L’arte della probabilità.
Certezze e incertezze della medicina

di Gianna Milano

Domanda: “Dottore cosa ho? Quali esami devo fare perché la diagnosi sia sicura e lei possa darmi una terapia efficace? Come starò dopo la cura? Posso sperare in una guarigione?”. Domande e ancora domande. Ma quante volte un medico riesce a rispondere con certezza e quante volte durante una giornata di visite, diagnosi, trattamenti e prognosi non viene assalito dall’ombra del dubbio? Il tema è di assoluta attualità e ruota attorno ai limiti della medicina che nonostante gli alti livelli raggiunti negli ultimi decenni procede sempre, e comunque, per tentativi. Non ha paura dell’errore, ma lo accetta, lo supera e impara da esso. «Un medico questo deve saperlo. È necessario porsi domande per ragionare sull’efficacia dei trattamenti e più in generale sui vantaggi e sui limiti della medicina moderna… Per esempio, è sempre indispensabile approfondire una diagnosi (con una Tac o una risonanza magnetica) prima di iniziare una terapia? Come si può valutare il rapporto tra rischi e benefici di una cura (che potrebbe avere diversi effetti collaterali)? E, soprattutto, quanti degli interventi medici diagnostici e terapeutici si basano su solide evidenze scientifiche?». A porsi queste domande nell’introduzione al suo libro L’arte della probabilità. Certezze e incertezze della medicina (edito da Raffaello Cortina), è Daniele Coen, medico d’urgenza che ha guidato per quindici anni il Pronto Soccorso dell’ospedale Niguarda di Milano. Un lungo viaggio, il suo, attraverso esperienze passate di trattamenti inefficaci ma diffusi, come il salasso nel Seicento utilizzato in risposta a ogni genere di malattia, fino a pratiche usate in tempi molto più recenti, seppure in assenza di un adeguato corpo di conoscenze. L’autore racconta come negli anni Cinquanta per i pazienti infartuati il consenso unanime degli esperti era di tenere i malati a riposo assoluto. Consuetudine priva di basi scientifiche e di dimostrazioni sperimentali, solo una scelta di buon senso. Dimostratasi in seguito errata.

«Anche oggi succede, e molto frequentemente, che i medici debbano prendere delle decisioni in assenza di un adeguato corpo di conoscenze. In questi casi, in modo analogo a quanto succedeva negli anni Cinquanta per i pazienti infartuati, non possono che fare riferimento a quella che viene chiamata “la buona pratica medica” e cioè a quello che la maggior parte dei medici riterrebbe di fare in una situazione analoga» scrive l’autore.

Metodo sperimentale
e prove di efficacia

Un’evoluzione di questo concetto c’è stata e si chiama “metodo sperimentale”. La scienza medica si fonda oggi su prove di efficacia ottenute con studi clinici controllati in cui la validità dei trattamenti viene verificata assegnando in maniera casuale (random) dei pazienti al gruppo trattato o a quello dei controlli (fu Bradford Hill a introdurre questo nuovo approccio con lo studio sulla streptomicina per curare la tbc)1 e su linee guida dove il parere di un team di luminari sostituisce una consuetudine terapeutica fino a quel momento diffusa. Tutto questo dovrebbe tranquillizzarci: in fatto di salute ci piacerebbe infatti avere risposte chiare e sapere che ogni scelta terapeutica si basa su una compiuta e adeguata sperimentazione e su dati al di sopra di ogni sospetto. Ma non è proprio così. Secondo uno studio citato da Coen sul British Medical Journal (BMJ) solo il 18 per cento delle decisioni dei medici di medicina generale trova supporto in dati sperimentali di buona qualità2. Questo significherebbe che oltre l’80 per cento delle pratiche mediche non è sufficientemente fondato? «Ci sono conoscenze scientifiche imperfette e un medico deve restare continuamente disponibile a rivedere e rivalutare le proprie decisioni» scrive l’autore.

