In questo numero

Nell’ottobre del 1946, nel nord Italia sono ancora vive le proteste dei gruppi partigiani, scontenti per i provvedimenti del governo riguardo i reati politici compiuti durante il ventennio fascista e per il modesto riconoscimento del valore dei combattenti per la Liberazione. La sentenza del tribunale di Norimberga sui crimini nazisti è di pochi giorni prima. Le trasmissioni radio non sono ancora riprese su tutto il territorio nazionale dopo l’8 settembre 1943 e il Corriere della Sera ha riavviato solo tre mesi prima le pubblicazioni.

In questo clima esce il primo numero di “Recenti Progressi in Medicina”, la rivista mensile intorno alla quale si svilupperà da subito la casa editrice “Il Pensiero Scientifico”. L’obiettivo è quello di favorire l’ingresso in Italia delle nuove conoscenze che il mondo scientifico anglosassone stava producendo e che per troppi anni erano state oscurate dal fascismo in nome di un’autarchia anche culturale che trovava nella determinazione a produrre e usare solo carta italiana – e dalle fibre più improbabili – la sintesi più incredibile e farsesca.

A distanza di 75 anni l’editoria medico-scientifica vive allo stesso tempo il proprio momento di massimo benessere economico e di più profonda crisi di credibilità. Da un parte, infatti, i grandi protagonisti dell’editoria scientifica stanno sfruttando la concorrenza di diversi modelli imprenditoriali tutti comunque di successo: al business tradizionale fatto di manuali accademici e riviste diffuse in abbonamento si sono da tempo affiancati sia il modello open access (che prevede che a pagare per la pubblicazione siano gli autori o le loro istituzioni, in varie declinazioni) sia quello ibrido, che sembra destinato a essere il punto d’incontro capace di mettere tutti d’accordo. D’altro canto, la fiducia dei cittadini nell’informazione prodotta dalla medicina accademica risente del protagonismo di clinici e ricercatori che rivendicano visibilità e autorevolezza solo in base al proprio h-index o alle pubblicazioni ottenute su riviste famose. Fiducia incrinata pure dagli importanti passi falsi che durante i lunghi mesi della pandemia hanno compiuto anche gruppi editoriali e riviste stimate.

Al di là di queste difficoltà, resta l’impegno di oltre 110 mila persone direttamente impiegate dall’industria editoriale scientifica nel mondo e di più di 30 mila grafici, redattori e traduttori che lavorano nell’indotto. Una survey condotta pochi anni fa dice però che questa forza lavoro qualificata e produttiva non si sente protetta in termini di diritti essenziali e di equità di genere: il gap retributivo tra maschi e femmine sembra essere vicino al 13 per cento a danno della donna.

Queste sono solo alcune delle contraddizioni di un comparto produttivo – per così dire – in crisi di crescita: la concentrazione della produzione di informazione nelle mani di pochi enormi player internazionali espone i cittadini a rischi sottovalutati. Abbiamo finalmente capito durante questi mesi di pandemia quanto sia importante l’informazione, e un’editoria scientifica che persegue unicamente il profitto non è esattamente quel che ci vuole.