire l’afflusso dei linfociti T citotossici a livello tumorale, di potenziare l’attività delle cellule dendritiche e di inibire i linfociti regolatori ad azione immunosoppressiva. Sebbene le evidenze raccolte dai trial clinici che hanno valutato questa strategia nel carcinoma colorettale non siano promettenti, altri studi sono attualmente in corso.

Per quanto riguarda l’uso degli antiangiogenici nella cura del tumore ovarico, questi hanno un ruolo importante, in prima linea, ma ancora di più probabilmente al momento della recidiva sia platino-sensibile che platino-resistente. Purtroppo, a fronte di tanti trial positivi in tutti i setting di malattia, non tutte le indicazioni sono rimborsate, privando le nostre pazienti di due opportunità importanti: il trattamento della malattia platino-resistente e il trattamento beyond progression.

Contributi degli autori all’articolo: Romano Danesi ha curato l’introduzione, la parte farmacologica e le considerazioni finali; Chiara Cremolini ha curato il paragrafo dedicato ai pazienti affetti da carcinoma colorettale metastatico e le considerazioni finali; Domenica Lorusso e Francesca Ciccarone hanno curato i paragrafi dedicati al ruolo del bevacizumab nel trattamento del carcinoma dell’ovaio e le considerazioni finali.

Conflitto di interessi: RD ha partecipato ad advisory board per: Amgen. MSD, Roche, Gilead, Lilly, Pfizer, Janssen, AstraZeneca, GSK e Incyte. CC ha partecipato ad advisory board per: Amgen, Bayer, Merck, MSD, Roche, Servier; ha inoltre ricevuto finanziamenti istituzionali per progetti di ricerca da: Bayer, Merck, Roche, Servier. DL ha partecipato ad advisory board per: Amgen, AstraZeneca, Clovis Oncology, GSK, MSD, PharmaMar. FC dichiara l’assenza di conflitto di interessi.

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