Gli studi clinici
e il ruolo dell’industria

«La mole di articoli di argomento clinico pubblicati ogni anno (quasi un milione) sulle riviste scientifiche e le decine di istituzioni nazionali e sovranazionali che controllano la documentazione sulla sicurezza e l’efficacia di ogni farmaco prima della commercializzazione dovrebbero farci ritenere impensabile che una terapia possa essere somministrata a decine di migliaia di pazienti prima che qualcuno si accorga che non ha effetto, o peggio, che produce più danni che benefici. Purtroppo la storia degli ultimi vent’anni, forse in modo ancora più sorprendente di quella dei duemila anni precedenti, testimonia il contrario e documenta che le cose sono in realtà cambiate meno di quanto ci piacerebbe credere» scrive Coen. Clamorosi i casi della cerivastatina (Lipobay il nome commerciale), l’anticolesterolo della Bayer approvato nel 1997 e ritirato dal commercio nel 2001 perché collegato a una rara forma di mialgia, oppure del rofecoxib (Vioxx), l’antinfiammatorio della Merck che, dopo aver superato gli studi clinici senza problemi e l’approvazione della FDA, fu immesso sul mercato nel 1999 e ritirato nel 2004. Nel frattempo era stato prescritto a circa 80 milioni di persone con un incremento del rischio di infarto e ictus. Come è potuto accadere? Gli studi clinici, caposaldo su cui si fonda la cultura terapeutica dei medici, non sempre sono inattaccabili. Marcia Angell, ampiamente citata da Coen, che ha diretto il New England Journal of Medicine, elenca tre punti critici che restano validi a distanza di quindici anni dalla pubblicazione del suo libro Farma&Co3. «Cominciamo dal primo dei tre punti. E cioè quale ruolo gioca oggi l’industria nella sponsorizzazione degli studi clinici randomizzati (RCT). I dati tratti dall’analisi sistematica di oltre 600 studi pubblicati sulle più importanti riviste mediche ci dicono che, mentre nei primi decenni, soprattutto negli Stati Uniti, il finanziamento era prevalentemente di natura pubblica, dall’inizio degli anni Novanta, quando le autorità regolatorie hanno cominciato a richiedere gli RCT come metodo obbligatorio per la documentazione di efficacia, il finanziamento industriale è progressivamente aumentato, fino a essere oggi maggioritario» scrive l’autore. E se è buona cosa che l’industria investa risorse negli studi clinici con l’intento di produrre nuovi farmaci traendone guadagno, è bene stare in guardia a non confondere gli obiettivi dell’industria, ammonisce la Angell, con quelli dei medici. Uno dei “bias” o pregiudizi/criticità degli studi clinici sponsorizzati dall’industria è che «i dati raccolti diventano proprietà della stessa, che decide come analizzarli e, soprattutto, se pubblicarli o no». E i risultati positivi hanno maggiore probabilità di essere pubblicati e quindi di influenzare l’operato dei medici. «Possono essere enormi le difficoltà che incontra chi vuole ottenere i dati clinici non pubblicati dalle aziende farmaceutiche e, in alcuni casi, anche dalle agenzie regolatorie che avrebbero tra i loro compiti proprio quello di garantire la trasparenza delle informazioni»4.

Il controllo delle big farma
sui trial clinici

Il secondo dei tre punti indicati da Marcia Angell, e ripreso nel libro dall’autore, ruota attorno al trasferimento di somme di denaro elargite a ospedali e medici dall’industria per ogni paziente arruolato in uno studio clinico. «Cifre che variano a seconda della durata e della complessità dello studio, ma non ci si allontana troppo dal vero indicando una forbice che può andare da un minimo di duemila a un massimo di diecimila euro per paziente». È difficile credere che questi legami con le aziende farmaceutiche, sostiene la Angell e concorda Coen, non inficino in alcun modo la ricerca a favore di chi la finanzia. «Le big farma non si limitano a controllare nel dettaglio il modo in cui vengono condotti i trial clinici, ma in aggiunta cercano di conquistare anche il cuore e la mente dei ricercatori»3. I conflitti di interesse (COI) sono pervasivi in medicina e la loro influenza sulle linee guida cliniche (raccomandazioni proposte da esperti del settore) una preoccupazione. «Molte grandi società scientifiche impegnate nella produzione di linee guida evitano addirittura di pubblicare i conflitti di interesse dei propri autori, assumendosi direttamente la responsabilità di valutarli e di escludere chi ne sia portatore dal discutere, o dal decidere, o dal votare, in toto o in parte, i documenti che vengono redatti» scrive Coen, citando la policy della European Society of Cardiology.

In un editoriale su The Lancet del 2019 Ramy Saleh e colleghi riferirono come «44 (l’85%) dei 52 primi e ultimi autori delle linee guida per la pratica clinica della terapia sistemica pubblicati sul sito web dell’American Society of Clinical Oncology, fra agosto 2013 e giugno 2018, avessero ricevuto pagamenti dall’industria mentre 14 (32%) non avesse rivelato tali pagamenti»5. Per garantire linee guida affidabili, si precisa nell’editoriale, l’American College of Physicians (ACP) ha deciso di aggiornare i suoi criteri per la “disclosure”, ovvero la dichiarazione e la gestione di interessi conflittuali nella stesura di linee guida cliniche. In pratica chiunque deve rendere noti tutti gli interessi finanziari e intellettuali attivi e inattivi a partire dai tre anni precedenti all’incarico e aggiornare i propri conflitti durante lo svolgimento dei lavori di stesura6. «Le persone devono essere in grado di fidarsi del fatto che si sono compiuti tutti gli sforzi per ovviare a possibili interferenze nello sviluppo delle linee guida cliniche in modo che le decisioni per la cura dei pazienti ­siano fondate solo sulle migliori prove disponibili, e non siano influenzate da interessi conflittuali» conclude l’editoriale.

L’importanza delle linee guida

La centralità delle linee guida nella pratica sanitaria ha iniziato a essere messa in primo piano negli anni Ottanta più o meno in concomitanza con la formalizzazione dei principi della evidence-based medicine. «Uno degli obiettivi delle linee guida è la riduzione dell’incertezza, forse il principale. Incertezza che caratterizza la quasi totalità delle situazioni cliniche complesse (esistono aree grigie della conoscenza) e che potrebbe trarre vantaggio dalla disponibilità di raccomandazioni7. La parola d’ordine dovrebbe essere “trasparenza”, enfatizzava nel 2016 il Guidelines International Network fondato nel 2002, rete che rappresenta un centinaio di organizzazioni che producono linee guida in 48 Paesi8. Emblematico il caso sollevato dal BMJ9. Neil Stone, cardiologo al Northwestern Memorial Hospital di Chicago, aveva intrattenuto relazioni con industrie farmaceutiche fino al 2008, pochi mesi prima che si costituisse un gruppo di lavoro incaricato di redigere le nuove linee guida sul controllo del colesterolo. La posizione poco limpida di Stone, risultava dall’analisi pubblicata sul Journal of the American Medical Association Internal Medicine fatta da Tom Jefferson e Steven D. Pearson, rispettivamente della Cochrane Collaboration, gruppo no-profit che valuta l’efficacia degli interventi sanitari, e dell’Institute for Clinical and Economic Review di Boston: in un articolo di Stone del 2008 nella dichiarazione di COI erano elencate collaborazioni con varie industrie farmaceutiche. Le linee guida sulle ipercolesterolemie hanno influito (e non poco) sulla pratica clinica negli ultimi anni (con il boom della vendita di statine), e dei 16 componenti del comitato che le ha stilate 7 avevano ricevuto finanziamenti per la ricerca da industrie e 6 riferivano di aver anche effettuato consulenze10.

Il ruolo del medico

«È importante sottolineare come le linee guida non possono sostituire il giudizio clinico, perché esse sono in grado di offrire solo indicazioni di carattere generale, non essendo adeguate a rispondere alla situazione specifica e mutevole di ogni paziente. […] La discrezione del medico nel decidere se e come applicare le indicazioni delle linee guida deve essere salvaguardata. Si potrebbe addirittura dire che il mestiere del medico moderno sta proprio nel fungere da tramite tra le conoscenze scientifiche e le caratteristiche/esigenze di ogni singolo paziente» scrive Coen. Un fatto ampiamente riconosciuto. Ma le cose non sono così semplici. «La scienza è la base su cui si fonda il tentativo della medicina di dire la verità. […] È importante non essere mai sicuri e continuare a esaminare i fatti alla luce dell’esperienza e della sofferenza di ogni paziente. […] Incertezza e dubbio sono essenziali, perché è indispensabile dubitare della verità delle spiegazioni esistenti e dunque cercarne di migliori» scrive Iona Heath, presidente del Royal College of General Practitioners dal 2009 al 201211. «Si cura tremando» confessava Georges Canguilhen, filosofo e medico francese, nei suoi scritti sulla medicina12. «L’incertezza non è un disturbo temporaneo di cui ci si può liberare imparando le regole, arrendendoci agli esperti o facendo quel che fanno gli altri. Al contrario, è una condizione permanente di vita. È il terreno stesso su cui il sé morale si radica e cresce. La vita morale è una vita di incertezza costante ed essere una persona morale richiede un sacco di forza e di elasticità e la capacità di resistere alle pressioni» ha detto il sociologo e filosofo polacco Zygmunt Bauman13.

La dimensione etica dovrebbe essere propria sia di chi fa ricerca sia di chi fa assistenza sanitaria: «Un lavoro che è o dovrebbe essere un lavoro sia di giustizia che di amore. Perché la caratteristica basilare della medicina (e della ricerca biomedica) è quella di essere insieme e indissolubilmente scienza e assistenza. In quanto scienza, e come ogni scienza, la medicina ha il fine di espandere le conoscenze; in quanto assistenza ha però quale fine primario il benessere dell’individuo, ciò implica la scelta etica di attribuire un valore assoluto alla persona umana». Sono le parole di Renzo Tomatis, epidemiologo e direttore dalla Agenzia internazionale per la ricerca sul cancro (IARC) di Lione, intervistato dallo scrittore Claudio Magris14. «La medicina è migliorabile ma non infallibile: e anche quando fallisce la “cura” del malato deve sempre esserci. Perché è un’impresa che si fonda su certezze consolidate ma anche incertezze e sulla condivisione a un malessere per il quale non sempre esistono terapie efficaci. Le sole cose di cui disponiamo per contrastare questi danni sono la forza dei rapporti umani e l’interesse per la persona».

I medici devono imparare a vivere con l’incertezza ma non sono facilitati ad acquisirne consapevolezza fin dai tempi dell’università. «A partire dai primi anni di studio universitario i futuri medici dovrebbero essere addestrati a leggere criticamente la letteratura scientifica, a riconoscere gli studi clinici affidabili da quelli mal costruiti, a sviluppare un processo diagnostico e decisionale attento ai trabocchetti posti da esami falsamente positivi o negativi, dagli errori umani di interpretazione, e dai tanti bias che condizionano l’agire medico. Purtroppo così non è. Nella migliore delle ipotesi, di queste cose si parla nel corso di biometria e statistica medica, insegnate al primo o al secondo anno del corso di laurea e presto dimenticate. Per il resto tutto è lasciato alla buona volontà dei docenti e alla curiosità dei discenti che, quando pure siano animati dalle migliori intenzioni, difficilmente possono reggere il confronto con l’impegno profuso dall’industria farmaceutica nel promuovere i propri prodotti, o con l’autorevolezza autoreferenziale di molti testi o linee guida» scrive Coen.

Il valore di un medico si gioca all’interno delle aeree grigie della conoscenza e delle decisioni che si trova a prendere quotidianamente nella pratica clinica. Come asseriva Bernard Lown, il cardiologo statunitense che ha inventato il defibrillatore, la cosa più importante è ridurre le aspettative su quello che la medicina può fare, senza per questo far venire meno la fiducia nel medico. Ma perché questo succeda è necessario modificare alcuni aspetti fondamentali dell’educazione e della formazione dei medici.

Bibliografia

1. Bradford Hill A. The clinical Trial. N Engl J Med 1952; 247: 113-9.

2. Ebell MH, Sokol R, Lee A, Simons C, Early J. How good is the evidence to support primary care practice. Evid Based Med 2017; 22: 88-92.

3. Angell M. Farma&Co. Industria farmaceutica: storie straordinarie di ordinaria corruzione. Milano: Il Saggiatore, 2006.

4. Goldacre B. Effetti collaterali. Come le case farmaceutiche ingannano medici e pazienti. Milano: Mondadori, 2013.

5. The Lancet. Managing conflicts of interests in clinical guidelines. Lancet 2019; 394: 710.

6. Milano G. Conflitti di interesse in medicina. Salute internazionale 2019; 23 ottobre.

7. Dirindin N, Rivoiro C, De Fiore L. Conflitti di interesse e salute: come industria e istituzioni condizionano le scelte del medico. Bologna: Il Mulino, 2018.

8. Adnkronos. Sanità: Gimbe, affrontare nodo conflitto interessi per linee guida trasparenti. Adnkronos 2016; 21 marzo.

9. Lenzer J. Half of panelists on controversial new cholesterol guideline have current or recent ties to drug manufacturers. Br Med J 2013; 347: f6989.

10. Jefferson AA, Pearson SD. Conflict of Interest in Seminal Hepatitis C Virus and Cholesterol Management Guidelines. JAMA Intern Med 2017; 177: 352-7.

11. Heath I. Contro il mercato della salute. Torino: Bollati Boringhieri, 2016.

12. Cangilhem G. Sulla Medicina. Torino: Einaudi, 2007.

13. Bauman Z. Instambul Seminars, 2010.

14. Magris C. Il romanzo italiano orfano della scienza. Corriere della Sera 2005; 4 luglio.